Intervista di Gaia Grassi —
L’artista britannico David Tremlett presenta un nuovo intervento a Reggio Emilia, The Organ Pipes, presso l’ex Caffarri, nel quartiere Santa Croce: un’opera monumentale composta da tredici silos colorati e la facciata adiacente dell’edificio che si innalzano verso il cielo come canne di un organo. Quest’ installazione permanente è parte di un intervento di rigenerazione urbana voluta dalla Fondazione Palazzo Magnani e dalla città di Reggio Emilia, che include un’articolata serie di iniziative: l’intervento di arte pubblica che riqualifica lo spazio dell’Ex Caffarri, la mostra Another Step presso i Chiostri di San Pietro, una nuova opera permanente nel complesso monumentale.
Curata da Marina Dacci, la mostra Another Step raccoglie circa settanta opere dell’artista realizzate tra il 1969 e il 2024 e instaura un dialogo tra spazi liminali della città e il centro storico, e completando l’intervento urbano con una prospettiva immersiva sull’opera e sul percorso creativo di Tremlett. Di seguito, una conversazione con la curatrice Marina Dacci, che ha seguito tutte le fasi di questo progetto, per esplorarne motivazioni e il percorso curatoriale.
Gaia Grassi: Partiamo dall’inizio. Come nasce questo progetto di David Tremlett a Reggio Emilia?
Marina Dacci: L’idea era di proseguire un progetto che la città aveva già avviato e che avevo seguito personalmente: “Invito a…” proposta da Claudio Parmiggiani con opere di Morris, LeWitt, Fabro e Mattiacci Ero entusiasta che l’Amministrazione avesse deciso di proseguire su questa linea. Il format dell’invito all’artista si sarebbe arricchito rispetto ai progetti precedenti: infatti “Invito a…” prevedeva la commissione di un’opera permanente e una piccola vetrina nel centro della città per raccontare le fasi preparatorie, ma non una mostra vera e propria.
Quando si è discusso sul nome dell’artista da invitare che fosse giusto per il taglio di questo intervento ho proposto David Tremlett per una serie di ragioni. Prima fra tutte la sua storia artistica costellata di commissioni di interventi in luoghi spesso a valenza sociale e comunitaria (ospedali, uffici, case di riposo, chiese, centri di mobilità etc), la sua attitudine a stringere rapporti col territorio in cui interviene valorizzando la storia dei luoghi e il loro portato di memoria e di coinvolgimento delle collettività.
GG: Tra l’altro Tremlett ha uno stretto rapporto con l’Italia.
MD: Certo. Tremlett è un artista consolidato che ha lavorato in tutto il mondo , ma il grande pubblico lo conosce soprattutto per i wall drawings, cioè opere di grandi dimensioni realizzate per mostre , spazi privati o pubblici. Molti di questi sono in Italia. Con l’Italia infatti Tremlett ha stretto dagli anni Ottanta una relazione molto stretta. A questa relazione col nostro paese è dedicata una grande sala della mostra. Pochi però conoscono il suo lavoro in studio: un lavoro di ricerca e di pensiero che accompagna in modo sistematico il suo percorso artistico da sempre. Per quanto mi riguarda è altrettanto interessante ripercorrerlo “dall’interno” attraverso opere che spesso non sono state mostrate e che sono il risultato del suo “essere viaggiatore ” con tutto quello che ne consegue: il rapporto con i luoghi che percorre (sia paesaggio sia architetture), le relazioni con le persone come fruitori di spazi in un determinato territorio che hanno spesso avuto un seguito nel tempo generando rapporti stabili.
GG: Mi pare che questo approccio crei anche un legame con la comunità in cui l’opera è inserita, come nel caso del quartiere Santa Croce, non è così?
MD: Sì, esatto. Il suo approccio mi sembrava adatto soprattutto nel caso di Santa Croce, che è un quartiere che ha visto uno splendore economico in passato, ma che attualmente è un’area problematica in cerca di una nuova identità.. Tremlett ha incontrato moltissime persone e realtà del quartiere. In questo senso il suo intervento artistico non si pone certo come una impronta di “abbellimento ” , ma come nuova modalità di preservare la memoria di un luogo e saperla trasformare in benzina per il futuro. Non è un caso che all’interno dell’ex mangimificio trovino ora sede un teatro che lavora con territorio e un centro di ricerca e sperimentazione destinato all’infanzia. Tutto questo è un vicendevole potenziamento.
