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“L’arte deve creare liberazione e leggerezza nella vita degli uomini”
Emilio Isgrò —
Cancellare, come fa Emilio Isgrò, a volte può significare anche mettere in luce, dare nuova vita, o dare vita tout court. Oppure, eliminare parole, frasi, immagini, colori e riferimenti può creare qualcosa di nuovo, infante, inedito. Eliminare (gesto complicatissimo da fare con spirito costruttivo) consente anche di raggiungere risultati estremamente e realmente poetici; anzi, permette di fare una vera e propria poesia, una poesia visiva: “non è più possibile una poesia come arte esclusiva della parola. La nuova poesia vuole essere un’arte generale del segno” (E. I.).
Emilio Isgrò, nato a Barcellona di Sicilia nel 1937, è riuscito a fare un po’ tutto questo. Il suo punto di vista è quello, insieme, del giornalista e romanziere, del poeta e del drammaturgo, e non solo quello, dunque, dell’artista visivo. Forse per questo la sua analisi si è sempre spinta verso la parola, sondando l’elefantiaco utilizzo a cui questa è pian piano andata incontro, specialmente laddove cominciava ad espandersi il fenomeno televisivo e mediatico, col conseguente utilizzo disequilibrato del linguaggio comunicativo e pubblicitario. Linguaggio, ormai (siamo a metà degli anni ’60), inestricabilmente innestato nell’immagine, ora sua amica prediletta, o sua gemella siamese. Sono gli anni in cui la Pop Art domina lo scenario artistico, coinvolgendo una grande fetta di pubblico attraverso l’utilizzo esasperato dell’immagine. “D’altronde gli Stati Uniti, figli di tanti immigrati provenienti dai più disparati luoghi del mondo, potevano essere unificati non tanto dalla parola, quanto dall’immagine che superava evidentemente ogni incomprensione linguistica” (Domenico Piraina, Direttore di Palazzo Reale).
Emilio Isgrò, dunque, voleva riscoprire la parola, staccarla dall’immagine e ridarle nuova vita, farla ancora respirare; e ci riesce, in un modo paradossale, antifrastico: cancellando parole e frasi, eliminandole per sempre dall’orizzonte visivo, lasciandone poche tracce (una singola parola scritta, una lettera, un segno di punteggiatura), capaci, però, d’innescare la fantasia e l’inventività del pubblico. Oppure nega l’identità e l’autorialità stessa in lavori come Dichiaro di non essere Emilio Isgrò (1971) e L’avventurosa vita di Emilio Isgò nelle testimonianze di uomini di stato, scrittori, artisti, parlamentari, attori, parenti, familiari, amici, anonimi cittadini (1974): che sono, ancora, delle cancellature, laddove l’artista stesso è soggetto a descrizioni che si smentiscono (e lo smentiscono) continuamente, portando all’eliminazione di un’identità definita, e lasciandola, quindi, a screziarsi di continuo.
Tutto questo, ovvero l’analisi di Emilio Isgrò sul linguaggio, sulla negazione dello stesso, sull’immagine, sulla comunicazione verbale e non, è ora oggetto di una mostra antologica presente a Milano fino al 25 settembre 2016, in tre sedi diverse: il Piano Nobile di Palazzo Reale, il caveau delle Gallerie d’Italia e la Casa Manzoni. L’allestimento — con luci di Piero Castiglioni: “Le luci nel mio lavoro sono importantissime e devono essere perfette” (E. I.) — e la selezione delle opere è a cura di Marco Bazzini, che, insieme all’artista, non ha voluto accorpare le opere secondo un ordine cronologico, bensì tematico, offrendo in un unica sala opere di periodi diversi: “Le opere s’incontrano con tempi diversi per evocare solo con parzialità alcune tracce e per lasciarsi conquistare a nuove letture proprio dall’impiego del visitatore e in rapporto tra loro”. Si inizia dalle cancellature di enciclopedie, dizionari, libri-monumento, sino ad immagini iconiche, come in Poesia Jacqueline (1965), in cui Isgrò cancella col retino l’immagine di John F. Kennedy in fin di vita con la moglie riversa su di lui: non c’è più nulla, eccetto una grassa freccia nera che indica un punto indistinguibile da altri del reticolato, e una scritta: “Jacqueline (indicata dalla freccia nera) si china sul marito morente”.
