Dopo l’apertura di Museo per l’Immaginazione Preventiva – EDITORIALE (17 luglio–27 settembre) con cinquantacinque opere che invitavano a scoprire l’architettura e gli spazi rinnovati del Museo attraverso un percorso fatto di prospettive cangianti, il MACRO riprende la sua programmazione con otto importanti progetti espositivi a dare compiutamente avvio al nuovo corso inaugurato dal direttore artistico Luca Lo Pinto. Il Museo, concepito nella forma di un magazine vivente e di uno spazio performativo, rivela la sua complessa fisionomia in fieri attraverso la molteplicità di sezioni tematiche che andranno a comporre un concerto di rubriche in continua metamorfosi.
La sezione SOLO/MULTI si apre con Campo di Marte, la prima grande personale in un’istituzione museale italiana di Nathalie Du Pasquier; RETROFUTURO, dedicata alle nuove generazioni artistiche e a un ripensamento della collezione del Museo, presenta i lavori di dodici artisti italiani – Carola Bonfili (1981), Costanza Candeloro (1990), Ludovica Carbotta (1982), Gianluca Concialdi (1981), Giulia Crispiani (1986), Giorgio Di Noto (1990), Beatrice Marchi (1986), Diego Marcon (1985), SAGG NAPOLI (1991), Francesco Pedraglio (1981), Davide Stucchi (1988) – che si confrontano con il palinsesto di fotografie realizzate da Giovanna Silva per ritrarre i depositi del Museo sotto forma di un gigantesco wallpaper; ARITMICI riunisce per la prima volta in un’istituzione museale italiana un nucleo di opere dell’artista Wolfgang Stoerchle; POLIFONIA dedica la mostra Io poeto tu all’opera del regista Simone Carella; si prosegue poi con le sezioni IN-DESIGN e la mostra Back Matter di Boy Vereecken, MUSICA DA CAMERA dedicata all’etichetta di musica elettronica sperimentale Editions Mego, PALESTRA con la mostra Caresses di Soshiro Matsubara, STUDIO BIBLIOGRAFICO, focalizzata sull’editoria, con la rivista Playmen edita a Roma da Adelina Tattilo.
Con Campo di Marte prende forma il primo capitolo della sezione SOLO/MULTI, sezione dal focus multidisciplinare intenta a indagare nuovi approcci legati alla mostra come dispositivo; tutto l’ambiente della vasta sala che ospita la personale di Nathalie Du Pasquier è stato ripensato dall’artista e designer per dare vita a uno spazio dinamico coabitato da dipinti, disegni, stampe e costruzioni tridimensionali accompagnati da una narrazione in prima persona attraverso cui si esprime un’idea di mostra come opera, come installazione complessa in cui le parti dialogano tra loro completandosi reciprocamente: “Campo di Marte. Qui ho voluto associare alcuni quadri molto vecchi con quadri di adesso, quadri figurativi con quadri astratti, tele con carte stampate, quadri con elementi dipinti sul muro. Gli umori delle diverse opere si confondono e danno luogo a delle specie di monumenti piatti che esistono soltanto sul Campo di Marte”.
Senza alcuna cronologia prestabilita, la mostra ripercorre le tappe salienti del percorso artistico di Du Pasquier tenendo insieme lavori appartenenti a epoche differenti, riuniti sotto un comun denominatore spaziale che fa del display il campo di ricezione di un lessico che si articola tra astrazione e figurazione, pieno e vuoto. “Negli ultimi anni”, afferma l’artista, “sono stata sempre più interessata a come le opere si installano nello spazio, in fondo lo spazio è anche lo spazio mentale. Il cervello continua a contenere avvenimenti lontani nel tempo e a collegarli con esperienze più nuove. Più uno invecchia e più complessa può diventare questa installazione. È un’operazione per niente nostalgica perché i nuovi oggetti che risultano da questo esperimento sono completamente nuovi anche per me.” Nel ricreare un ambiente unico e un contesto dialogico tra le diverse opere, Campo di Marte instaura un crescendo spaziale – da una parete bianca che accoglie alcune opere si passa a pareti dipinte e rivestite di maioliche in cui gradualmente la distinzione tra opera e parete si perde per guadagnare una continuità in cui l’una si confonde con l’altra inscenando un racconto corale. Allo stesso modo, l’allestimento gioca con le altezze, dando vita a uno spazio pervasivo in cui i rapporti dimensionali vengono ogni volta stravolti, ribaltati e ricreati.
