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Documenta 15 — Una riflessione collettiva. Parte 2

Parola: EMPODERAMENTO | impoteramento | dallo spagnolo empoderar +‎ -mento derivato dall’inglese empowerment. La messa a valore del genere e della razza, nuovi monopoli dell’arte contemporanea, nel nostro sistema patriarcale, capitalista e suprematista bianco produce altre gerarchie e parla il linguaggio dell’empowerment delle donne, un termine assunto direttamente dal vocabolario ultra-neo-liberale al servizio della funzionalità […]

d15_Mas Arte Mas Accion (MAMA)_Greenhouse, Kassel_2022 © Alice Pedroletti

Parola: EMPODERAMENTO | impoteramento | dallo spagnolo empoderar +‎ -mento derivato dall’inglese empowerment.

La messa a valore del genere e della razza, nuovi monopoli dell’arte contemporanea, nel nostro sistema patriarcale, capitalista e suprematista bianco produce altre gerarchie e parla il linguaggio dell’empowerment delle donne, un termine assunto direttamente dal vocabolario ultra-neo-liberale al servizio della funzionalità capitalistica piuttosto che “impoteramento” [Maria Nadotti, 1998; Rachele Borghi, 2020] che è invece espressione delle lotte di liberazione dei gruppi oppressi, delle soggettività minoritarie, genderizzate e razzializzate. Una costellazione agonista e decoloniale è (in)sorta, in questa straordinaria documenta fifteen, dai margini e dalle diverse temporalità del sistema-mondo: esperienze di radicalità Black, femminista e queer, iniziative artistiche comunitarie, archivi di lotte e piattaforme collettive, modelli di gestione cooperativa, spazi di cura fuori dalle regole del mercato e dalla logica del capitale. Orientando l’intero processo espositivo verso eversioni (oltre che esclusioni) storiche e geopolitiche, dislocando l’egemonia dell’asse eurocentrico nel Sud Globale, la moltitudine di voci dispiegate dai tentacoli del lumbung, ha tracciato una cartografia delle minoranze che si è espressa come “pienezza”, come forza di insubordinazione, come quel di più di vita che sentiamo quando non siamo sol3, ma siamo dentro le lotte collettive. È la capacità istituente del femminismo che non chiede nulla al potere ma genera altre potenze. Ora che guardiamo attraverso le sue lenti viola, sappiamo che lo stato delle cose non è immutabile, come ci hanno insegnato i movimenti di liberazione: nessun processo può dirsi concluso, fino a quando non si cambia tutto.

Artisti | Luogo: Archives des luttes des femmes en Algérie | Fridericianum

 «Gli archivi sono estremamente politici e possono decostruire, soprattutto, la storia ufficiale» ci dicono Archives des luttes des femmes en Algérie. Disarmare il potere, rispetto all’eredità storicistica e coloniale delle istituzioni; rompere la centralità delle narrazioni eteronormative, fondate su rapporti di razza, classe e di ordine patriarcale, dare voce ai corpi disobbedienti, rimasti invisibilizzati e silenziati nei documenti ufficiali; aprire i sigilli della storia e creare delle contro-storie o delle narrazioni contro-egemoniche.
Archives des luttes des femmes en Algérie è un’iniziativa collettiva indipendente che intende ricostruire la geneaologia politica delle organizzazioni femminili e femministe in Algeria dal 1962 fino ad oggi. Nel cuore del Fridericianum, in un segmento temporale a partire dal 1989 attraverso crono-dissidenze, filmati, interviste e timelines, la rivolta delle donne occupa le strade, costruisce assemblee, crea potere nei corpi-territorio per rivendicare diritti e libertà. Le tracce documentarie sono state digitalizzate e rese accessibili non solo per far riaffiorare una storia che è stata marginalizzata e rimossa ma anche per fornire una serie di strumenti utili per la riflessione e la lotta politica nel presente, per arginare la controffensiva neoliberale, da una prospettiva decoloniale e intersezionale, aprendo spazi antagonisti anche dentro le istituzioni artistiche.

