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Intervista a Eugenio Tibaldi | Premio Ermanno Casoli

Intervista di Giacomo Pigliapoco — Eugenio Tibaldi (Alba, 1977) è il vincitore della XX Edizione del Premio Ermanno Casoli (2022). Nella sua pratica artistica, dopo una prima fase di annotazione dei segnali culturali presenti nei tessuti di aree marginali, viene attuato un processo di riorganizzazione delle strutture sociali ed economiche, dove gli equilibri si invertono […]

Eugenio Tibaldi – COLLAGE MARSHY – Foto Barbara Sales

Intervista di Giacomo Pigliapoco

Eugenio Tibaldi (Alba, 1977) è il vincitore della XX Edizione del Premio Ermanno Casoli (2022). Nella sua pratica artistica, dopo una prima fase di annotazione dei segnali culturali presenti nei tessuti di aree marginali, viene attuato un processo di riorganizzazione delle strutture sociali ed economiche, dove gli equilibri si invertono e i poteri si alternano in un continuo gioco dinamico di forme e significati.
I suoi lavori, crocevia tra progettazione architettonica, rappresentazione estetica e riflessione teorica, registrano necessità ambientali e trasformazioni ecologiche attraverso un atteggiamento olistico che porta il visitatore a vivere un’esperienza aperta e immersiva.
Di seguito un dialogo con l’artista attorno alla sua ultima installazione concepita per il Premio Casoli: uno spazio aperto iscritto attorno alla materia della biodiversità, dell’antropologia e del dono.
MARSHY (2022) è un’installazione site-specific e permanente, di forma circolare e di dodici metri di diametro, che prende in prestito il nome dall’inglese e fa riferimento a un ambiente palustre. La palude, zona liminare e biologicamente complessa, è storicamente considerata zona insidiosa e di poca utilità. Tuttavia in questo habitat è presente uno dei più alti tassi di biodiversità al mondo. MARSHY rappresenta un ecosistema naturale, composto da arbusti e da centinaia di sagome di uccelli appollaiati su uno specchio d’acqua, tra i suoni melodiosi che si propagano fino alla collina della fisarmonica: la città di Castelfidardo (An).

MARSHY – Eugenio Tibaldi – Installation View – Foto Lorenzo Morandi

Giacomo Pigliapoco: La formazione pittorica ricevuta, affermi, ti porta sovente a effettuare attente osservazioni delle varie zone in cui hai lavorato, da Torino a Istanbul, da Napoli a Salonicco, da Roma a l’Avana, da Tirana ad Addis Abeba, fino a Caracas. In ogni occasione la tua ricerca parte da un punto di vista analitico sulle particolarità di un territorio per te sconosciuto e ti porta ad attuare delle elaborazioni teoriche che si riversano poi nelle installazioni. Nelle Marche, precisamente a Castelfidardo (An) – zona piuttosto periferica e marginale rispetto ad altre aree più economicamente sviluppate – quali aspetti hai osservato e analizzato per arrivare a concepire MARSHY?

Eugenio Tibaldi: Le Marche mi sono vicine per l’interesse che nutro nei confronti della provincia italiana. La provincia, intesa come margine espanso e caratteristica fondamentale del nostro paese, rappresenta un luogo di dinamiche socio-economiche importantissime con risultanze estetiche e concettuali capaci di offrire chiavi di lettura alternative.
MARSHY è il connubio fra due diverse volontà, quella della Fondazione Ermanno Casoli di generare attraverso l’arte contemporanea un’installazione fra azienda e territorio, e la mia volontà di ricercare un’ulteriore definizione del bordo, del liminare, che si manifesta attraverso lo scarto, il difetto e la relativa possibilità di ragionare su aspetti come allineamento ed equilibrio. L’invito di Marcello Smarrelli, (Direttore Artistico e Curatore del Premio) è avvenuto in un momento molto delicato: da un lato si stava uscendo dal periodo pandemico e dall’altro iniziava a svilupparsi un critico assetto da guerra che non si vedeva dalla metà del secolo scorso. Queste condizioni mi hanno portato a ricercare un’estetica di piena leggerezza formale, di sospensione, non tanto per distacco dalla situazione contingente, bensì per provare a osservare la situazione con strumenti diversi.

