Erin Johnson – Daisy Chain | Galleria Eugenia Delfini, Roma

"Sebbene il processo dietro le quinte sia meravigliosamente caotico e massimalista, i video di Johnson sono di per sé molto parsimoniosi. Molto poco indirizza lo sguardo in una direzione piuttosto che nell'altra. Viene presentata una scena e si è liberi di girarci intorno. Il contesto viene spesso taciuto, non per confondere o sedurre, ma per permettere alle nostre impressioni di maturare senza la pesante imposizione dei fatti." Dal testo critico di Wendy Lotterman
24 Febbraio 2023
Erin Johnson, Daisy Chain, 2023, Galleria Eugenia Delfini, Roma. Foto dell’allestimento – Foto Carlo Romano. Courtesy dell’artista e della galleria

E’ in corso alla galleria Galleria Eugenia Delfini di Roma, la Daisy Chain, prima mostra personale dell’artista statunitense Erin Johnson (1985). Johnson lavora principalmente con il video e l’installazione su temi come la complessità delle relazioni interpersonali, il desiderio queer e la resistenza di genere.
Il titolo della mostra, Daisy Chain, è stato scelto perché definisce più cose: una corona di margherite, una serie interconnessa di dispositivi elettronici, una formazione sessuale di gruppo. In tutti i casi, il termine fa riferimento ai processi di relazione, collaborazione e interazione tra persone o cose. Cosa significa stare insieme, condividere e costruire una comunità è infatti uno dei temi principali su cui si concentra la ricerca di Johnson.


Segue il testo critico di Wendy Lotterman.

Entrambe hanno storicamente portato 

Cosa c’è in un nome? Questa è l’iconica domanda di Giulietta, posta nel tentativo di sfuggire al peso dei patronimici e alla proibizione dell’amore. Il suo interrogativo, pur essendo profondo, mina la sua stessa ambizione. Utilizzando l’esempio di una rosa, Giulietta osserva che in realtà i segni linguistici non mutano le cose a cui danno un nome: “Ciò che chiamiamo rosa / con qualsiasi altro nome avrebbe un profumo altrettanto dolce”. Sfortunatamente per l’eroina di Shakespeare – e comunque secondo la sua stessa logica – colei che chiamiamo Giulietta, con qualsiasi altro patronimico, sarebbe ancora legata per sangue, responsabilità e proprietà ai Capuleti. Se la rosa è altrettanto dolce, Giulietta è altrettanto tormentata. Ma la forza del suo desiderio di diseredare la famiglia si proietta sul fiore per esprimere il proprio punto di vista.
Ironicamente, Giulietta non è l’unica a usare le piante per rivelare l’arbitrarietà dei nomi, suggerendo che l’esempio stesso potrebbe non essere poi così arbitrario. Lo stesso padre della semiotica, Ferdinand de Saussure, usò l’esempio di un albero per chiarire la struttura dei segni linguistici. Dando per scontato che tutti comprendessero l’arbitrarietà del segno – cioè che tutto il linguaggio non è onomatopeico – Saussure spiegava che il significante non corrisponde alla cosa in sé, ma piuttosto al nostro concetto di essa. In una classica infografica, l’immagine di un albero frondoso si trova in cima a una linea che divide l’illustrazione dalla parola “arbor”, affiancata ai lati da due frecce, una rivolta verso l’alto e l’altra verso il basso.
Molti pensatori hanno utilizzato l’organizzazione del linguaggio per spiegare sistemi meno salienti. Secondo Lacan, un altro semiologo, l’inconscio è strutturato come un linguaggio. Pertanto, da dove trae la sua struttura un fenomeno inorganico che necessita di una definizione sistematica quale il linguaggio? Dalle piante, è una delle risposte. Il linguaggio viene visualizzato secondo un’intricata gerarchia di famiglie e sottotipi che imita la filogenesi delle specie. Ogni similitudine si basa sulla stabilità del secondo termine per qualificare il primo. Se il linguaggio è strutturato come le piante, cosa succede quando si scopre una pianta che sfida la precisione tassonomica del linguaggio? L’analogia reciproca deve ignorare ciò che non può comprendere, oppure ricostruirne la struttura.
Il 9 ottobre 2022 è morto Bruno Latour e, pochi giorni prima, la DJ e artista Juliana Huxtable ha twittato un personale tributo in contrasto con la raffica di commemorazioni pervenute al momento giusto. Citando un comico di nome “Ariel Elias” che il 3 ottobre aveva scritto “I pomodori sono la pianta più patriottica. Perché botanicamente i pomodori sono un frutto. Ma secondo una sentenza della Corte Suprema del 1893, sono un ortaggio. E non c’è niente di più americano di una decisione legale in disaccordo con la scienza”, Juliana ha replicato a lettere cubitali:

