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Testo e intervista di Giulia Gelmini
La mutevole creatura DITTO ha assunto nuove connotazioni in occasione della mostra Blind Date, inaugurata il 14 dicembre 2017 presso CURRENT di via Sant’Agnese 12 a Milano. La trasformazione del collettivo curatoriale, composto da un gruppo di giovani archeologi della contemporaneità, si è espansa come il nero della notte, attaccandosi alle pareti dello spazio espositivo, ora caverna in cui sono messi in mostra reperti del futuro. Sul pavimento scatole nere foderate con della gomma piuma raccolgono frammenti di memoria al silicio: chiavette USB sotto vuoto, numerate da uno a 150. Luci fredde illuminano il suolo scuro; dei presenti si vedono solo piedi e gambe. Immerso nell’oscurità tutto il resto del corpo fatica a delinearsi.
Siamo anonimi visitatori che viaggiano attraverso due strati di memoria. Una stratificazione creata dalla mano di DITTO, che con un’azione di rottura, frammentazione e suddivisione ha parcellizzato in varie immagini la memoria dello spazio espositivo. All’interno della chiavetta USB troviamo infatti immagini digitali dello spazio, ancora vergine dell’intervento di Ditto. La memoria collettiva dello spazio è racchiusa in una memoria digitale accessibile a tutti.
Il secondo livello all’interno del quale ci muoviamo è invece quello della memoria personale. I contenuti della USB sono manipolabili attraverso qualsiasi software 3D. Il ricordo collettivo può ora essere strumento per la creazione di nuovi elementi, individuali e differenti per ognuno di noi. Con questo appuntamento al buio si accende un dibattito sul concetto di memoria, fruizione artistica, identità. In seguito a questo suo intervento DITTO sembra assumere ulteriori forme e stadi di evoluzione; potrebbe non trattarsi semplicemente di un collettivo curatoriale, ma anche di un metodo, una pratica offerta al pubblico, una volatile presenza che delinea forme contemporanee di sperimentazione artistica.
A seguire un’intervista al collettivo DITTO che analizza i temi della memoria, del gesto e dell’identità.
Giulia Gelmini: Ditto ha invaso completamente lo spazio di CURRENT in occasione della mostra Blind Date. L’intervento che avete effettuato ha invertito i canoni del classico spazio espositivo con caratteristiche proprie di un white-cube. Entrando in questa caverna buia, illuminata da poche luci accecanti posizionate a terra, la fisionomia dello spazio è impossibile da percepire. Ricordavo forme e misure, adesso improvvisamente cancellate da un mantello di pittura nera che ricopre le pareti, il soffitto e il pavimento. Una trasfigurazione completa, una mutazione di identità. Che cosa rappresenta il buio all’interno della vostra narrazione futuristica? In che modo l’opposizione tra il bianco limpido che lascia parola alle opere e il nero che avvolge come una creatura dell’inconscio ha influito nella concezione di questo progetto?
DITTO: Il buio che invade il bianco dello spazio espositivo non è stato usato per un fine simbolico, ma come punto di un percorso nel quale il visitatore è portato a passare. L’idea di creare un cortocircuito di senso rispetto al tradizionale white-cube nasce dalla volontà di negare lo spazio, che necessita dunque di vivere altrove. Il buio diventa un elemento del display, toglie allo spettatore la soddisfazione di vederci subito chiaro, sia in termini di percezione delle dimensioni dello spazio, sia per quanto riguarda l’intervento stesso, le cui condizioni saranno svelate successivamente dai contenuti della chiavetta. Il disorientamento creato dalla carenza di luce unito all’incertezza rispetto al contenuto delle chiavette USB alimenta una tensione che potrà essere interrotta solamente in un secondo momento, quando sarà lo spettatore a riscoprire digitalmente lo spazio.
GG: Il vuoto lasciato dalla perdita di memoria che la società contemporanea sta vivendo sempre più è parzialmente legata alla delegazione, alla fiducia che riponiamo nei dispositivi creati dal progresso tecnologico e che acquistiamo in funzione della loro grande affidabilità. Spesso però, questa memoria al silicio presenta delle fallacie alle quali solo la memoria organica può sopperire. Inoltre, ciò che viene archiviato in un apparato esterno al nostro corpo non necessariamente mantiene traccia della storia precedente. I file contenuti presentano solo una versione, frutto di numerosi cambiamenti e versioni, che si perdono nel cyberspazio, non più rintracciabili. La decisione di delegare parte di una vostra memoria a un oggetto e la scelta di rendere questi ricordi manipolabili ha a che fare con un processo di stratificazione della memoria? Condividere frammenti del passato con altre persone può contribuire alla nascita di memoria del futuro?
