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Non saremmo stati veramente noi stessi | Conversazione con Iva Lulashi

"Quando ho iniziato a dipingere elementi allusivi ero impaurita immaginando le possibili reazioni perché allora c’era una mentalità più maschilista di quella odierna, e avevo il timore di essere giudicata. Stavo cercando di scardinare lo spirito del periodo comunista albanese... " I.L.

Intervista di Carlo Sala —

Questa conversazione* con Iva Lulashi (Tirana, 1988), protagonista del Padiglione Albania all’ultima Biennale di Venezia, esplora il percorso artistico dell’autrice dalla formazione veneziana fino agli esiti più recenti intrecciando la dimensione espressiva e quella umana. La sua pittura ne emerge come una miscellanea di istanze tra memoria personale e sociale, tensioni libertarie e dinamiche di potere, echi della storia del Novecento e vita odierna.

Carlo Sala: Vorrei partire da lontano, e parlare degli anni in cui eri studentessa all’Accademia di Belle Arti di Venezia all’interno di un vivace atelier di pittura. Come ha contribuito quell’ambiente alla tua formazione?
Iva Lulashi: Ogni passo che facevo verso la pittura era completamente nuovo e quasi ovattato. Era un ambiente che ti forniva molti stimoli, ma amplificava anche le paure delle gioventù, in un certo senso ero di nuovo straniera. Quando a 10 anni sono arrivata a Pordenone dall’Albania mi è servito del tempo per sentirmi parte del luogo. Quello a Venezia era un altro viaggio, un confronto con una realtà nuova, ma in quella estraneità ho capito che avrei potuto trovare me stessa. Nel primo anno ho realizzato, con poca consapevolezza, dei dipinti che rispecchiavano lo stile di vita della realtà provinciale di Pordenone. I soggetti erano donne dalla bellezza stereotipata e anche la pittura era laccata, per certi versi manierista.

CS: Chi conosce la tua ricerca fatica a immaginare che per alcuni anni i tuoi dipinti sono stati popolati quasi esclusivamente da personaggi maschili, spesso derivanti dalla tua memoria familiare e dalla figura di tuo padre. 
IL: Il professore Carlo Di Raco aveva capito che raffigurando solo figure femminili omologate non stavo approfondendo il mio reale vissuto, e rischiavo di rimanere in superficie. Non so quanto il docente sapesse della mia storia personale, ma un giorno è arrivato e mi ha detto in modo chiaro e tondo: “per quattro anni devi dipingere solo uomini”. Inizialmente ho iniziato a ritrarre gli altri studenti dell’atelier, ma questi dipinti non mi soddisfacevano. Allora sono andata a casa a frugare tra le vecchie fotografie, che mi hanno sempre attratto, passavo delle ore a guardare gli album di famiglia di quando ero piccola, era quasi un’ossessione. Ho cominciato a raccogliere delle immagini in bianco e nero di mio padre del periodo prima che nascessi, questo mi ha anche aiutata molto ad allontanarmi dai colori fluo che usavo.  Il rapporto con la staticità delle foto e con la memoria personale mi ha portato a dipingere per alcuni mesi solo mio padre e altre figure maschili della famiglia. Successivamente ho iniziato a utilizzare fotografie prese in Albania o trovate su internet, e questa memoria singolare si è allargata sempre di più diventando sociale. Questo passaggio per me è avvenuto in modo del tutto naturale e, anche se in quel momento non c’era una progettualità così chiara, attraverso queste immagini potevo scavare a fondo nelle questioni che mi interessavano. Per il mio modo di lavorare questa esperienza è stata molto utile, troppa teoria a priori sarebbe stata una forzatura. 

CS: Uno dei temi portanti della tua ricerca è stata la dimensione del potere che si insinua in ogni momento della vita quotidiana, per indagarlo sei partita da una serie di materiali fotografici e audiovisivi realizzati in Albania ai tempi del regime comunista di Enver Hoxha. Quali tematiche hai affrontato e perché hai sentito il bisogno di confrontarti in modo diretto con la storia e la società del tuo Paese?
IL: Nelle immagini che osservavo ripetutamente mi sono accorta di una staticità e rigidità nelle pose che veniva inculcata dal sistema dittatoriale. Sono passata all’uso dei video perché avevo bisogno di poter scegliere che momento dipingere, catturare un singolo frame. Era un modo per andare oltre la staticità delle pose fotografiche che testimoniavano l’assenza di libertà imposta a un popolo. 

