Testo di Erica Rigato —
A Savona, in Liguria, si è appena concluso Connexxion, il Festival Diffuso di Arte Contemporanea, curato da Livia Savorelli e promosso dall’Associazione Culturale Arteam, con il Patrocinio del Comune di Savona, città candidata a Capitale italiana della cultura 2027.
“Credo fortemente in un’arte sociale, impegnata. Un’arte che possa essere specchio del suo tempo. Per questo ho scelto un titolo che incorporasse tre parole fondamentali in questo momento storico: libertà, identità e memoria”.
Mi risponde così, Livia Savorelli quando le chiedo cosa ha significato per lei dare vita a Connexxion, un festival diffuso di arte contemporanea, alla sua seconda edizione, che ha avuto luogo a Savona sin dallo scorso novembre e che si è articolato in due fasi, di cui la seconda si è appena conclusa in prossimità di una data importante come quella del 25 Aprile.
Attorno a un titolo tanto impegnativo quanto necessario soprattutto in una epoca come quella attuale, “…per essere liberi. Tra identità e memoria”, dodici artisti sono stati chiamati a lavorare sul concetto di libertà e hanno animato con installazioni site-specific e performance tre luoghi simbolici della città di Savona: Piazza Martiri della Libertà, la Fortezza del Priamàr, con il coinvolgimento di un’area esterna, e l’ex carcere Sant’Agostino, recuperato in un’ottica di rigenerazione urbana.
Il 25 aprile sono stata a Savona per visitare le mostre protagoniste di questo festival e ho avuto modo di rendermi conto di prima mano di quello che esso prometteva sulla carta, ovvero l’azione di emersione di elementi sempre ricercati ma faticosamente ottenuti da tutte le iniziative artistiche e culturali di carattere pubblico: lo stimolo alla partecipazione, il coinvolgimento del territorio, la (ri)scoperta prima e la valorizzazione poi di luoghi importanti ma dimenticati di ogni agglomerato urbano, e, sul piano più propriamente concettuale, l’accento sulla dimensione dell’impegno intellettuale degli artisti, la loro capacità di confronto con temi impellenti della società odierna, con una loro rielaborazione anche universale sul piano artistico, il purtroppo ancora controverso tema della presenza e del ruolo delle donne in essa, in particolare, in questo caso, durante la resistenza e, infine, l’argomento da qualche anno rimesso in discussione della monumentalità e della funzione dei monumenti.
Tutti gli artisti coinvolti in questa seconda edizione, attraverso le loro opere, hanno incorporato questi elementi, alcuni aiutati da una pratica artistica già molto vicina allo spirito del festival sia concettualmente che a livello di metodo; altri stimolati dalla ricerca di una qualche aderenza con delle proprie urgenze spirituali o comunque di carattere personale.
La dimensione partecipativa è centrale nella ricerca di Silvia Margaria, autrice di uno dei due special project, la quale, in risposta alla mia domanda su cosa metterebbe al posto dei puntini del titolo del festival, risponde “MEDITA”, perché, spiega, “(è) un imperativo rivolto al passante, a chi guarda, è un’esortazione tesa sempre avanti, è un investimento etico che invita all’approfondimento, che chiede attenzione circa la propria posizione nel mondo, attraverso l’esempio del passato.” “Bandite”, il titolo di questo progetto performativo, avuto luogo in Piazza Martiri della Libertà lo scorso 20 aprile, è dedicato ad alcune partigiane del savonese e alle suore “Maria Bambina” dell’ospedale Santa Corona di Pietra Ligure che sono testimonianza del ruolo fondamentale delle donne nella lotta di liberazione. Esso si compone di una serie di bandiere, una per ogni partigiana, create in modo da poter essere maneggiate da un gruppo di sbandieratori che mettono in atto una performance che, attraverso una coreografia studiata, le muovono e le “attivano”, innescando un processo di valorizzazione di storie nella STORIA. Su ciascuna di esse c’è una parola presa dai cippi commemorativi delle partigiane, come “CORAGGIO, o “LIBERTÀ”.
Il lavoro di riscoperta del ruolo delle donne durante la Resistenza, nell’opera di Silvia, oltre a trovare ampia accoglienza nell’ambito del festival, va di pari passo con una forte urgenza inclusiva e di stimolo al coinvolgimento e all’attenzione, come del resto Silvia stessa tiene a sottolineare: “La partecipazione non può darsi senza una dimensione sociale costituita da una rete di relazioni , e per questo, forse “Bandite” può essere intesa come un’opera partecipativa, ma preferirei descriverla come un’opera che ha trovato ispirazione e senso grazie al coinvolgimento attivo di persone appassionate”. “Questo progetto, “conclude “mi ha dato l’opportunità di lavorare su contenuti importanti e l’occasione per approfondire dinamiche di collaborazione”.
Partecipazione, coinvolgimento, stimolo alla reazione, sono elementi centrali anche nel progetto “ANNA, – MONUMENTO ALL’ATTENZIONE (promessa)”, presentato da Gianni Moretti e sito presso il cortile interno dell’ex Carcere Sant’Agostino della città savonese.