“‘LA SCIENZA’ NON È UN AMBITO ETICAMENTE RILEVANTE IN SÉ STESSO A CUI L’AMBITO, PALESEMENTE PIÙ FIEVOLE DELLA LEGGE DEBBA ESSERE SOTTOPOSTO… DAVVERO CREDEVI CHE FOSSE UNO STRAPPO, MA INVECE È CONCEDERE IDEOLOGICAMENTE ALLA ‘SCIENZA’ UN’EGEMONIA EPISTEMOLOGICA SULLA LEGGE… ENTRAMBE HANNO STORICAMENTE PORTATo…”.

La cosa che preferisco del tweet di Juliana è la o minuscola alla fine, che indica un possibile rifiuto di usare l’efficiente tasto caps lock a favore del tenere premuto il tasto shift per (quasi) tutta la durata del tweet. Denota una dedizione al tono e all’esaurimento che comporta parlare con un registro che è attivamente disincentivato. Questo rappresenta una dei modi per avvicinarsi al corpus di Erin Johnson.

Erin Johnson, Daisy Chain, 2023, Galleria Eugenia Delfini, Roma. Foto dell’allestimento – Foto Carlo Romano. Courtesy dell’artista e della galleria

Io mi occupo di legge, o come Giulietta, di come diseredare alcune dei suoi lasciti più dannosi. Erin Johnson lavora sulla scienza, o come Juliana, su come rendere visibile l’intreccio tra scienza e ideologia per denaturalizzare la sua ingannevole autorità.

Il video di Erin Johnson There Are Things In This World That Are Yet to Be Named parla di una pianta di pomodoro selvatico trascurato dalla botanica. I bambini si dilettano a rivelare per primi la verità che il pomodoro è un frutto. C’è qualcosa di gioioso nella trasgressione di questa pianta dal concetto di categorizzazione. L’errata percezione del pomodoro come vegetale non ha nulla a che fare con la legge o la scienza, ma, come la rosa di Giulietta, con la questione della sua dolcezza. Il pomodoro non è una caramella della natura. Questa qualità categoricamente evasiva del frutto non lo rende patriottico, ma aggiunge mistero al suo profilo botanico. Nel 2019 il New York Times ha pubblicato un articolo su una pianta di pomodoro selvatico australiano di recente classificazione che, a causa della sua sessualità fluida, è rimasta senza nome per decenni. Nel 1974 un botanico australiano ha semplicemente scritto: “Questo esemplare mi lascia perplesso”. Il video di Johnson si muove all’interno di una serra della Bucknell University in Pennsylvania, dove un team di botanici si prende delicatamente cura di alcuni esemplari di Solanum Plastisexum, mentre una rete di ventilatori e condotti mantiene meticolosamente le condizioni climatiche all’interno della serra. Questo è il laboratorio che per primo ha dato il nome alla pianta, un nome che codifica la sostituzione del dimorfismo nel suo titolo – in greco “plasti-” significa infatti capace di essere modellato.