Elvira Vannini

d15_Archives des luttes des femmes en Algérie, Fridericianum, documenta fifteen, Kassel, 2022_© Elvira Vannini

Parola: FIDÙCIA (trust) | s. f. [dal lat. fiducia, der. di fidĕre «fidare, confidare»]

La prima cosa che mi sono appuntata entrando al Fridericianum è stata la parola trust: un senso di fiducia diffuso, che abitava lo spazio in modo quasi organico. Un’entità effimera, un’energia densa che scorreva di porta in porta, di ricerca in ricerca e presente in ogni installazine: in quelle più o meno “riuscite” – secondo una classica visione dell’arte e in quelle inattese e poetiche che per nostra fortuna, in questa edizione di Documenta, hanno occupato la maggior parte dello spazio fruibile.
Una fiducia quasi incondizionata nei confronti del pubblico, considerato in primo luogo come insieme di persone capaci di pensare, partecipare, collaborare, interagire, reagire. Fiducia tra artworkers, educatori, attivisti e verso un’altro pubblico ancora: quello presente nei processi già realizzati in luoghi distanti, ma con noi presenti nelle moltissime immagini, testi e video. Fiducia nel processo stesso di creazione, libero dalla richiesta di produrre un’opera, ma piuttosto di ‘essere opera’, qualsiasi sia la forma finale assunta, materiale o imateriale che sia. 
Una fiducia fino all’ultimo giorno riposta anche nelle istituzioni in primo luogo tedesche, ma direi europee, che hanno in parte tradito questo sentimento e questa voglia di creare cultura in modo diverso, riflettendo ai molteplici significati di fare arte come forma di resistenza o sopravvivenza per esempio. Una fiducia che mi ha emozionata e fatta arrabbiare: una richiesta di responsabilità diversa che come singola non posso non accogliere, ma nemmeno in qualche modo soddisfare senza a mia volta avere il supporto e collaborazione di altre persone. Un sistema rizomico che parte tutto da un’idea di fiducia dimenticata, fragile, da preservare e infine salvare; un sistema schiacciato da una politica capitalista in cui moltissime persone non si riconoscono più e che rifiutano, con consapevolezza di voler vivere in modo più libero e sostenibile. Che siano artist* o pubblico davvero a questo punto non conta più.

rtisti | Luogo: La Intermundial Holobiente | Compost Heap 

L’installazione di La Intermundial Holobiente, che racconta il processo creativo collettivo della stesura di The Book of The Ten Thousand Things – scritto e curato in modo polifonico tra quattordici artisti e scrittori dall’Argentina -, parte dall’idea di un testo scritto da un’entità non umana con cui scrittori e artisti interagiscono. Per due anni gli argentini Claudia Fontes, artista, Paula Fleisner, filosofa e Pablo Martin Ruiz, scrittore e traduttore, si sono riuniti a scadenza settimanale per pensare a come rispondere, attraverso una metodologia di creazione collettiva, al problema politico della rappresentanza, della autorialità e dell’interpretazione del non umano scegliendo di adottare un approccio radicalmente inclusivo e non estrattivista o gerarchico. Usano la parola holobient, che dichiarano come “il punto di vista di un’entità fittizia inventata per sottolineare che tutti gli esseri, entità, fantasmi e creature del nostro pianeta, sono tutti imparentati e intrecciati, tutti corrispondiamo tra loro”. Ambientata, quindi,  in una zona del parco Karlsaue sottratta all’intervento dell’uomo in cui trova dimora un enorme compost all’aria aperta, l’installazione evoca un paesaggio immaginifico ma reale, un luogo dimenticato ma vivo, capace di portare il pubblico verso un altrove poetico, in un futuro che sembra riprendersi da una qualche avvenuta apocalisse. La ‘temporary home’ è un luogo circondato da materia vivente progettato per leggere, scrivere, discutere e contemplare, che nei mesi di incontri in situ si è trasformato in un meraviglioso archivio che proprio sul processo di fiducia si basa, aprendosi al pubblico e mostrando appunti, disegni e vita di un attimo appena trascorso o fermo in un tempo dilatato, senza fine. Qualcosa è avvenuto, ma non è dato sapere quando. Chi sono gli abitanti di quel luogo? Potranno tornare? Uniche tracce rimaste sono un libro e un dipinto che sembra raccontare il mondo com’era o come potrebbe essere. Tracce che sono un punto di inizio per qualcosa di nuovo e possibile. Un invito al futuro: ‘trust the process’. 