MARSHY – Eugenio Tibaldi – Installation View – Foto Lorenzo Morandi

GP: Spesso nelle tue opere adotti una pratica dal sapore antropologico. In questo caso è stato chiesto a tutti i lavoratori del gruppo Elica-mondo di segnalare un volatile che sarebbe poi comparso all’interno dell’installazione. Il risultato è stata la creazione sul piano estetico di una biodiversità specifica, composta da più di 200 specie alloctone di volatili, appartenente a un’area geografica immaginaria. MARSHY è pertanto considerabile come un tuo modo per ricreare un legame con la natura che è andato man mano affievolendosi nella società industrializzata e di riempire di significato una parola spesso abusata nei discorsi di propaganda ecologista, come biodiversità?

ET: Tutto ciò che vedi o che trovi nel lavoro esiste al di là della mia volontà. MARSHY è un pensatoio, uno specchio su cui far rimbalzare le tensioni che ci appesantiscono quotidianamente. In tutta onestà non vi è alcuna accusa diretta al rapporto uomo-natura nel mio lavoro, tutto ciò che vediamo è finzione, imitazione e, nella migliore delle ipotesi, ricordo. L’opera è un ambiente di pura astrazione figurativa che tenta di offrire una via d’uscita grazie a questo senso di sospensione.

GP: Quanto sono importanti nel tuo lavoro la condivisione delle esperienze e il dono di un oggetto? Spesso arrivi a decontestualizzare un oggetto usato, ancora carico di vita, dalla sua collocazione abituale, per poi ricontestualizzarlo altrove, mantenendo intatta la storia alle sue spalle. Anche in quest’opera ci sono pezzi della storia di tantissime persone: le posate. Hai elevato un oggetto secondario, dimenticato, come vecchie posate spaiate, rileggendole e portandole a diventare altro…

ET: Ho invitato i dipendenti di EMC FIME, il plant produttivo del gruppo presente a Castelfidardo, a donarmi un elemento appartenente al loro quotidiano, una posata che utilizzano per cibarsi. L’ho fatto per tante ragioni ma credo che la più profonda sia quella che mi porto dietro dalla mia provincia di origine, Alba, in cui gli operai affermano: l’azienda ti dà il pane, ti sfama. Pertanto portare questo dettaglio intimo di ogni singolo lavoratore nell’estetica del lavoro è stato per me un modo diretto per poter inserire ognuno all’interno dell’installazione, senza attuare alcun tentativo di riduzione o modifica.

MARSHY – Eugenio Tibaldi – Installation View – Foto Lorenzo Morandi

GP: In alcune precedenti produzioni come Landscape (2002-2004)o Supernatural (2010)avevi agito con la pittura bianca per cancellare il paesaggio e focalizzare l’attenzione sulla forma architettonica nel suo insieme.
Qua emerge dall’acqua una fitta vegetazione caratteristica di un ambiente palustre: arbusti, piante, bambù, fiori, popolata da una colonia di volatili, il tutto costruito riutilizzando gli scarti della produzione aziendale delle aziende. Anche stavolta il campionamento del colore bianco viene utilizzato come tentativo di cancellazione, per far emergere i colori spiccosi dei volatili, simboli di una precaria protezione delle specie, oppure l’intento è quello di mettere in evidenza il materiale industriale di scarto che hai riutilizzato?

