La storia della collezione di Tony Salamè, imprenditore italo- libanese, ha inizio proprio in Italia, dove rimase colpito “dall’arte che invadeva piazze, chiese e palazzi”. Sempre in Italia iniziò ad acquistare opere di artisti ottocenteschi per poi concentrare il suo interesse sull’arte contemporanea americana. La collezione conta attualmente circa 3000 opere e la Aïshti Foundation, da lui creata insieme alla moglie Elham, è oggi una delle realtà più dinamiche del Medio Oriente, attiva nell’organizzazione di mostre, esposizioni personali e collaborazioni con numerosi musei del mondo.
La ricorrenza dei 25 anni dalla sua fondazione è stata l’occasione che ha portato alla nascita della mostra romana, Effetto Notte – Nuovo realismo americano, curata da Massimiliano Gioni e Flaminia Gennari Santori, che presenta circa 150 opere di artisti americani dagli anni ’80 ad oggi.
Il titolo prende spunto da una delle opere esposte, Day for Night (2018), di Lorna Simpson, ed è anche il nome di un trucco cinematografico che permette di girare di giorno scene notturne, effetto notte appunto. In francese si traduce con La Nuit Amèricaine, la notte americana, ed esprime bene quella vena crepuscolare che traspare dalle opere selezionate e riflette la complessa realtà degli Stati Uniti negli ultimi anni.
Spiega Massimiliano Gioni, “… la cultura americana è stata contraddistinta da una progressiva erosione del concetto di verità, è questo che indagano tanti artisti contemporanei…”, in un’epoca, la nostra, in cui la linea tra realtà e finzione è sempre più complessa e la verità è sempre più difficile da trovare.
Ne emerge una ricerca artistica che sceglie la pittura come mezzo prevalente per affrontare alcuni temi simbolo della società americana, tra critica sociale e desiderio di fuga.
La mostra trova spazio all’interno di Palazzo Barberini, capolavoro dell’architettura barocca e oggi sede di una delle più importanti collezioni di pittura del ‘600. Apparentemente potrebbe sembrare un luogo molto distante dall’arte contemporanea, ma è proprio nella rappresentazione della realtà, punto cardine della ricerca seicentesca e tema comune degli artisti in mostra, che questa scelta trova la sua ragione d’essere, creando un interessante dialogo.
Nella prima sala al piano terra ci accolgono due grandi tele di Nicole Eisenman, Dark Light (2017), in cui un uomo fa luce nel buio con una torcia, forse una metafora di questa ricerca di verità, e Shooter 1 (2016), una mano che impugna un’arma, un’immagine netta e fredda che inquieta e riporta subito alla mente uno dei temi più dibattuti in questi anni.
Significativa è la presenza di numerose artiste, nelle cui opere è ricorrente il tema del corpo, da quelli grotteschi e contorti di Louise Bonnet, agli autoritratti nudi di Joan Semmel che scardinano tutti gli stereotipi, Christina Quarles provoca con i suoi corpi ambigui, accanto a quelli avvolti in vortici di colore di Cecily Brown. Ma la realtà è anche costituita dai paesaggi interiori di Shara Hughes (2019-2020) e dagli uragani di Nate Lowman (Irma – 2022). Il dibattito sulle tensioni razziali viene affrontato con toni diversi, dal trittico di Henry Taylor già esposto alla Biennale del 2019, all’Incredibile Hulk nero di Arthur Jafa (LeRage – 2017). Mentre Raymond Pettibon, coni suoi disegni a penna, trae ispirazione dai fumetti, dalle tradizioni sportive e dalla storia, commentando così la cultura americana.
Salendo al primo piano, la potente architettura di Palazzo Barberini si fonde con le opere contemporanee grazie a collocazioni estremamente suggestive. L’Arcangelo (2018) di Charles Ray sembra fluttuare nella Sala Ovale, progettata dal Bernini, ma la realtà spesso non è quello che sembra e la grande scultura, che a prima vista sembra essere di marmo, in realtà è di vetroresina e non è un angelo, bensì un surfista in ciabatte e pantaloni rivoltati. Nell’Atrio Borromini, la scultura Horse/bed (2013) di Urs Fischer rivisita il monumento equestre in una fusione tra animale e lettiga con le ruote, in una unione di contrasti. Nell’adiacente Sala dei Marmi, 61 opere, molti dei quali ritratti, richiamano alla mente le antiche quadrerie in un parallelo molto efficace tra collezionismo antico e contemporaneo, con la scultura iperrealista di Duane Hanson (Man on Mower – 1995) che sembra venirci incontro per riportarci ad una realtà stereotipata e un po’ comica. La scala elicoidale del Borromini ci conduce nell’Appartamento Settecentesco, ultima parte della mostra e di colpo ci immergiamo in un’atmosfera rococò, in cui le opere dialogano con un po’ più di fatica con le sale, la ridondanza delle decorazioni tende a distogliere l’attenzione e ad offuscare le opere esposte.
Colpiscono però alcuni “inserimenti” estremamente riusciti, come la scultura orante in ceramica di Woody De Othello (2022) nella Cappella, la tela di Jacqueline Humphries(2011) perfettamente integrata nell’alcova, i ritratti in maschera di Cindy Sherman (2016)nella Sala delle Marine per terminare nella Galleria Affrescata con l’intervento di Rayyane Tabet, artista di origine libanese, che oscura le finestre con pellicole blu, le stesse usate in Libano durante il coprifuoco (Six Nights – 2023).
La mostra è dunque un’occasione per conoscere da vicino gli sviluppi più recenti dell’arte negli Stati Uniti, un percorso non sempre di immediata comprensione, complesso nella sua ambientazione ma interessante e variegato, aperto al pubblico fino al 14 luglio 2024.