Il lavoro di Johnson si incentra sull’opacità. Ciò che intendo si propone su molteplici piani di lettura. L’ideologia funziona meglio quando è trasparente – letteralmente, quando non può essere vista. Sebbene il processo dietro le quinte sia meravigliosamente caotico e massimalista, i video di Johnson sono di per sé molto parsimoniosi. Molto poco indirizza lo sguardo in una direzione piuttosto che nell’altra. Viene presentata una scena e si è liberi di girarci intorno. Il contesto viene spesso taciuto, non per confondere o sedurre, ma per permettere alle nostre impressioni di maturare senza la pesante imposizione dei fatti. Se il soggetto dei video di Johnson è il modo in cui le storie sui luoghi o sulle cose cambiano il modo in cui queste cose vengono vissute, allora qual è il compito della telecamera – un altro dispositivo con angoli che ritaglia, inquadra e mostra selettivamente?

La domanda è forse meglio lasciarla retoricamente senza risposta, nonostante io creda che una risposta ci sia. La macchina da presa di Johnson è interessata proprio al residuo narrativo, o alla fanghiglia non indicizzata che si accumula intorno alle giunture della macchina tassonomica. In un suo pezzo intitolato The Way Things Can Happen, le comparse del film contro la guerra The Day After del 1983 raccontano la loro esperienza di recitazione di un disastro nucleare. Il film, interpretato interamente dagli abitanti di Lawrence Kansas, non è né una fiction né un fatto storico. Il video di Johnson trova un linguaggio per rappresentare questa bizzarra sospensione. O forse il linguaggio è già presente, ma il video di Johnson trova un modo per ascoltarlo.

Questo è un altro modo in cui Johnson lavora con l’opacità. Secondo Edouard Glissant, l’opacità è un significato che rifiuta di assimilarsi a un senso facilmente intelligibile. È lo stesso principio che ci guida a leggere le opere letterarie nella loro lingua originale, ma lo stesso può accadere anche all’interno della stessa lingua. Che cosa significa far avvicinare un lettore o un ascoltatore, imparare una nuova grammatica così intimamente da rivelare un significato che non ha senso per la sua vicinanza a qualcos’altro, ma perché viene compreso come qualcosa di nuovo?

Erin Johnson, Anika, Genesis, Kam, Kanthy, Sindhu, 2023 Stampa a pigmento su carta Hahnemühle 71 cm x 71.5 cm Edizione di 3 + 2 Prove d’artista

Se la scienza rifiuta qualsiasi minaccia alla tassonomia fino a quando non sarà inventato un sistema di nomi completamente nuovo per classificare gli elementi emarginati, allora, senza esagerare, si può affermare che esiste una lingua che deve ancora essere parlata. I video di Johnson possono essere descritti come una documentazione di questa lingua, o di ciò che resta della narrazione – scientifica, storica, nazionale, ecc.

Piuttosto che difendersi ansiosamente dalla consonanza tra verità e rappresentazione, Johnson lascia che sia la discrepanza a parlare. Spesso ciò assume la forma di un attrito ambientale che si crea tra testo e immagine, o di canali video multipli, o di una combinazione tra materiale sorgente non sintetizzato e un filo conduttore molto sottile.

There Are Things In This World That Are Yet to Be Named accoppia immagini della pianta di pomodoro, sessualmente inclassificabile, con la lettura della corrispondenza privata tra l’influente ambientalista Rachel Carson e la sua amata segreta, Dorothy Freeman. Tra queste c’è una lettera di Carson scritta in punto di morte che non ha mai raggiunto la sua destinataria. L’effetto principale delle lettere è il rimpianto. La fretta di conservare nel linguaggio ciò che non poteva trovare espressione in vita si scontra con l’ironia di una discrezione comportamentale che intendeva sfuggire alle conseguenze di essere nominate o identificate come gay.