CS: Nello specifico quali erano le fonti che utilizzavi?
IL: Principalmente documentari e film realizzati in Albania o in Italia dall’Istituto Luce che cercavo in rete. Ho realizzato, per esempio, la serie Qui Stalin piace ancora che mutuava il titolo da un documentario. Non dovevano essere film che avevo già visto da piccola perché sentivo la necessità di non essere condizionata dalle trame e dai loro messaggi propagandistici, e di mantenere un certo distacco che potesse favorire maggiore freschezza nella pittura. 

Iva Lulashi, Bea e i benpensanti, 2024, olio su tela, 30 x 40 cm, Courtesy the Artist, Photo Courtesy Andrea Rossetti
Iva Lulashi, Zeu pater, 2020, olio su tela, 149 x 196 cm, Courtesy the Artist, Collezione Giuseppe Iannaccone, Photo Courtesy Ludovica Mangini

CS: Seguire pedissequamente una trama di certo ti avrebbe condizionata troppo nell’esito finale della tela, le tue opere non sono mai delle citazioni dirette, ma assorbono degli spunti che poi sono raffigurati in chiave pittorica. Ad un certo punto i temi legati alla stratificazione storica albanese iniziano a contenere delle allusioni che ne ampliano o sovvertono il senso. Ricordo un dipinto – Palpebre chiuse, 2016, olio su teladove un’immagine di ginnastica collettiva è trasposta come se le figure femminili fossero in delle pose allusive, facendo entrare l’eros nei tuoi lavori. 
IL: Utilizzavo frames che potevo trovare anche casualmente, ma erano uno strumento per ribellarmi e non cedere al messaggio che i materiali della propaganda volevano comunicare. Vedendo quei film ti rendi conto che sei comunque segnato, perché quel periodo ha piantato delle radici profonde che hanno lasciato delle tracce anche nella società albanese odierna. Ho agito un po’ per beffa e senso di ribellione, e perché dovevo aiutare me stessa a essere libera di esprimere quello che avevo dentro, come l’erotismo. Quando ho iniziato a dipingere elementi allusivi ero impaurita immaginando le possibili reazioni perché allora c’era una mentalità più maschilista di quella odierna, e avevo il timore di essere giudicata. Stavo cercando di scardinare lo spirito del periodo comunista albanese, ma allo stesso tempo avevo ancora paura di quello che la gente potesse pensare. Ci sono state persone che hanno adottato facili giudizi morali, ma dagli amici e dalla mia famiglia sono sempre stata compresa. 

CS: Con il passare del tempo la tematica dell’eros si è insinuata sempre più nella tua arte fino a diventarne il perno centrale, come fosse una rivendicazione di libertà personale.
IL: Fin dagli anni in Accademia a Venezia ho iniziato ad attingere immagini da filmati erotici ma senza dichiararlo chiaramente. La vera svolta è arrivata quando mi sono trasferita a Milano e la prima mostra in galleria da Prometeo si intitolava proprio EroticommunismEroticommunism, Prometeo Gallery di Ida Pisani, Milano, 18 settembre – 17 novembre 2018,  testi critici di Rischa Paterlini e Carlo Sala). L’ultimo passaggio è stato lo spostamento tematico dal binomio erotismo-comunismo a quello pornografia-capitalismo. 

CS: Spiegami meglio come, nella tua visione artistica, si relazionano pornografia e capitalismo. 
IL: È la realtà che viviamo. Se la mia reazione alla censura del comunismo, in termini di immagine politica, è stata l’erotismo, quella al capitalismo mi sembra debba essere la pornografia. Si tratta ovviamente di una provocazione, perché è lo stesso sistema capitalistico che ha deciso di dare spazio al porno. 

CS: Così facendo insceni tutta una serie di evidenti contraddizioni insite al capitalismo. Nel periodo in cui stavi trattando questi temi un passaggio fondamentale è stato l’incontro con il collezionista Giuseppe Iannaccone. 
IL: Ancora prima di trasferirmi a Milano ho preso parte a un’esposizione allo studio Iannacone, curata da Adrian Paci, che presentava una serie di artisti albanesi che avevano partecipato a una residenza presso Art House a Scutari (EX GRATIA, Collezione Iannaccone, Milano, 14 aprile – 13 luglio 2018, a cura di  Rischa Paterlini e Adrian Paci). Iannacone mi ha subito dato fiducia acquistando una serie di miei lavori e all’inaugurazione della mostra ho conosciuto la mia gallerista: Ida Pisani. Gli incontri con Adrian, Giuseppe e Ida sono stati molti importanti per il mio percorso. 