GG: Da un lato hai a che fare con un’opera monumentale come The Organ Pipes, dall’altro con una mostra più raccolta che sembra completare e ampliare l’insieme dell’intervento. Mi puoi raccontare di più sul tuo approccio curatoriale?
MD: Come ti ho accennato ho trovato vincente questo format: opera permanente, ubicata in quartiere periferico problematico, collegato a una mostra che è un excursus generale sul suo lavoro in uno dei luoghi storici più prestigiosi nel centro cittadino. Questo potenzialmente consente di offrire un approfondimento sulla ricerca dell’artista agganciando e coinvolgendo pubblici diversi, che normalmente non sono frequentatori assidui di spazi museali. In questa direzione andava valorizzato questo legame con una serie di iniziative e interventi collaterali che, devo dire, stanno egregiamente sviluppando Palazzo Magnani e altri soggetti del territorio: la realizzazione di un podcast che non è un semplice making of ma racconta di come era una architettura in disarmo e come è diventata un centro di aggregazione e simbolo di sviluppo, la formazione per bambini e famiglie, gli incontri di quartiere (nella biblioteca e con le associazioni attive sul posto, un intervento performativo di danza in collaborazione con i Teatri, la creazione della Tremlett line, sviluppata dai ragazzi del dal liceo artistico locale, che punteggia e collega i due luoghi come le briciole di Pollicino!
GG: Tremlett ha avuto una grande parte nell’allestimento della mostra Another Step. Mi dicevi che è stato lui a progettare la posizione delle pareti, giusto?
MD: E ha anche deciso i colori delle pareti! Ha creato queste pareti autoportanti con delle strutture particolari molto diverse dalla modalità tradizionale di addossare i pannelli temporanei alle pareti delle singole sale. Una ad esempio ha una forma a Z , l’altra a cannocchiale: insomma tutto enfatizza l’idea di un percorso labirintico che lo spettatore deve fare in mostra. Il tutto genera un habitat vero e proprio che ingloba il DNA del palazzo in dialogo con le opere. Come ho accennato la mostra è costituita prevalentemente da lavori realizzati in studio di cui oltre la metà mai esposti o esposti tantissimi anni fa all’estero. Ho fatto questa ricerca a Londra nello studio dell’artista e ho potuto visionarne la maggior parte sul posto. Partendo da questo legame con l’opera permanente sono arrivata al suo studio con alcune parole chiave che avrebbero costituito l’ossatura della mostra e il mio criterio di selezione. In base a questo e alla relazione con gli spazi l’allestimento non è stato concepito in cronologia ma appunto per parole chiave.
GG: Quali sono queste parole chiave?
MD: Il viaggio inteso come scoperta anche inaspettata, l’architettura leggibile con modalità diverse (dal recupero della sua memoria alla sua rilettura visionaria), la ridefinizione del concetto di dentro e fuori per architetture e ambiente, il rapporto con la parola e con le lettere come criteri ordinatori di segno e colore , il rapporto con il suono declinato in musica e in danza in rapporto all’esplorazione dello spazio, il lavoro della mano.
GG: Tra le parole chiave, mi ha colpito molto il suono, che sembra collegare con un filo invisibile la mostra all’opera di arte pubblica.
MD: Uno dei focus che mi ha colpito molto del lavoro di David era, come dicevo prima, l’approccio fisico che ha con gli spazi, e il suono è uno degli elementi che hanno sempre caratterizzato il suo lavoro che si intreccia strettamente all’uso della linea e del colore. Non è un caso che una delle sale in mostra è dedicata a questo aspetto. Il suono che può addirittura diventare partitura musicale, come in alcune opere esposte degli anni Settanta ad esempio. . Quando Tremlett mi ha detto che aveva deciso finalmente il titolo dell’opera permanente con queste parole «Ho avuto questa intuizione…quando entravo nelle chiese, soprattutto in Francia, ho visto questi organi monumentali con le canne rivolte al soffitto… Perché non intitolarlo così? Questi silos sono come grandi canne d’organo che alla fine emettono un suono anche se virtuale… ” ho realizzato che si era rafforzato ulteriormente il legame con la struttura della mostra.
GG: Quindi c’è un legame tra suono e architettura, qualcosa che comunica anche attraverso la dimensione spaziale?
MD: Sì infatti, Il colore e le sue gradazioni ne scandiscono il ritmo e le superfetazioni di tubi sopra i silos paiono concretizzazioni di suoni, anche se chiaramente si tratta di sonorità virtuale.