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CRUISING IN VENICE

Se lo smartphone si scarica è possibile fare cruising tra le opere della Biennale.Un percorso erotico, corporeo e tattile della mostra Stranieri Ovunque/Foreigners Everywhere
Claire Fontaine, Stranieri Ovunque (Autoritratto), Foreigners Everywhere (Self-portrait), 2024 Courtesy: La Biennale di Venezia – Foto Matteo de Mayda
Dean Sameshima, Being alone, 2022 Courtesy: La Biennale di Venezia – Foto Matteo de Mayda

Testo di Jacopo Miliani

“We are everywhere” (noi siamo ovunque) è la scritta su un muro di New York che compare in alcune versioni non censurate della scena inziale del film Cruising (1980) di William Friedkin, il regista che nel 1973 aveva girato L’esorcista. La scritta, che suona come un inquietante presagio, si riferisce a una rivendicazione di quello che negli anni Ottanta era visto come il diverso, l’altro, il queer (prima che si utilizzasse questa parola in ambito accademico e socio-politico). Cruising narra di un poliziotto che si infiltra nei locali della scena BSDM maschile di New York. La pellicola, una pietra miliare del cinema gay, mostra un’ambiguità costante che gioca con l’identità del protagonista, interpretato da Al Pacino, e successivamente con quella dello spettatore che guardando il film si rende complice della perdita di riferimenti tra il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, l’attrazione e la repulsione, l’io e l’altro. 

Non entro nella mostra Stranieri Ovunque/Foreigners Everywhere¹ dall’entrata principale, ma mi dirigo sulla sinistra e percorro uno stretto corridoio dove incontro un volto maschile con grandi occhi scuri che indossa una camicia color ocra², più avanti c’è un’insegna: “Anonymous Faggots”³. Questo è uno spazio di passaggio, un varco liminale e senza accorgermene mi ritrovo dentro il buio di un cinema porno; un ambiente così scuro che le ombre dei suoi abitanti si impongono come delle silhouette nere davanti a un accecante schermo bianco. Capisco che il mio cruising è iniziato e davanti a me ci sono volti, occhi, gambe, nasi, polpacci, orecchie… ma anche linee, tessuti, geometrie, curve che nella loro completa astrazione non possono non ricordare la sensualità fisica del corpo. 

Ma quale corpo? Il mio o quello dell’altro?  Non posso uscire dal mio corpo, da questo corpo che mi trovo ad abitare e con cui abito lo spazio. Conosco il mio corpo tramite la presenza dell’altro che è diverso da me, ma allo stesso tempo mi somiglia. Guardo e sono guardato, come accade nella deriva di un cruising, dove un angolo oscuro o un cespuglio possono ospitare un incontro momentaneo, ma non per questo meno sconvolgente di una lunga conoscenza. Nei dialoghi di un cruising non ci sono parole, solo sussurri, non si chiede il nome, l’identità, l’età: siamo tutti corpi, ovunque.  

Osmond Watson, Johnny Cool, 1967 Courtesy: La Biennale di Venezia – Foto Matteo de Mayda

Vedo (e sono guardato da): un ragazzo con un cappello che scambio per un marinaio⁴, un costruttore di una strada che sta seduto⁵, una lavandaia goffa⁶,  un danzatore che indossa la maschera dello spirito di una fanciulla⁷, un alieno muscoloso⁸, una donna scheletro dal cuore grande⁹, un attraente uomo che dipinge con indosso un cappotto blu¹⁰, due vecchiette azzurre che fanno shopping in un giorno freddo¹¹ e il dominante e sexy guardiano della strada¹²…

Mi soffermo su un uomo che si riposa dal lavoro, la sua mano si posa nell’interno della coscia¹³ restando ferma in una sospensione inoperosa. Poco più in là, una mano si sposta al centro del sesso, racchiuso negli sfrontati e stretti pantaloni di Johnny Cool¹⁴, rude boy dalla pelle liscia che indossa abiti spiegazzati. Le mani sono ovunque, le mani toccano e si è toccati dalle mani, le mani sono un modo di scoprire il nostro corpo e quello degli altri: mani che seminano, mani che dipingono, mani che intessono tessuti, mani che impugnano ventagli e altre che sorreggono delle armi. I gesti delle mani sono un’altra possibilità di osservare le immagini: ci sono mani che dividono gli incontri non troppo fugaci di Silvio Berlusconi con Muammar Gaddafi¹⁵; mani “terze” (né maschili né femminili) che mettono in scena una danza nunziale¹⁶; mani di un rifugiato-astronauta che hanno raccolto in una rete l’equipaggiamento necessario alla sopravvivenza per quando la terra non sarà più abitabile¹⁷.

