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Collezione Fies | Intervista con Denis Isaia

E’ in  corso, fino al 17 febbraio 2023, Collezione Fies, la prima collezione privata di opere mutuate dalla scena performativa  a cura di Denis Isaia. Ospitata alla Centrale Fies (Dro,Tn), la mostra presenta una selezione proveniente dalla prima raccolta italiana di opere frutto delle arti performative della Collezione. La collezione ad oggi è composta da […]

Giovanni Morbin – L’angolo del saluto – Collezione Fies

E’ in  corso, fino al 17 febbraio 2023, Collezione Fies, la prima collezione privata di opere mutuate dalla scena performativa  a cura di Denis Isaia. Ospitata alla Centrale Fies (Dro,Tn), la mostra presenta una selezione proveniente dalla prima raccolta italiana di opere frutto delle arti performative della Collezione. La collezione ad oggi è composta da sole 26 opere, patrimonio tanto piccolo quanto prezioso, opere donate da artiste e artisti nel corso degli anni al centro di ricerca per le pratiche performative contemporanee.
La mostra nasce da un’idea del curatore Denis Isaia, per valorizzare la collezione attraverso una serie di progetti espositivi che, di volta in volta, toccheranno temi e immaginari differenti. 

Il progetto originario di Collezione Fies, invece, ha origine nel 2014, da un’idea della co-founder di Centrale Fies Barbara Boninsegna in dialogo con l’artista visiva pluripremiata Francesca Grilli e la curatrice Alessandra Saviotti.
Barbara Boninsegna: “Le domande che ci siamo poste in questi anni attraverso alcune riflessioni su Collezione Fies, hanno sempre avuto un carattere dinamico che non tradisse l’azione transitoria della performance. Il tentativo non è mai stato quello di “documentare” la natura effimera della performance in modo differente, ma chiedersi come poterla riattivare a partire dalle sue impronte, trasformandola in altro.” 

In questa prima mostra sono ospitate le opere di Darius Dolatyari-Dolatdoust, Anagoor, Curt Steckel, Santiago Sierra, Giovanni Morbin, Riccardo Giacconi, Francesca Grilli, Filippo Minelli, Mara Oscar Cassiani e Simon Asencio.

Segue l’intervista con Denis Isaia —

Elena Boridignon:  Curi la prima collezione privata di opere mutuate dalla scena performativa di Centrale Fies. Partiamo dalle opere selezionate che compongono la collezione. Non sono delle vere e proprie opere, ma bensì dei ‘congegni attivatori’. Mi racconti il loro ‘funzionamento’? O la loro genesi?

DI: La Collezione nasce in seno all’esperienza di Live Works e in perfetta sintonia con le modalità di fare cultura di Centrale Fies è frutto di un dialogo avviato con gli artisti. Live Works, nasce nel 2012 come premio di produzione rivolto ai performer di tutto il mondo. Allora come oggi il premio prevede una residenza durante la quale gli artisti possono sviluppare il proprio progetto. La collezione nasce a partire dal 2014 in un contesto di forte confronto creativo. Allora con Barbara Boninsegna, Simone Frangi, Daniel Blaga Gubbay ci siamo chiesti cosa potesse rimanere di una performance. Tipicamente conosciamo le performance storiche, quelle degli anni ‘60 e poi ‘70, attraverso la documentazione fotografica o audiovisiva. Nel frattempo però abbiamo imparato a conoscere in maniera controintuiva il dato non oggettivo della fotografia. La questione è particolarmente evidente in alcune performance degli anni ‘90 che sono a volte spesso compresse come la necessità da parte dell’artista non solo di documentare la propria azione, ma anche di farne un oggetto con una spiccata corrispondenza estetica. La messa a fuoco di questa variazione nell’attività produttiva che riguarda la performance rileva già la volontà da parte degli artisti di lasciare una testimonianza dell’evento effimero – la performance – che superi la memoria degli sguardi che ne hanno goduto e possa materializzarsi come oggetto. Messa a fuoco quindi questa rinnovata esigenza siamo stati tra i primi a chiederci criticamente cosa una performance dovesse lasciare sottoponendo la domanda agli artisti. Ad alcuni non abbiamo neanche posto la domanda, poiché il loro progetto non poteva comprendere un lascito materiale diverso dalla tipica documentazione fotografiica, altri hanno invece risposto dando vita a degli oggetti o dei protocolli che rimandano o riattivano la peformance orginaria. Di più, alcune opere nascono già come oggetti-performance. Mi viene in mente a questo proposito l’opera di David Bernstein. Si tratta di un oggetto custodito nelle tasche di qualcuno scelto dall’organizzazione il quale lo mostra sotto richiesta del visitatore a sua volta informato dell’esistenza di questo oggetto, e del suo custode, da una nota appesa a parete. In questa tornata non l’abbiamo esposta, ma è un chiaro caso di perfetta interazione tra la performance e l’oggetto.