In mostra oltre ai due video ci sono sculture, foto e stampe su seta nella prima mostra personale europea di Johnson, volutamente chiamata “Daisy Chain”. Il titolo designa sia una sequenza di sesso di gruppo sia una delicata corona di margherite, questa doppia potenzialità del termine è riprodotta visivamente nei calchi delle cinghie dell’erbario di bronzo nero. Le cinghie richiamano l’erotismo del bondage così come i fiori che il gruppo di ragazzi sono impegnati a essiccare in sequenza lavoro. Il lavoro in bronzo di Johnson cattura la forma accidentale del cinghie ad anello appese per settimane al suo muro a Brooklyn prima di essere trasformati nell’immutabile metallo. Johnson include anche alcune foto della pianta di pomodoro essiccata inserita tra i tabloid australiani e stampata su fogli di seta. La pianta grigia e fragile, senza vita per la compressione subita all’interno dell’erbario stretto tra le presse e le cinghie, è adagiata su coupon saturi e datati che evidenziano quando hanno iniziato ad essere d’interesse per la comunità e scientifica.

Oltre al sesso di gruppo e all’incoronazione floreale, “daisy chain” nomina in modo più generico qualsiasi sequenza elettrica composta da giunture attive e passive, come potrebbe essere ad esempio una linea estesa di prolunghe. Il sessaggio delle piante è in gran parte ridotto alle parti attive e passive: impollinatore e impollinatore. In controtendenza rispetto alla tendenza del dimorfismo sessuale, il Solanum Plastisexum esibisce ciò che i botanici chiamano “fluidità del sistema riproduttivo” o espressione sessuale instabile che cambia ad ogni osservazione. Il lavoro di Johnson si occupa spesso di gruppi: come certe azioni sono possibili solo attraverso l’alchimia della collaborazione. L’impollinazione dei fiori è una scena di sesso di gruppo tra specie diverse, ovvero tra piante e insetti facendo si che questo appaia come un’attrazione naturale per Johnson. Ma il Solanum fa molto di più che evidenziare il cast d’insieme della riproduzione botanica. Fornisce l’occasione per una pausa nei circuiti della conoscenza sessuale, un’interruzione rispetto alla riproduzione delle idee sulla scienza della riproduzione.

Piuttosto che utlizzare questa rivelazione scientifica come una nuova ideologia del sesso, There Are Things In This World That Are Yet to Be Named abita la scena della possibilità senza restringere la sua capacità a un punto. Non siamo strutturati, esplicitamente o implicitamente, per valorizzare o svalutare i nomi. Non ci viene data una rubrica per valutare moralmente la preclusione o le possibilità offerte dalla tassonomia. Il titolo chiaramente fattuale del video coglie questo pacato rifiuto del sentimentalismo o del giudizio. Ci dice invece qualcosa sulla struttura del problema che Johnson mette a nudo. La temporalità di “yet” suggerisce un orizzonte di inclusione, ma affinché l’affermazione rimanga vera, qualcosa deve sempre rimanere fuori, in attesa del suo invito al linguaggio. Finché sarà così, qualcosa di diverso da un nome avrà la possibilità di raccogliere questo rifiuto e portarlo a spasso. È così che leggo il video di Johnson, come un piacevole tour paralinguistico attraverso un paesaggio di rifiuti tassonomici con soste periodiche per osservare nuovi segni di vita.

Wendy Lotterman

Wendy Lotterman è una critica, dottoranda in letteratura comparata alla New York University e borsista al Center for the Humanities. Il suo libro, A Reaction to Someone Coming In, uscirà nel 2023.

Erin Johnson, Daisy Chain, 2023, Galleria Eugenia Delfini, Roma. Foto dell’allestimento – Foto Carlo Romano. Courtesy dell’artista e della galleria
Erin Johnson, Who but you cares what I am doing every hour of the day (1,2), 2023 Stampa digitale su seta 46 cm x 53 cm Edizione di 3 + 2 Prove d’artista
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