Testo di Irene Bagnara
“Cancellati si nasce, cancellatori si diventa”: questo il proverbio – in realtà inventato – con cui Emilio Isgrò riassume la scelta dirompente operata all’inizio degli anni Sessanta; un gesto semplice quanto rivoluzionario, che trascende la quotidianità acquisendo nuova ricchezza semantica.
I “cancellati” sono coloro che si rassegnano al proprio destino, – spiega Isgrò – coloro che si lasciano trascinare dalla chiacchiera vuota, abdicando all’attività del pensiero, all’esercizio del giudizio critico. “Cancellare” corrisponde invece a un’azione violenta ma costruttrice, – continua l’artista – a una distruzione creativa che consente innanzitutto di portare allo scoperto i limiti del linguaggio, mettendone in discussione l’assertività. Se gli antichi erano soliti affermare che “scripta manent”, ossia che la parola scritta – a differenza della volubile ed effimera comunicazione orale – resta, scolpita e immobile, Isgrò decide di vivificarla negandola.
La cancellatura diventa dunque un gesto antidogmatico, l’epifania di un atteggiamento filosofico nei confronti del linguaggio e del mondo. La negazione è per Isgrò il presupposto per l’affermazione: riscattata dalla condizione di mero contraltare del positivo, le viene così restituita una funzione attiva, edificante, di riproposizione del mondo in altri termini, di apertura a nuove comunicazioni. Più che un linguaggio artistico e poetico, la cancellatura diviene quindi una modalità di operare, un’attitudine per cui vita, arte e filosofia si compenetrano fino a confondersi. Non è un caso infatti che Isgrò non sia solo artista visivo, ma anche scrittore, critico, saggista, poeta, autore teatrale e regista.
In qualità di cancellatore, l’artista siciliano – sebbene ne sia l’anticipatore nell’arte visiva – si inserisce in una tradizione di pensiero che in Occidente parte da Anassimandro ed Eraclito per arrivare alla rivalutazione del momento negativo operata da Nietzsche, Schopenhauer e Heidegger. Nonostante molti artisti prima di lui abbiano utilizzato la cancellatura come mezzo espressivo – Cézanne, Braque, Picasso, Mondrian, in un certo senso pure Duchamp –, Isgrò è il primo a fare della negazione il soggetto stesso della propria indagine.
La prima cancellatura – racconta l’artista – è datata 1962: una prova che lo spaventa al punto da accantonarla subito, quasi a volerla lasciar maturare fuori e dentro di sé. Quel gesto assoluto, dissacrante lo porta a perdere l’amicizia di Montale, per il quale la parola detiene ancora un valore fondante in-negabile, ma a raccogliere l’approvazione di Pasolini e Zanzotto e un generale interesse da parte del mondo dell’arte. Isgrò cancella in seguito articoli di giornale, libri di narrativa, saggi, mappe geografiche, fino ad arrivare alla monumentale e discussa cancellazione dell’Enciclopedia Treccani, esposta da Schwarz nel 1970.
La mostra ospitata alla Fondazione Cini ripercorre l’intera ricerca dell’artista, esponendo i primi interventi sui libri risalenti al 1964, le poesie visuali su tele emulsionate, la serie delle Storie rosse, alcuni pezzi della già citata operazione sull’Enciclopedia Treccani, fino alla cancellatura di Codici ottomani realizzata nel 2010.
I lavori sono esposti all’interno di un’ambientazione architettonica immersiva, creata appositamente per questo progetto e pensata per accogliere e accompagnare il visitatore. Lo spazio è rotto da pareti trasversali sulle quali sono riprodotte alcune pagine del Moby Dick di Melville, che recano le tracce dell’intervento grafico e concettuale di Isgrò. Una biblioteca nella biblioteca, un libro che contiene tutti gli altri. Il visitatore si ritrova all’interno di quella che l’artista definisce “la pancia della balena”: un luogo solitario seppur affollato, metafora del “ventre del linguaggio mediatico” che tenta di coprire, con roboante e confusionario rumore, il proprio disperante silenzio. Per Isgrò il silenzio è infatti la condizione da cui l’uomo tenta di fuggire attraverso una produzione verbale ininterrotta, schizofrenica, concitata e, per questo, inautentica.
La relazione – anche quella con lo spettatore – è fondamentale per la cancellatura stessa: nonostante il gesto sia di per sé assoluto, svincolato, libero, la sua conseguenza è dialettica, pubblica. La verità – dell’arte, del linguaggio e del mondo – parte dunque da un dis-velamento, dalla scoperta raggiunta attraverso la negazione, dal gesto dirompente che cancella per aprire nuovi orizzonti, delineare nuove possibilità – nell’arte, nel linguaggio e nel mondo –.
Chiunque visiti le sale dell’Ala Napoleonica della Fondazione Cini – sia che conosca già da prima l’artista siciliano oppure no – esce con la piena consapevolezza che Isgrò ha imparato a essere un cancellatore.