“Dal 2016 buona parte dei miei lavori sono andati nella direzione di un’arte partecipata. Da allora mi sono interrogato su quali possano essere le forme del monumento contemporaneo, a quali necessità debba rispondere, traducendole in soluzioni diverse di volta in volta. Mi sono chiesto che struttura debba avere il lavoro per essere in grado di accogliere il fruitore e la sua storia personale, facendo in modo che questa si intrecci con ciò che l’intervento racconta, disegnando direzioni inaspettate e vivide.”, mi spiega l’artista.
La sua opera è un intervento di arte ambientale partecipato, aperto e inclusivo, dedicato ad Anna Pardini, la più giovane vittima dell’eccidio nazifascista avvenuto a Sant’Anna di Stazzema il 12 agosto del 1944. Inaugurato il 25 aprile 2018, il progetto è tuttora in corso d’opera e si sviluppa lungo la mulattiera che da Sant’Anna conduce a Valdicastello Carducci. È un monumento che non si impone alla vista: va cercato, curato e riportato alla luce come la memoria stessa. Si compone di 26.919 elementi, a forma di cardo, ognuno dei quali simboleggia un giorno non vissuto della vita di Anna Pardini, dal momento della sua morte al giorno dell’inaugurazione del monumento. Con la promessa, gli elementi costitutivi sono appoggiati sul pavimento, dialogando con lo spazio circostante, disposti secondo dei cerchi concentrici che ricordano il movimento di un mandala. Chiunque potrà prendere uno degli elementi se lo vorrà, ma questa scelta implica una promessa: entro un anno dovrà andare a S. Anna per installare il cardo lungo la mulattiera per la quale è pensato.
A questo proposito, Gianni Moretti mi descrive così il legame che è riuscito a instaurare col contesto del carcere: “Anna – Monumento all’attenzione (promessa)” dialoga ogni volta in modo diverso con lo spazio ospitante. In questo caso, mi affascinava la possibilità di lavorare in uno spazio legato all’idea di libertà – una libertà parziale – con una durata precisa: l’ora d’aria. Di contro, il lavoro ha a che fare con la libertà di scelta legata a una promessa e che si può decidere se stipulare o meno, e con il peso che questa scelta comporta. Nelle varie occasioni in cui ho installato questo lavoro, mi sono reso conto di quanto questa promessa inizi ancora prima di raccogliere il cardo da terra; il tutto inizia dall’attesa e dalla riflessione sul prendere o meno questo impegno.”
La promessa di un impegno, elemento che permea e anima questo festival a ogni livello risultandone inevitabilmente un legante basilare, ci conduce a un altro artista coinvolto nel festival, che con la sua pratica scultorea lo mette al centro della sua ricerca, Davide Dormino.
Interpellato sulla sua arte, egli infatti mi spiega che secondo lui “gli artisti hanno un ruolo sociale determinante poiché, attraverso le loro pratiche, raccontano la società al mondo stesso” e, afferma, di non poter “esimersi, specialmente in questo momento storico, in cui l’atto di resistenza va attuato quotidianamente di (cercare) di raccontare la (sua) percezione del mondo attraverso un microscopio per poi restituire la (sua) visione all’esterno”.
Per Connexxion Davide Dormino è stato l’autore del secondo special project, sito nello spazio esterno della Fortezza del Priamàr, dal titolo “Semi” che è stato presentato il 25 aprile scorso e che ha preso spunto da una poesia del poeta greco Dinos Christianopulos in cui una frase recita “HANNO PROVATO A SEPPELLIRCI NON SAPEVANO CHE ERAVAMO SEMI”.
Davide ha immaginato un’opera in argilla cruda composta da 49 lettere alte circa 80 cm occupante uno spazio di 7 metri per 7 e che riproduce la frase stessa.
“SEMI” affronta diversi discorsi riguardanti la monumentalità, e la temporalità dell’opera stessa, diversa dalle altre dell’artista per via dell’orizzontalità e la breve durata di fruizione (essendo destinata a essere assorbita dal terreno). Ma proprio in questi elementi si declina l’intenzione dell’impegno di cui sopra.
Da un lato, come spiega Davide Dormino stesso “la sua temporaneità chiede di essere letta”, con un urgenza che implica il coinvolgimento del fruitore.
Dall’altro lato, si tratta di un’opera attraverso la quale l’artista è messo nelle condizioni di calare il suo impegno profondamente nel territorio e con la gente, poiché essa è stata realizzata in modo corale e partecipato visto che è stato aiutato da una classe dell’Istituto Artistico Arturo Martini, nei giorni precedenti il 25 aprile, in un laboratorio della durata di tre giornate in collaborazione con il Museo della Ceramica di Savona. Lo stimolo all’impegno passa in questo caso dall’artista alle persone coinvolte nella misura in cui, come ci dice Davide, “Ho chiesto loro uno sforzo fisico e mentale (…): modellare le lettere di una promessa per il futuro.”
Il tema del monumento ci lega alle due opere presentate da Alessio Barchitta e ambientate in due differenti luoghi all’interno dell’ex carcere Sant’Agostino.