Alice Pedroletti

d15 – La Intermundial Holobiente, Theaterschlag, 2022, Installation view, compost heap (Karlsaue), Kassel © Alice Pedroletti

Parola: RESILIENZA /re·si·lièn·za/ sostantivo femminile | Capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi. | In psicologia, la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà.

Nel mondo dell’arte occidentale, tante sono le discussioni attorno alla resilienza. Ci chiediamo come gli artisti possano sopravvivere, come le istituzioni statali possano continuare con la programmazione, come gli spazi indipendenti possano trovare modi alternativi per sostenere le loro attività. Spesso utilizziamo grandi slogan come ‘Con la cultura non si mangia’, o ‘artists won’t kiss ass’. Cosa succede quando la cultura e l’arte sono prodotti in un sistema precario, fragile e altamente interferito dalle logiche politiche delle organizzazioni internazionali? A Gaza, nonostante tutto, si sopravvive come artisti. Spesso ci troviamo in difficoltà nel categorizzare, nel nominare o nell’usare terminologie che possano non soddisfare, dar fastidio o creare conflittualità. In questo caso, le condizioni socio-politiche ci sforzano a chiederci, come sopravvivere all’interno di mondo politico polarizzato, che si insidia nelle istituzioni di cultura? Quali sono le strategie che possiamo usare per abbracciare un’idea di una pratica artistica collettiva, unificatrice, critica in grado di immaginare nuovamente i rapporti sociali? 

QoF – Question of Funding risponde a queste domande, proponendo di cercare ‘ practical solutions to existing crises whilst remaining cognizant of the pitfalls of turning ourselves into a traditional institution that inevitably gets stuck in its own structural problems.’[4] Come racconta la mostra retrospettiva, senza mai diventare una istituzione legalmente riconosciuta, Eltiqaa sostiene il lavoro degli artisti da più vent’anni trovando soluzioni di diverso tipo. Dayra, la moneta virtuale promossa da QoF per documenta 15, usa la tecnologia blockchain per monetizzare i rapporti sociali del mondo culturale palestinese, e in fine AKA space, dato alle associazioni di Kassel come spazio di condivisione, diventa il cuore e la rappresentazione essenziale di una strategia estetica di sopravvivenza e resilienza, un potere condiviso che può smantellare e re-immaginare come lavorare e vivere insieme.

Artisti | Luogo: QoF – Question of Funding | WH22 

Lo spazio indipendente gestito dagli artisti Dina Matter, Mohammad Al Hawajri, Mohammed Abusal, Raed Issa, Rauof Al Ajouri, chiamato Eltiqaa è un caso studio del progetto di ricerca artistica del collettivo palestinese QoF – Question of Funding (Amany Khalifa, Lara Khaldi, Noor Abed, Rayya Badran, Yazan Khalili), uno dei Lumbung members di documenta 15. Gli spazi gestiti da QoF si trovano al luogo WH22. All’interno di questi spazi, QoF co-cura una mostra collettiva, una mostra retrospettiva, è uno spazio aperto e di condivisione chiamato, AKA space. Il progetto vuole promuovere un modello economico collaborativo basato sulla fiducia e su sistemi ‘zero-trust’ che usano tecnologie blockchain. oltre alle mostre, organizzano eventi e workshop con varie organizzazioni locali a Kassel. Pubblicano libri illustrati sull’economia alternativa in Palestina e un sito web, che archivia la documentazione e i dialoghi del collettivo.