Tornando alla mostra e considerando la varietà di modalità con cui gli artisti hanno risposto alla nostra domande su cosa resti di attivo di una performance possiamo dire che oggi la Collezione è il tentativo di raccontare la storia di Centrale Fies attraverso le opere d’arte. Esiste anche un Archivio Centrale Fies, ma l’idea di poter costruire una narrazione non lineare basandosi sulle opere e non sui documenti è molto affasciante e verrebbe voglia di avere a che fare solo con quel tipo di racconto. 

Abbeveratoio, Santiago Sierra – Collezione Fies

EB: Il progetto legato alla collezione prevede delle mostre tematiche che toccheranno temi e immaginari differenti. Ce ne parli più nel dettaglio?  

DI: I temi sono quelli che appartengono alle scelte culturali di Centrale Fies. In questo caso abbiamo voluto evidenziare la questione politica, mostrando in apertura della mostra un’opera di Santiago Sierra opposta a un’opera di Giovanni Morbin. Sono due artisti politici nella misura in cui si sono occupati dell’influenza dei simboli e dei gesti sull’identità collettiva. Nel caso di Sierra l’opera è riferita alla svastica, un antico simbolo delle civiltà sfregiato dal nazismo che l’artista recupera approfittando della sovraccarica simbolica che ancora appartiene a quella geometria. Anche Morbin si è occupato di totalitarismi solidificando idealmente lo spostamento d’aria provocato dal braccio che steso lungo il corpo si alza verso il cielo nel saluto romano. Quello che vediamo in mostra è un mobile triangolare dalle linee secche e pulite il cui lato più acuto è una grande e affilattissima lama di acciaio. L’opera rappresenta l’aggressività del gesto e la sua pericolosità materiale e per nulla simbolica. Sul crinale della violenza opera anche il disco LP di Francesca Grilli prodotto con le ceneri di alcuni spartiti bruciati durante la performance che prevedeva alcuni musicisti impegnati a interpretare una serie di brani musicali oggetto di censura. Dalle questioni collettive il percorso scivola verso la centralità dell’individuo e del soggetto che è proprio della società anti collettivista e difficoltosamente comunitaria dei nostri giorni. Metà della mostra è infatti occupata da una grande installazione di Mara Oscar Cassiani dedicata a una parodia della cura dell’io. L’ambiente della Cassiani sta tra una tipica sauna nordica e un memoriale. A essere celebrato è il corpo-monade, luogo della massima proiezione dell’io e della scoperta della pace del soggetto estraneo agli umori del mondo.   

EB: Può capitare che per determinate performance degli artisti – penso a Santiago Sierra, Riccardo Giacconi o Francesca Grilli, solo per citarne alcune – ma anche dei collettivi come gli Anagoor, producano degli oggetti puramente funzionali a delle determinate azioni o per creare delle atmosfere, delle situazioni. Come devono essere considerati e interpretati questi ‘resti’? Ce ne sono in Collezione?