Il primo intervento è “Noi andremo in paradiso perché all’inferno ci siamo già stati” sito nella cappella del carcere, in cui, prendendo spunto dalla presenza del guano dei piccioni che nel tempo si è depositato in questi luoghi, prende corpo una riflessione sulla monumentalità ma anche sulla realtà che distrugge il simbolo.
Il secondo porta il titolo di “Eterotopia” ed è ambientato in una delle celle e consiste in una grande tenda che circoscrive lo spazio e riporta una serie di stampe con immagini di cinque bunker del secondo conflitto mondiale, costruiti sulla costa, nel territorio di appartenenza dell’artista. All’interno, una distesa di prato sintetico, proveniente da uno dei due torrenti, porta con sé gli odori e l’erba tipica di quel territorio. Sopra il tappeto, un oggetto dall’aspetto comune: un pallone da calcio. I materiali ne negano la consueta funzionalità, lasciando al fruitore il desiderio di un gesto.
Quando chiedo in che modo ha legato queste sue opere al contesto del carcere, l’artista mi risponde “il legame è stato spontaneo, non ho dovuto cercare un modo affinché contenuto e contenitore si allineassero, ho subito capito che uno traeva forza dall’altro, che qui, meglio di qualsiasi altro spazio espositivo, questi due lavori trovano luogo.” E ancora a proposito di monumentalità: “nei due lavori in mostra sono stati presi in prestito dei simboli, che collocati qui e ora, diventano possibili monumenti, ma monumenti che dichiarano immediatamente il loro fallimento, perché al cospetto della realtà sono impotenti (…)”.
Chiosando sul discorso della funzione dell’arte se ce n’è una, Alessio mi spiega “l’arte è uguale, può essere decoro, monito, monumento, sta allo spettatore collocare l’oggetto nella dimensione che ritiene più opportuna. Il mio augurio è che l’opera e il luogo si siano incontrati per sfumare i propri confini ed evidenziare il possibile di entrambi”.
Se per molti degli artisti fin qui incontrati il coinvolgimento in questo festival ha significato porre un accento alla relazione con una dimensione esterna, per altri esso ha innescato un processo di creazione attraverso un’operazione di scavo nella storia personale e famigliare.
È il caso di Carla Iacono con il suo progetto “Educazione alla memoria” ambientato in una delle celle dell’ex carcere. Con questa opera Carla ha scoperto e ripercorso alcune vicende della storia della sua famiglia avvenute proprio durante il secondo conflitto mondiale. Il suo progetto include quattro installazioni, ciascuna legata alla narrazione, sommando il potere di immagini e scrittura per stimolare la riflessione. Come mi spiega l’artista “ho potuto dare un contributo concreto per custodire la memoria e scardinare l’indifferenza, recuperando elementi della mia storia personale.”
Il suo progetto infine, tocca anche temi legati alla funzione del carcere che, secondo Carla “ dovrebbe avere una funzione sociale positiva, svolgendo principalmente il compito di educare e riabilitare”.
Come si evince da queste testimonianze, Connexxion ha avuto il lodevole merito di essere stato incisivo sia sul piano del metodo – inclusivo e partecipativo – sia sul piano tematico, avendo toccato alcuni cruciali, nodali e controverse questioni attuali.
Esso si è caratterizzato sin dalla prima parte, di un’ampiezza di contenuti, di una ricchezza di programmazione tale per cui è quasi difficile parlarne in maniera esaustiva.
A fianco ai tre luoghi prima citati, Il festival ha presentato anche altre due mostre, una presso il Museo Sandro Pertini e Renata Cuneo, dal titolo “Dialoghi intorno alla libertà”, con opere di Elena Bellantoni, Davide Dormino, Rocco Rubini, Armida Gandini e Gianni Moretti; l’altra presso il Civico Museo Archeologico, dal titolo “Frammenti. Atti di conservazione per un futuro di libertà”, con opere di Roberto Ghezzi, Alberto Gianfreda, Laura Pugno, Attilio Tono e Ivano Troisi.
Con questi progetti, questi spazi sono stati letteralmente aperti e offerti alla città, dando valore alle loro collezioni anche attraverso un sapiente dialogo con opere di artisti contemporanei.
Per un progetto dalla forte valenza pubblica come quello di Connexxion risulta necessario concludere le riflessioni che lo riguardano ragionando sulla sua ricaduta sul territorio, sulla cosiddetta restituzione.
“Sin dalla prima edizione del festival, “mi risponde la curatrice Livia Savorelli interpellata sul tema, “dal titolo “Riconnettersi a partire dalla città”, che nasce proprio dalla volontà di dialogare col territorio e portare le persone ad avvicinarsi all’arte contemporanea, ho trovato un pubblico attento, curioso, desideroso di intraprendere una strada di conoscenza e comprensione.”. Queste caratteristiche”, conclude la curatrice, “sono state per me linfa per immaginare nuove prospettive con il coinvolgimento di spazi sconosciuti”.
Che questa nuova prospettiva sia profetica per una città che si avvia alla candidatura a diventare la prossima città della cultura italiana.
Glielo auguriamo.