QoF viene messo sotto i riflettori mediatici del dibattito politico tedesco all’inizio dell’anno. Le motivazioni sono molte, e molto complesse, ma principalmente legate al supporto da parte di artisti, membri del collettivo QoF, al movimento sociale internazionale BDS – Boycott Disinvest Sanction che chiede di boicottare i prodotti israeliani, per creare una discussione più ampia sulla violenza nel conflitto tra Israele e Palestina. A dicembre del 2021, Il governo tedesco guidato da Scholtz, approva una legge che costringe gli spazi culturali tedeschi a dichiarare pubblicamente di non coinvolgere sostenitori del movimento BDS. Ne ha conseguito un boom mediatico[1] e un’accusa da parte dell’opinione pubblica di antisemitismo al collettivo ruangrupa e agli artisti partecipanti di documenta 15. Le conseguenze di questa accusa sono lo smantellamento dell’installazione del collettivo indonesiano Taring Padi, The Peoples’ Justice (2022)[2], la creazione di una commissione scientifica che ha analizzato i progetti cercando forme di antisemistismo, e la pubblicazione di uno statement finale, da parte degli artisti, intitolato ‘We are angry, we are sad, we are tired,  we are united.’[3]

Aria Spinelli 

[1] Una lista degli articoli e degli Statement è disponibile sul programma del simposio (un)Common Grounds, 23 & 24 September 2022, organizzato da Josien Pieterse (Framer Framed), Charles Esche (Van Abbemuseum), Liesbeth Bik (Akademie van Kunsten), Framer Framed, Amsterdam. LINK
[2] Alexander Supratono spiega la vicenda del lavoro The Peoples’ Justice durante il simposio (un)Common Grounds, 23 & 24 September 2022, organizzato da Josien Pieterse (Framer Framed), Charles Esche (Van Abbemuseum), Liesbeth Bik (Akademie van Kunsten), Framer Framed, Amsterdam. VIMEO
[3]
LINK
[4] Cit. Question of Funding Poster (2022) / Digital printing, double-sided / 100 x 70 cm / 39.4 x 27.6 in

d15 – Mohamed Abusal_QOF_Installation view © Alice Pedroletti

Parola: POSIZIONAMENTO s. m. [der. di posizionare]. – Nel linguaggio tecn., l’atto, l’operazione, il fatto di posizionare, di essere posizionato. 

Posizionarsi è la parola che mi è tornata alla mente più volte durante e dopo la visita a documenta15. E’ chiaro che ogni scelta curatoriale implichi (o almeno, dovrebbe) una presa di posizione nei confronti di una questione o di un dibattito in corso, ma quello che ammiro dell’approccio di Ruangrupa e il fatto di aver condotto i nostri corpi -di professionisti e visitatori- ad attuare questo risposizionamento. Il collettivo ha occupato il “centro” della prospettiva autoreferenziale occidentale attraverso l’enorme quantità e la potenza di creazioni artistiche, conoscenze, sistemi produttivi virtuosi che esistono grazie a comunità proattive, che si prendono cura del contesto sociale, politico e culturale che abitano. Questa documenta ha obbligato gli spettatori a un ri-posizionamento dello sguardo, laddove riposizionarsi implica una re-visione degli strumenti attraverso cui si sta osservando, e quindi una partecipazione attiva nella produzione di significati.
La processualità messa in luce dalle mappe discorsive e visive è diventata lente attraverso la quale fare esperienza dell’azione artistica e politica, di luoghi e di persone, e tramite cui nuove prospettive sulla realtà prendono forma. Le esperienze vissute diventano diagrammi, cartografie che restano come archivi temporanei condivisi, e storie di viaggi. Ambienti marginalizzati, comunità invisibili improvvisamente entrano al centro di quell’“occhio vagante”, “lente viaggiante” di cui parla Donna Haraway per descrivere come la prospettiva occidentale e patriarcale abbia colonizzato la realtà. Eppure, uno spazio vuoto, quello dedicato al silenzio, si tramuta in luogo di rigenerazione, dove un’assenza solo apparente sembra lasciare spazio ai pensieri che prendono forma. Se si parla di ri-posizionamenti, però, non si può non fare riferimento a una questione che per me resta aperta. Nelle ecologie digitali nelle quali viviamo, documenta15 sembra voler rivendicare anacronisticamente una gerarchia delle sfere, nella quale quella analogica prevale su quella digitale. Se è così, a quali fraintendimenti, presupposti, o ipotesi richiama questa posizione? 
1Donna J. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano: Feltrinelli, 2018 (prima ed. 1991)