CS: Oggi vi è un importante dibattito, anche attraverso una doverosa revisione storiografica, sulla condizione della donna e le disparità sociali che nel tempo ha subito, cosa che non accadeva in modo così intenso dagli anni Sessanta e Settanta. Premesso che sono ben conscio che alla base dei tuoi quadri non vi è una speculazione teorica, ti chiedo come pensi siano viste e percepite le donne che dipingi.
IL: Nelle mie opere risiede il desiderio, forse irrealizzabile, di raffigurare una donna serena e libera. In taluni quadri risulta più forte e indipendente, ma in ogni caso riflettono la realtà di una situazione preoccupante, dove c’è ancora molto da risolvere. Quando si parla di un abuso si pensa solo a una violenza fisica, ma può essere anche mentale e sociale.  Nel prendere spunti da un’idea di pornografia e capitalismo non ho lasciato da parte il resto del mio percorso, i vari filoni della ricerca si uniscono in quello che sto facendo per concentrarsi sui tanti nodi del presente ancora da sciogliere. 

CS: Al contempo viviamo in un momento dove una visione troppo ortodossa del politicamente corretto ha talvolta frainteso i contenuti di talune creazioni artistiche. Hai mai avuto paura che questo succedesse anche per le tue opere?
IL: No, perché i miei lavori riflettono le istanze della realtà che ci circonda. Il politicamente corretto a volte può generare aggressività, ma è comprensibile perché è la risposta ad anni di ingiustizie, e per questo va maneggiato con cura.

CS: Un aspetto interessante delle tue opere sono i titoli, poetici e atemporali. Come li scegli e che valore hanno in relazione all’opera nel completarla o condizionarne la fruizione?
IL: Sono una specie di fermo immagine. Apro dei libri di poeti a cui sono legata, che sento possano funzionare con la mia narrazione, e di colpo mi si accende un pensiero. In altri casi sfoglio casualmente un libro e magari trovo uno spunto improvviso. Taluni titoli sanno aprire delle piccole finestre e amplificare l’ambiguità delle immagini.   

Iva Lulashi, Il silenzio di latte, 2021, olio su tela, 71 x 89 cm, Courtesy the Artist, Collezione Conte, Photo Courtesy Ludovica Mangini
Iva Lulashi, Letto di luce, 2024, olio su tela, 100 x 150 cm, Courtesy the Artist, Photo Courtesy Andrea Rossetti.

CS: Cosa sta indagando la tua pittura in questi mesi che portano alla Biennale di Venezia? 
IL: Attraverso il corpo e la sessualità si possono parlare di così tante tematiche, e questo ancora mi stupisce: da un’idea di fluidità al modo di relazionarsi delle persone, dal potere alla religione. Quando sei immerso in certe esperienze, devi stare attento a non vivere in una bolla, perché basta fare un passo in più per incontrare le fobie delle persone. Quello che continuerò a fare è cercare di confrontarmi con argomenti che spero, col tempo, siano percepiti come normali e possano essere vissuti con la giusta serenità. 

CS: In questi ultimi anni stiamo osservando una grande vitalità della pittura e una sua riscoperta critica. Fammi il nome di un autore della tua generazione e uno delle generazioni precedenti che senti di stimare. 
IL: Thomas Braida e Adrian Paci. Poi vengo coinvolta e stupita da artisti della nuova generazione che per me sono un continuo nutrimento.

CS: Conosco questo aspetto del tuo carattere che ti porta a dialogare con gli altri autori e talvolta anche a realizzare dei momenti di condivisione nel tuo studio.
IL: Sono stata aiutata nel mio percorso, così quando posso lo faccio con gli altri artisti. Per questo organizzo nella casa-studio a Milano degli eventi che durano una sola sera dove gli artisti propongono un allestimento, spesso seguiti da un curatore. La casa è un ambiente intimo che porta a conoscersi e dialogare con persone del mondo dell’arte come galleristi e collezionisti. In questo clima informale sono nati nuovi legami e collaborazioni, vivo questi eventi come momenti capaci di rigenerarmi. 