Nel cruising il tatto è una forma di conoscenza che sostituisce la visione: la dimensione tattile non coinvolge solo le mani ma tutto il corpo. È buio anche dentro la tuta dell’astronauta-rifugiato di cui non conosciamo l’aspetto: il suo corpo viaggia senza una meta, cambiando continuamente i rapporti con lo spazio e il tempo. Siamo tutti in trans-ito, passeggeri di una realtà che non possiamo mai definire in modo stabile. I corpi ballano e così i loro significati che si dimenano nelle forme scomposte di due fluorescenti cowboy messicani (charros)¹⁸ che si strattonano tra loro. Nella danza, come nelle immagini, il corpo non è mai solo e il rapporto a due (performer e spettatore) si amplifica nella comunità. La comunità è come una piramide di persone¹⁹ i cui vestiti sono delle macchie colorate che acquarellandosi si mischiano tra loro. Una per volta le macchie danzanti si separano dalla massa-piramide e si arrampicano su di essa: l’assenza di vuoto consente la trasformazione dal singolare nel plurale e viceversa.

Alessandra Ferrini, Gaddafi in Rome: Anatomy of a Friendship, 2024 Courtesy: La Biennale di Venezia – Foto Matteo de Mayda
Ana Segovia, Pos ’se acabo este cantar, 2021 Courtesy: La Biennale di Venezia Foto Andrea Avezzù

Del vuoto, del buio, di ciò che non conosciamo si ha paura e nei luoghi non ancora abitati si infrangono i concetti e le sicurezze dominanti dell’identità. Tuttavia non posso fare a meno di cadere in questa assenza di controllo, perché solo grazie alla caduta potranno emergere delle nuove possibilità. Forse il possibile non sarà più umano ma transumano, postumano o ancor meglio non avrà un nome, come dei fiori che ancora non sono stati scoperti²⁰ ma sono in continua evoluzione. Tutto parte da un corpo che continua a danzare rifuggendo ogni categorizzazione.
La dimensione liquida del buio che troviamo in una inesplorata foresta tropicale²¹ è simile al cruising della darkroom, in cui corpi oscuri si muovono nello spazio nero: un’oscurità che ha anche una valenza politica dal momento che in assenza di un’immagine che ci rappresenti ci ritroviamo tutti uguali. “We are everywhere” come “We are all strangers”: queste frasi suonano adesso come un motto di ascolto e di accoglienza, che sembra lontano dai timori della diversità degli anni Ottanta pre-AIDS descritti da William Friedkin. La diversità non deve però diventare una nuova normalizzazione, ma continuare a perseverare il potenziale creativo e generativo della caduta e della rottura. 
Non siamo né l’uno né l’altro, siamo “stranieri ovunque”: perifrasi che indica lo straniamento proprio della nostra civiltà globalizzata che continua a imporre dei modelli pre-dominanti all’interno della diversità di soggetti, esperienze, espressioni. Ovunque incontreremo stranieri perché, nonostante la nostra ubicazione, di fatto siamo noi stessi degli stranieri. L’essere straniero è una condizione dell’essere che per definirsi necessità di capire quello che non è. “Strani corpi stranieri” diceva Jean-Luc Nancy e i significati della parola straniero si confondono, come avviene nella parola “ospite” che in italiano indica sia colui che ospita che colui che viene ospitato. Il termine xenos, in greco antico, è utilizzato sia per designare l’ospite-amico che entra nei rituali domestici, sia lo straniero-sconosciuto che viene da fuori. L’ospite e lo straniero non hanno una definizione fissa e la loro identità si perde dentro un deserto/labirinto²² che, come in un racconto di Jorge Luis Borges, continuamente modula le sue forme al passaggio del vento. Il deserto blu può essere quello della superficie del mare che bagna la città di Venezia. Una superficie profonda che cambia aspetto quando viene solcata dalla mole poderosa di una nave da crociera. Questo è un altro tipo di cruising o forse non è così diverso dal mio vagare in questa massa di corpi che si raccoglie ogni due anni in un rituale che sembra aver perso la sua comunità? Non lo so ancora, ma credo che per riemergere bisogna affondare e penso che il futuro sia pieno di potenzialità inaspettate e inesplorate.

Nella scena finale del film Cruising il personaggio interpretato da Al Pacino si guarda allo specchio e il suo sguardo in camera ci rende partecipi della sua ambigua trasformazione. Ho voluto percorrere la mostra Stranieri Ovunque come un cruising che ha portato il mio sguardo alla deriva e a immergermi nella possibilità del buio, dove incontro l’altro che ancora non conosco e forse mai conoscerò del tutto. L’altro sei anche tu, con cui condivido il buio delle parole che formano questo testo… anche tu sei straniero e forse i nostri corpi non si toccheranno mai o lo hanno già fatto.

1 Claire Fontaine 2 Louis Fratino 3Dean Sameshima 4 Filippo de Pisis 5 Chua Mia Tee 6Juana Elena Diz 7 Ben Enwonwu 8 Bahman Mohasses 9 Semiha Berksoy 10 Lee Qoede 11 Gladys Mgudlandlu 12 Hamed Ewais 13 Lai Foong Moi 14 Osmond Watson 15 Alessandra Ferrini 16 Ahmed Umar 17 Yinka Shonibare 18 Ana Segovia 19 Simone Forti 20 Anna Zemánková 21 Joshua Serafin 22 Aref el Rayess
Aref El Rayess, Untitled, from the series Deserts, 1988 Courtesy: La Biennale di Venezia Foto Matteo de Mayda