ET: Il bianco purifica, salva, permette allo sguardo di perdonare, pone la giusta distanza fra l’oggetto e l’osservatore.
Il bianco delle mie produzioni bidimensionali serve a rendere il soggetto osservabile decontestualizzandolo ed emancipandolo dal reale, rendendo quel luogo digeribile in quanto “altro” da noi. In questo caso ho utilizzato il bianco per restituire la possibilità germinale della purezza a elementi già consumati vetusti, difettati o scartati. Si tratta sempre di un effetto di copertura e mai di cancellazione. I bianchi per me sono un livello ulteriore nella stratificazione dell’immagine di partenza o della storia che sto narrando e se qualcuno volesse grattarli via, sotto troverebbe molto altro. Tornando alla domanda, i volatili sono una mia fobia pittorica dell’ultimo anno, attraverso le loro pose e i loro colori ritraggo le comunità con cui opero e mi permettono di parlare delle necrosi che attanagliano la società di questo tempo. In questo caso vi è una rappresentazione della comunità Elica-mondo che ha scelto questi uccelli: dai lavoratori delle fabbriche del Messico a quelle del Giappone, che probabilmente non vedranno mai dal vero MARSHY, pur facendone parte. Spesso sono sagome singole, immagini scaricate da internet con la loro definizione e la loro luce, non c’è né ricerca armonica nella scelta né tantomeno nel posizionamento che ho condiviso con i dipendenti. Forse MARSHY è stata in grado di generare una post-armonia.

GP: Molto interessante questo punto. Ti va di definire meglio cosa intendi per post-armonia?

ET: La post-narrazione è un’eredità preziosa che mi ha lasciato la periferia. In questo contesto non tutto può essere progettato fino in fondo e spesso il punto d’arrivo si altera durante il percorso. Ciò vale sia per le case abusive che per i miei lavori, sono propositi che si possono solo post-progettare.
L’armonia è qualcosa che la cultura formale raggiunge attraverso l’esecuzione di precise istruzioni. Nei miei lavori avviene qualcosa di più selvaggio, simile alla vegetazione boschiva, dove l’estetica è un compromesso e la risultante del rapporto fra condizioni ambientali, sociali, forza personale e necessità. Per queste ragioni trovare armonia in un lavoro come MARSHY è un enorme dono, per nulla scontato.

MARSHY – Eugenio Tibaldi – Installation View – Foto Lorenzo Morandi

GP: I volatili sono un particolare ricorrente nelle tue ultime opere come dicevi poco fa. Nonostante qua tu abbia lavorato anche con specie immaginarie, come la fenice…

ET: Tutto è iniziato con il lavoro Simposio 01 fatto per la mostra Architetture dell’isolamento, scaturito alla lettura di Il verbo degli uccelli di Farid ad-din Attar. In quel testo ogni uccello portava con sé la sua bellezza ed era l’incarnazione di un particolare difetto umano. Ancora una volta mi trovavo di fronte all’impossibilità di scindere il giusto dallo sbagliato e la meraviglia dal disastro. 
La mia richiesta fatta pervenire agli operai del gruppo Elica-mondo era molto precisa: ho chiesto loro di inviarmi il nome di un uccello da cui si sentivano rappresentati. La fenice è un uccello immaginario ed evocativo, ma si ambienta bene in una palude completamente artefatta, popolata da ghiandaie, upupe, colibrì, pinguini, galline e aquile.

GP: Mi sembra che la tua non sia una volontà di presentare un processo reale, bensì è la conoscenza diretta di quelle dinamiche che definiscono lo scarto come elemento centrale della società attuale. Scarto come materia riutilizzabile e pregna di contenuto vitale che può essere riutilizzato per disegnare una nuova configurazione: quella in cui l’apprezzamento per la vita passa attraverso l’accettazione della morte, quella basata su una concezione ecosofica, dove l’elemento artificiale diviene naturale e viceversa quello naturale si trasforma in artificiale.