DI: Sì, più di uno. Anche in mostra. Sono degli oggetti che hanno acquisito una vita propria, alcuni non ne hanno mai avuta una diversa! Magari erano originariamente parte di un corpus espressivo più articolato, poiché erano inseriti in un evento, ma anche esposti da soli non hanno smarrito nulla della loro forza. La maionetta di Riccardo Giacconi che tu citi, così come l’Apollo degli Anagoor sono due “performer” tra i più strardinari della mostra. Adeguadamente messi in moto all’interno del contesto espositivo smuovono le anime tanto quanto un evento.

A questo proposito la mostra ci ha permesso di ragionare su una definizione che mi pare sia calzante. Spesso quando parliamo di performance usiamo il termine “azione” per descrivere un gesto o una coerografia di gesti, movimenti o stasi. Il termine azione è però troppo asciutto. Certo risponde alla necessità di alcuni artisti di non essere barocchi, vanamente spettacolari e decorativi, di andare ovvero al dunque contenutistico evitando ogni fronzolo. Alla militanza di alcuni artisti non poteva che corrispondere una dimensione molto militare anche dell’oggetto o dei gesti che compongono una performance. Eppure nessuno oggetto in mostra è un’azione. Nessuno ha quel tipo di sapore. Così come nessun oggetto può essere definito un evento. Sarebbe una contraddizione in termini d’altro canto. Al più gli oggetti in mostra definiscono un evento, che è la mostra stessa. Eppure sono oggetti che non sono semplicemente appesi alle pareti per essere oggetto di contemplazione. Io credo che siano delle apparizioni. La sensazione in mostra è che ci siano dei fantasmi. Che le opere non si limitino al proprio immutevole destino immateriale che pure appartiene loro, ma che custodiscano al loro interno un’anima.
Nel caso di Giacconi e Anagoor quanto dico è tangibile. La marionetta di Giacconi sbatte drammaticamente la testa sul pavimento o alza una manina o una gambetta. A vederla viene da piangere soprattutto sapendo che intepreta lo stato di mezza-veglia di un omicida che ha ammazzato chi lo costringeva con la forza. Nei movimenti a singhiozzo che inchidano lo sguardo del visitatore ritroviamo la contraddizione di un atto giusto eppure ingiusto. Follemente crudele e quindi ingiustificabile eppure necessario. Con Giacconi la possibiltà di sfiorare l’anima della maionetta è a portata di sguardo, ma anche quando la questione si fa più sottile e indiretta è presente. Potremmo quindi dire che questa è una mostra fatta con i fantasmi che animano gli oggetti e muovono le coscienze degli artisti.

EB:  In questa prima mostra che opere avete scelto? Qual è il tema conduttore?

DI: Oltre agli artisti già citati vanno almeno nominati Filippo Minelli, Simon Asencio, Curt Steckel, Darius Dolayari. Minelli e Steckel rappresentano le cosiddette unseen performance. Ovvero, a proposito di apparizioni attraverso gli oggetti, quelle performance che prevedevano che il pubblico ne fruisse solo quando l’artista aveva appena concluso l’azione. Nel caso di Steckel lui aveva chiesto delle assi in legno una sega e qualche vite. Ha tagliato e quindi assemblato per un giorno intero lasciando che i visitatori vedessero l’opera solo quando era completata e quindi diciamo così se non morta abbandonata, ma l’ambiente era carico degli odori prodotti dall’azione, il sudore dell’artista o il profumo della legna tagliata da poco. 

Le opere selezionate sono visioni dalla storia di Centrale Fies, il tema conduttore è dare voce alla performance e alle sue relazioni con gli oggetti materiali che ne conseguono o ne sono complice testimonianza. 

Grow, Anna Perach – Collezione Fies
Storia Notturna – exhibition