Artista | Luogo: HAYTHEM ZAKARIA, The Stone Opera (video, 59 min), come parte della proposta collettiva di “Siwa Plateforme – economat at Redeyef” | Fridericianum.
Attraverso il video The Stone Opera, Haythem Zakaria, artista della diaspora tunisina in Francia, osserva il paesaggio di Redeyef (città nella regione di Gafsa, Tunisia, al confine con l’Algeria) dalla sommità delle sue alture, e attraverso le sue pietre. Il video, come un’opera teatrale, si svolge in tre atti, durante i quali lo sguardo è accompagnato da quattro narratori locali Sakend, Taher, Farouk, e Montassar, i cui racconti si susseguono. Essi rivelano la geo-morfologia del deserto – originariamente un territorio sommerso dal mare -, i resti fossili e i minerali che lo compongono; la cultura di questo luogo, attraverso i miti locali (e universali) che si tramandano oralmente di generazione in generazione, e vicende di tesori nascosti. Una traccia sonora condensa suoni elettronici a quelli della natura circostante, dando vita un paesaggio acusticamente ricco, e ambivalente, dove l’umano, la tecnologia e la natura interagiscono, non senza frizioni. Attraverso narrazioni uditive e visive, il video contribusce a raccontare una storia parallela, che si contrappone, oppure integra, quella dominante, che ha definito Gafsa “regione-vittima” (così nominata nel corso del processo di giustizia transizionale che ha riguardato la Tunisia dal 2013 al 2019). Tratti grafici si sovrappongono ai frame, e collegando le sinuosità delle conformazioni rocciose, appaiono all’orizzonte come geometrie che si compongono secondo una sequenzialità ordinata. Il video propone alle/agli spettattarici/tori di guardare alle montagne aride di Redeyef da un’altra prospettiva e di contribuire a re-inscrivere, attraverso riposizionamenti, la memoria di questo territorio e delle sue comunità.
Haythem Zakaria è uno degli artisti membri di Siwa Plateforme, che è stato invitato a partecipare a documenta15. Dal 2011, la piattaforma Siwa ha collaborato con artisti e intellettuali tunisini, arabi ed europei per iniziare a Redeyef un lavoro congiunto con i suoi abitanti e in particolare i giovani, e nel 2014 ha attivato un laboratorio artistico dove libertà, parola, la riflessione e la vita pubblica sono sperimentate attraverso la creazione.  Artist* associate* a Siwa sono: Haythem Zakaria (Francia, Tunisia), Loup Uberto (Francia), Fakhri El Ghazel, Imen Smaoui, Mohamed Abidi, Okacha Ben Salah, Haytham Abderrazak, Tahar Ezzedini, Saad Tabbabi, Mouna Belhouchet. Direzione artistica: Yagoutha Belgacem.

Marianna Liosi

d15 – HAYTHEM ZAKARIA, The Stone Opera, Video frame – Fridericianum, 2022
d15 – HAYTHEM ZAKARIA, The Stone Opera – Fridericianum – Installation view, 2022 © Marianna Liosi

LEGGI — Documenta 15 – Una riflessione collettiva. Parte 1