Testo di Marta Acciaro —
Leggiamo sulla Treccani: “inventàrio s. m. [dal lat. tardo inventarium (der. di inventus, part. pass. di invenire «trovare»), propr. «elenco, registro per trovare ciò che è in un dato luogo»]. – 1. Rilevazione, enumerazione e descrizione, capo per capo, di oggetti, documenti e beni esistenti in un momento determinato in un dato luogo”.
Rocco Ronchi nel Novembre 2019 ha tenuto un seminario al Macro di Roma per parlare della situazione critica, oggi, dell’opera d’arte, partendo dal concetto di data-evento-avvenimento da un punto di vista prettamente filosofico. L’interessantissimo intervento ritorna su se stesso, ad un certo punto, per riprendere le fila dell’arte e per farlo Ronchi non parla dell’arte contemporanea, ma della pittura parietale, quasi fotografica, dei preistorici che, con la loro impressione sui muri delle grotte, testimoniano il loro “aver avuto luogo” in quel dato luogo, in quel dato tempo (tempo a cui oggi diamo un inizio e una fine nella lapide che ci vedrà tutti morti e che testimonia il nostro aver avuto luogo in quel determinato tempo).
Cosa differenzia l’opera (inconsapevole?) delle opere primitive dall’opera (certamente consapevole) dell’artista palermitano Daniele Franzella?
Franzella, classe 1978, ha inaugurato la sua personale, curata da Luca Reffo, presso gli spazi della palermitana Rizzuto Gallery, visitabile fino al 1° Febbraio 2020.
Parlando con il curatore è emerso come ogni opera presente in galleria non fosse altro che un inventario che, a detta appunto della Treccani, testimonia ciò che è in un dato luogo e che ha avuto luogo, per quel tempo.
La “preistoricità” (non nel suo senso più puro, ma nel suo senso più materiale) dell’opera di Franzella ci spiazza.
Sebbene le 20 opere ci si presentino con medium diversi, ognuna di esse rappresenta un’operazione a sé, un pensiero proprio di memoria interna e interiore, un ripensamento materico di se stessa. In definitiva i medium diversi mostrano 20 sculture che ci si presentano sottoforma di materiali, dalla ceramica alla pietra, stampati, istallati, totemizzati, isolati, in cui il verosimile ci appare come l’unico vero e il vero non ha più importanza d’esser pensato.
La matericità tattile delle superfici che ci si presentano è anche ben presente nelle immagini che Franzella propone, in una ripetizione dal suono ossessivo del proiettore che gira e gira, rigirando, ripensandosi anch’esso in un continuo movimento su se stesso, sull’immagine che vede se stessa e si rivede, ristampandosi, ripensandosi.
Possiamo identificare ad ogni modo tre tipologie principali di opere all’interno della mostra: quelle fotografiche, proiettate e “stampate” su schermo; quelle in ceramica stampata; quelle stampate su tappezzeria.
Nel primo caso si ha in modo autentico e chiaro l’idea di inventario nel senso più comune che conosciamo, come ci ricorda Reffo stesso nel suo pensiero dell’opera: “An Inventory of è concepita come un laboratorio dell’immaginario che mette in relazione i codici della figurazione con la contemporanea attenzione dell’immagine replicata [in cui si] […] riflette sul concetto di repertorio inteso come inventario distopico del mondo e sulla perversità di ogni sua rappresentazione”.
Nel secondo caso vi è una vera e propria collezione inutile di ceramiche. Quando ho chiesto a Franzella il perché queste ceramiche fossero, a mio parere, concepite tutte come doppie, mi ha consigliato di riflettere sul concetto di verosimile e intendere in questo modo un fantomatico 2 del tutto inintenzionale sebbene presente in modo pressante e assillante. Definiamo le ceramiche assolutamente “inutili” perché non appartengono a quella categoria di ceramiche da esporre dentro a improbabili vetrinette. Sono ceramiche-sculture, bellissime nella propria inutilità d’essere, nel proprio aver luogo in quanto essere così indipendentemente da uno scopo specifico e utilitaristico, anticapitalistico e probabile metafora delle questioni quotidiane.
La questione del verosimile è però esplicata in modo dirompente nel terzo caso di opere, quelle stampate su tappezzerie (delle semplici fodere) in cui viene esibito ed esposto un’idea di salotto ricoprente uno spazio a sua volta esposto, con una srotolata vista su un ipotetico fuori e con elementi decontestualizzati come una sedia appesa al muro, quasi benedetta opera di culto.
L’idea di culto si estende a tutta la personale di Franzella, ma soprattutto nell’opera LEONI, in cui due ceramiche di leoni sono coricati e adagiati su dei totem azzurro cielo, l’uno di fronte all’altro, fermi nella loro fierezza. È l’opera su cui mi sono soffermata di più, pensando a quanto questi due leoni, da sempre simbolo di potenza, non avessero più bisogno del santo Girolamo per esprimere la propria forza e mi è sembrato assolutamente interessante l’operazione dell’artista di proporre un simbolo da sempre utilizzato nell’arte e spogliarlo della propria significanza, riportando il significante originario dell’oggetto, a questo punto spogliato dal suo peso simbolico.