La cancellatura sa aprire testi celebri, rendendoli ariosi, freschi, iper-comunicativi. Basta pensare a Lolita (1964), in cui il libro di Nabokov, capace di parlare in modo sottilissimo di un’emotività complicatissima, viene ridotto a pochissime parole (che sono quasi un’autoanalisi sul suo lavoro): “Lolita) tutto questo io cancellai Lolita, mia Lolita.”
Oppure ci sono opere come La ‘q’ di Hegel (1972) o Virgola tratta dalla Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso (1972), in cui non c’è più la cancellazione di tutto eccetto singoli frammenti, ma una vera e propria tabula rasa in cui viene data piena e unica luce ad un frammento minimo. Che è poi ciò che accade nei particolari ingranditi, come in Particolare di Elvis Presley ingrandito 1900 volte (1974), laddove l’immagine perde ogni referenzialità col mondo esterno, tutto diventa segno a sé stante, autodiegetico: “Ancora una volta Isgrò gioca sull’assenza, sulla sottrazione, ma introduce anche un nuovo strumento per rafforzare la sua cancellatura: la sproporzione. Quale rapporto, infatti, ci può essere tra una ‘q’ e l’intera Estetica di Hegel? E tra un macro particolare e il contesto da cui è tratto?” (Bazzini).
Ci sono poi le opere rosse e gialle; l’astrazione delle note nell’installazione Chopin (1979), dove 15 pianoforti sono accompagnati da spartiti in cui le note libere si accostano a frasi probabili ma inverosimili sulla vita del compositore; le grandi fotografie completamente coperte da un vischioso strato di bianco, che lascia intravedere solo pochi e insignificanti dettagli. Ma sono presenti anche le fotografie del Seme d’arancia (2015), realizzato per la sua città natale come simbolo del mediterraneo, degli aranceti perduti, dell’antica cultura locale, nonché delle cose semplici e scontate, come il seme. Si arriva poi alle “lunghe file di formiche che si addentrano sulle pagine dei libri, salgono sugli elementi di un’installazione per continuare a sommergere parole, immagini, oggetti. Oppure per dare loro un diverso corpo, per creare nuove parole e nuove immagini. Gli insetti rappresentano l’opposizione tra forze vitali e distruttive, fecondità e sterilità, luce e tenebre, proprio come la cancellatura richiede”.
Alle Gallerie d’Italia è invece presente L’occhio di Alessandro Manzoni (2016), un acrilico su tela montata su legno riproducente il celebre ritratto dello scrittore fatto da Hayez: su questo Isgrò aggiunge una pagine dei Promessi Sposi, per poi cancellarla di bianco. La Casa del Manzoni ospita, infine, la cancellatura di 25 volumi dell’opera manzoniana, dopo averla toccata l’ultima volta 50 anni fa: “Isgrò ha offerto uno strumento di rilettura di Manzoni. La sua opera è stata un grande aiuto nel rileggere Manzoni: ha messo un segno storico che illumina una realtà che sembra chiara, ma è sempre da approfondire” (Angelo Stella, presidente del Centro Nazionale Studi Manzoniani).
Alla conferenza stampa di presentazione della mostra era presente, emozionatissimo, lo stesso Emilio Isgrò, di cui riporto poche frasi fondamentali: “Piacere (come conoscenza intellettuale) e divertimento sono necessari per avvicinarsi all’arte, e noi ci siamo divertiti. L’arte, anche quando affronta i temi più profondi, deve creare liberazione e leggerezza nella vita degli uomini. Manzoni ha fatto quello che ha fatto Pasolini col cinema: ha realizzato un romanzo volutamente popolare, affrontando un genere per affrontare il pubblico, scende per salire, perché probabilmente amava molto questo paese e la lingua di questo paese”.
“A questo punto della storia non ci sono più dubbi: come a Fontana appartiene il taglio e a Duchamp il ready made, a Isgrò appartiene la cancellatura” (Marco Bazzini).