D: Abbiamo scelto di racchiudere i risultati derivati dalla mappatura dello spazio all’interno di una chiavetta USB con l’intento di creare un archivio che fosse cosa distinta e parallela rispetto al web. Da parte nostra non ci sono state selezioni, la superficie studiata è rimasta sempre fedele a sé stessa, nonostante sia stata digitalizzata. Questa memoria esterna fornisce dei contenuti che si presentano aperti a infinite combinazioni e alla creazione, attraverso continue stratificazioni, di significati altri. Il tema dell’esternalizzazione della memoria è una prospettiva che ci interessa analizzare dal punto di vista dei limiti e delle modalità di utilizzo alternative a cui si apre. Disporre di spazi di archiviazione potenzialmente infiniti ci porta ad accumulare sempre più e selezionare sempre meno. Quello che vorremmo sottolineare è la pluralità delle memorie possibili, che intersecandosi contribuiscono alla creazione di un racconto più ampio. Una volta terminate, le chiavette in mostra non saranno fornite nuovamente. In tal caso chi vorrà fruire del contenuto digitale dovrà rivolgersi a chi ne è già in possesso, per condividerlo.
GG: A questo punto della conversazione mi sembra evidente che la tematica dell’autenticità di un’opera d’arte venga messa da parte in Blind Date e prendano dunque importanza l’autonomia, il primato della creazione e della libera manipolazione dei contenuti da voi selezionati. Potete parlare della vostra scelta e della perdita dell’aura che la vostra mostra racconta? Quando avete capito che non era più fondamentale creare qualcosa di autentico e intoccabile, ma che l’apporto del pubblico era ciò che rendeva viva la vostra arte?
D: Con Blind Date abbiamo voluto riflettere sul concetto di distanza: la distanza della fruizione posticipata e allo stesso tempo la possibilità di condividere i contenuti utilizzando la chiavetta USB seguendo il suo scopo primario. Ci interessava che i file fossero parte di un processo che ha portato a considerare lo spazio di CURRENT come reperto da conservare e condividere nella sua ambigua autenticità. Parliamo della nascita di un’aura nuova piuttosto che della sua perdita – ormai non è possibile sostenere che i file digitali non possiedono un’aura, anzi – forse proprio oggi è più forte e percepibile che mai; ognuno di noi custodisce con estrema cautela i propri file. Noi vogliamo attribuire ai risultati della nostra ricerca lo stesso valore, lasciando però l’ultima parola al fruitore che è libero di formattare la chiavetta in un click privandola di qualsiasi significato. Il momento in cui siamo diventati consapevoli dell’importanza che aveva per noi il coinvolgimento del pubblico è stato in occasione dell’intervento in collaborazione con Gioconda Radio all’interno della cornice di Studi Festival. In quell’occasione abbiamo lavorato su una selezione di immagini che ruotavano attorno al tema dell’apparizione nelle sue diverse forme e significati. Un software permetteva la conversione e la trasmissione di queste immagini e gli ascoltatori, invitati a collegarsi alla radio, potevano a loro volta tradurre nuovamente questo segnale audio in immagine tramite un software scaricabile. All’interno di questo processo allo spettatore veniva richiesta una presenza attiva e definita in termini temporali e alcuni “strumenti”erano necessari per la fruizione.
GG: Sfogliare i contenuti della chiavetta USB e poterli eliminare, modificare, unire rende il fruitore della mostra un produttore di contenuti che, prendendo l’espressione coniata da Alvin Toffler nel libro The third wave (1980), verrebbe definito prosumer. Dunque manipolare le immagini è un po’ come crearsi un proprio percorso espositivo. Siamo produttori di ulteriori nuove forme e contenuti. Siamo forse invitati ad essere i curatori di un’ideale mostra? Possiamo ritenerci architetti di un nuovo percorso virtuale?
D: Nell’attuale scenario mediatico ogni immagine risulta essere una delle innumerevoli possibili visioni. Consideriamo l’immagine come qualcosa di aperto. La possibilità di manipolare a propria discrezione i file cerca di stimolare nel fruitore una consapevolezza del materiale digitale stesso e del pensiero critico attorno al quale si struttura la mostra. Non dobbiamo mai dimenticare il potere delle immagini, esse agiscono su di noi, ma siamo noi a crearle e interpretarle. L’appuntamento al buio dunque è proprio con lo spazio espositivo stesso dove ogni singola porzione può essere “portata a casa” ed essere vissuta in modo diretto e privato.
GG: Mantenere celata la vostra identità è una sfida molto ambiziosa in quest’epoca dominata dall’iper-sorveglianza. La serialità con la quale avete lavorato per CURRENT ha permesso una omogeneizzazione e democraticità dell’intervento. L’anonimato di DITTO è stato mantenuto. Come credete si potrà sviluppare nei prossimi progetti? Pensate di mantenere la riproduzione seriale come metodo?
D: Ciò su cui vorremmo porre l’accento, più che sull’anonimato dei componenti del gruppo nei confronti dell’esterno, è un anonimato interno, una sorta di autorialità collettiva. Quello su cui cercheremo di lavorare è proprio questo, la creazione di idee e progetti il più unitarie possibili, frutto di un lavoro e di un dialogo collettivo. Ci piace metterci alla prova in contesti sempre differenti, come è avvenuto in tutti i nostri precedenti interventi il metodo va di pari passo con il luogo in cui ci troviamo ad intervenire.