Nella nuova orchestrazione del programma del Museo si distingue, poi, la sezione Aritmici, dedicata a investigare figure irregolari attraverso una serie di mostre-laboratorio rivolte a ricerche eccentriche e nuove prospettive situate ai margini rispetto a una visione più marcatamente canonica dei grandi episodi legati alla storia dell’arte e dei suoi linguaggi. In occasione dell’apertura del nuovo ciclo di mostre, Aritmici dedica un approfondimento alla figura di Wolfgang Stoerchle riunendo, per la prima volta in un’istituzione museale italiana, un importante nucleo di opere – tra materiali documentari di performance, video e opere pittoriche – per raccontare la storia di un artista divenuto uno dei punti di riferimento della scena californiana degli anni Settanta, prematuramente scomparso all’età di trentadue anni. La mostra, in collaborazione con Alice Dusapin, borsista presso l’Accademia di Francia a Roma, che dal 2017 conduce una ricerca volta a rivalutare la pratica e l’eredità di Stoerchle, si distingue per un interesse precipuo nella rivalutazione di una figura poco conosciuta, partendo da un approccio storiografico e critico che ne ripercorrono per tappe la storia personale e la ricerca artistica.
Nato nel 1944 a Baden Baden, Stoerchle emigra nel 1959 in Canada ottenendo la cittadinanza statunitense nel 1967; studia Belle Arti presso la University of Oklahoma e alla University of California di Santa Barbara. Dopo la laurea, viene invitato da Allan Kaprow a unirsi al gruppo docente del California Institute of the Arts, dove insegna per due anni. Nel 1972 si trasferisce a New York e, dopo aver realizzato con tre telecamere fisse il suo ultimo video, Sue Turning, durante un workshop all’American Dance Festival – decide di lasciare la città per dedicarsi a una vita nomadica trascorrendo diversi mesi in Messico. È nel 1975 che, presso lo studio di John Baldessarri, realizza la sua ultima performance, più tardi nota come The Last Performance, di cui in mostra sono esposte le uniche due fotografie note scattate. Attraverso un monologo introduttivo culminante nella domanda “Come è possibile che l’arte sia l’unico spazio rimasto per esprimere queste emozioni?” Stoerchle in The Last Performance conduceva il pubblico attraverso alcuni temi salienti riguardanti l’arte, la sessualità, la morale e i suoi limiti: chiedendo agli astanti chi volesse offrirsi volontario per farsi praticare una fellatio in pubblico – atto protrattosi per dieci minuti e culminato nell’abbraccio tra l’artista e l’uomo resosi disponibile – Stoerchle chiama in causa alcuni aspetti salienti nella sua investigazione sul corpo, inteso come campo di forze e di relazioni sociali, comunitarie, esistenziali. In questa performance, così come in Attempt Public Erection realizzata per la prima volta in occasione del Market Street Program di Joshua Young, i temi della sessualità, del controllo e della vulnerabilità vengono proiettati all’interno di un discorso più ampio riguardante le forme di coercizione di un machismo sempre più pervasivo e dai risvolti inaspettati. Prediligendo azioni quotidiane elementari e azioni predeterminate – come quando, su invito di Helen Winer, realizza al Pomona College una sequenza di sei performance, documentate da un fotomontaggio che includeva la loro breve descrizione (“1. Camminare di lato verso un tappeto con uno specchio tra le gambe/2. Far estrarre il tappeto da sotto di me”); o come quando nel video Jumping in the Air impiega una Portapak per riprendersi, in presa diretta su un monitor, mentre salta, adattando la performance allo schermo; – indagando la relazione tra corpo e scultura – come in Outdoor Plaster Drop del 1970 – forzando il proprio corpo a divenire un terreno di negoziazione costante e di revisione di contenuti prescritti e già dati, Wolfgang Stoerchle emerge all’interno della mostra dedicatagli come figura di assoluto interesse nell’ambito di un tentativo di riscrittura delle molteplici storie, ancora tutte da approfondire, legate alla performance degli anni Settanta.