ET: Nulla di quello che faccio ha a che fare con il reale, credo che questo non sia compito dell’arte in generale e di certo non della mia. La mia tensione si muove intorno alla sfera del percepito e i miei lavori non sono altro che grimaldelli attivabili attraverso lo sguardo di chiunque voglia viverli.
Il mio lavoro non richiede di percorrere itinerari obbligati di conoscenza per giungere a una lettura specifica ne tantomeno si avvale di citazioni. Ogni visitatore capirà esattamente il lavoro, anzi continuerà a costruirlo attraverso la ridefinizione continua del senso, un po’ come avviene in questo tempo storico, dove siamo portati a inseguire forzatamente una continua e costante ridefinizione del sé. Vita e morte sono elementi imprescindibili, troppo reali e complessi per me, io rifuggo nel laterale possibile, in quello spazio grigio in cui si cerca di fregare il rapporto fra spazio e tempo.

MARSHY – Eugenio Tibaldi – Installation View – Foto Lorenzo Morandi

GP: Con la confluenza delle sue tre vie d’accesso: una dal primo stabilimento produttivo, una dal secondo, e una dalla strada, l’installazione è presentata come spazio da guardare, ma soprattutto come spazio da vivere e come integrazione fra le caratteristiche emerse nel territorio: natura, storia e industria. Un’oasi urbana in pratica, uno spazio pubblico in cui l’uomo può entrare in contatto con l’elemento acquatico e vivere lo spazio centrale, circondato da questo ambiente ricco di “forme di vita”…

ET: Come accennavo precedentemente, ho concepito MARSHY come un pensatoio, un luogo dove separarsi dal reale in pochi istanti, dove percorrere un vialetto permette di entrare in un tranquillo spazio paludoso che attiva delle variabili. Nonostante l’ambientazione sia la ricreazione finzionale di un mondo simulato, il lavoro approfondisce anche il rapporto fra vero e falso e quanto quest’ultimo sia, in un momento storico in cui l’informazione ha superato la formazione, una condizione davvero fragile.

GP: Il prefisso etno- indica la fusione di due tematiche di studio appartenenti a campi differenti. L’etnoscienza classica studiata dalla fine degli anni ’50 del Novecento, affonda le radici nelle letteratura dei viaggi e nelle relazioni antropologiche effettuate dagli esploratori nei secoli passati, procurando una notevole quantità di nomi, classificazioni, usi e costumi delle conoscenze popolari. Le descrizioni di varie flore e faune sarebbero il riflesso di quei legami interpretativi che uniscono le persone e formano una differente visione del mondo. Nella tua pratica, ma soprattutto in MARSHY, approfondisci la relazione biunivoca che consta tra i legami interpersonali e la percezione dell’ambiente naturale. Potremmo leggere la tua pratica artistica quindi come un corpus di elementi che coesistono in chiave etnoscientifica?

ET: Direi di sì, anzi ti ringrazio per questa lettura così interessante del lavoro che mi permette di valutare il percorso con una precisione maggiore.
Sono sempre il primo spettatore delle mie installazioni per cui il rapporto che ho con loro dal momento in cui esistono, cambia o meglio si scinde. Da un lato sono l’autore e quindi il responsabile del palinsesto visivo ed estetico che propongo, dall’altro sono lo spettatore che osserva curioso il risultato e si lascia suggestionare dal senso dell’opera che ha davanti.
L’oggetto finale del mio lavoro è qualcosa che non riesco mai a immaginare con enorme precisione dall’inizio, è qualcosa che si evolve e si muove di continuo nel campo della ridefinizione. L’unica possibilità che ho, nel tentare di allargare le maglie dell’estetica, è quella di non immaginare il risultato a priori, ma di farlo fluire e di attenderlo. Per questo accade spesso che alcuni dei miei lavori si risignifichino in una fase post-progettuale, quando posso studiarli non tanto nella loro valenza concettuale ma in quella fisica, reale e indipendente da me.

EUGENIO TIBALDI – Ritratto – foto Barbara Sales