CS: Oramai da anni lavori a Milano e ti sei integrata nel suo tessuto culturale. Come ha cambiato questa città il tuo modo di lavorare, e come sono le relazioni con le persone del sistema dell’arte? 
IL: È come se qualsiasi spazio cittadino fosse un modo per avere un confronto con persone di questo mondo, come abbiamo fatto insieme ieri sera in quel locale. Le mie giornate non sono strutturate in modo rigido, separando nettamente il lavoro dal resto. Io voglio avere modo – e Milano me lo permette – di essere continuamente in una situazione in cui posso creare: per me è una sorta di idea anarchica che mi consente di essere sempre collegata, pur senza strutturare troppo le mie giornate. Di volta in volta cambiano gli orari in cui dipingo, e le riflessioni lavorative si fondono con i momenti di diletto. 

CS: Ci accomuna il fatto di ritenere che tra curatore e artista debba esserci uno scambio profondo che, pur operando in una dimensione professionale, non può limitarsi ai momenti istituzionali, ma debba essere alimentato da continue sollecitazioni. 
IL: Quando ci siamo conosciuti sei stato fin da subito una figura di riferimento che mi ha dato consigli e spunti teorici. Il nostro rapporto negli anni si è rafforzato anche perché sei un curatore che frequenta gli artisti e vuole comprenderli. Penso che in qualche modo ti sia inserito nei miei lavori perché questo dialogo ha contribuito allo sviluppo della mia pittura. Come si inserisce nella mia arte la quotidianità della mia vita, si inserisce anche l’apporto di determinate figure che hanno lasciato un segno. 

CS: Un confronto denso che abbiamo instaurato fin dalla tua prima personale museale italiana in una dimora medicea (Frames, Villa Rondinelli (archivio Pietro Porcinai), Fiesole, 21 gennaio – 12 febbraio 2016, a cura di Carlo Sala).  
IL: Il luogo, Villa Rondinelli a Fiesole, era la sede dell’archivio del paesaggista Pietro Porcinai. Ricordo come il particolare allestimento che avevamo progettato nelle vetrate delle ex limonaie facesse cadere gli usuali filtri tra lo spazio espositivo e la realtà circostante, mettendo in dialogo le opere con il paesaggio nello spirito di Porcinai. In tal senso penso sia stato apprezzato da Marco Mazzi, il nipote del grande progettista, che mi aveva invitato a esporre.

CS: In quel periodo avevi realizzato una delle tue poche opere tridimensionali, che aveva partecipato al Premio Francesco Fabbri. In essa vi erano dei riferimenti precisi a un fatto che è entrato nell’immaginario collettivo dei rapporti tra Albania e Italia. 
IL: Il lavoro si intitola Italia, Italia (2016) e nasceva dalla necessità di approcciarmi a un supporto nuovo, un cubo. Per realizzare l’opera avevo preso come primo spunto visivo una serie di immagini del primo esodo albanese della nave Vlora arrivata a Bari da Valona nel 1991. Il materiale su cui è dipinto, un compensato volutamente grezzo, ricorda l’idea delle casse accatastate durante un viaggio. 

CS: Facendo questa conversazione con te mi tornano alla mente, forse con un po’ di nostalgia, le prime volte che ho visto i tuoi dipinti negli anni in cui passavo spesso a fare studio visit in Accademia a Venezia.
IL: Il nostro incontro è stato importante perché è stato il mio primo confronto con una persona preparata che apprezzasse il mio lavoro, e mi ha aiutata comprendere meglio come potesse essere il rapporto tra artista a curatore. Ricordo le lunghe discussioni, come quel giorno a Ca’ Pesaro davanti a Le signorine di Casorati. 

CS: Al contempo in quegli anni mi hai consigliato di vedere il lavoro di tanti artisti tuoi coetanei e ne parlavamo spesso la sera tra un giro da bere e l’altro in Campo Santa Margherita. 
IL: È andata proprio così, e non poteva essere altrimenti, perché altrimenti non saremmo stati veramente noi stessi e forse non ci saremmo realmente capiti.

*La conversazione è tratta dal catalogo Iva Lulashi. Love as a Glass of Water, (a cura di Antonio Grulli), bruno.books, Venezia, 2024. Padiglione Albania –  60. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia

Cover: Iva Lulashi, Solidarietà femminile, 2024, olio su tela, 30x40cm, Courtesy the Artist, Photo Courtesy Andrea Rossetti.