E’ un continuo uscire ed entrare dal quadro. Rimandi, riproduzioni, cambi di scala, tracce abbozzate o elementi dettagliatissimi. La pittura di Pietro Roccasalva è enigmatica non per la misteriosità dei soggetti – per lo più quotidiani, conosciuti e usurati dall’abitudine – ma per il loro incessante ritorno. Allora guardando i suoi quadri, andando un po’ a memoria, siamo indotti a cercare l’origine, la matrice del primo volto, del primo spremiagrumi, del gallo, dell’ascensorista… Roccasalva ha disseminato, nella sua produzione pittorica, un’infinità di trabocchetti o rebus visivi: che si voglia prendere gioco di noi? Alla fine ci viene il sospetto che l’inganno, sicuramente non malevolo, sia per lo meno ridanciano, il fine è ingarbugliarci in un trama o gioco dove la pittura, nella sua esecuzione magistrale, sembra metterci alla prova.
E in effetti, uscendo dalla bellissima mostra ospitata fino al 18 dicembre 22 alla Collezione Giancarlo e Danna Olgiati di Lugano (parte del circuito MASILugano), non si può che essere provati, ma non nel senso di esser stanchi, bensì di essere messi alla prova. Già dal titolo Chi è che ride, entriamo nella palestra concettuale dell’artista: il titolo della mostra diventa un’opera formata dalla scritta al neon dove il ‘Chi’ maiuscolo iniziale, si sovrappone ad un ‘chi’ minuscolo. Ecco che la frase si ingarbuglia diventando un gioco linguistico circolare che si legge: Chi è che ride chi. Come dire chi sta ridendo di qualcuno.
Spesso, sospendere la ricerca del ‘senso’ è l’attitudine migliore per capirne un significato più profondo. Così come dobbiamo sospendere la curiosità di ricercare il tableaux vivant Just Married Machine #1 del 2012 per cercare di capirne le tracce nelle opere della prima stanza in mostra popolata, come un gioco di specchi, di continui rimandi che, a volte, sembrano diventare delle ossessioni. Sembra infatti che l’artista incappi in dei soggetti che entrano nel suo immaginario per uscirne trasformarti in molteplici variazioni. Per il tableaux vivant Roccasalva aveva costruito un paesaggio in cui una coppia di sposi si fondeva con la tavola imbandita che si vede nelle prime sequenza di La Ricotta di Pier Paolo Pasolini. Nella pellicola del ’63, il cestino di vimini e la tovaglia diventano, nell’opera di Roccasalva, la cesta e il pallone afflosciato di una mongolfiera, un vassoio in una barca. Come fosse stata sottoposta ad una deflagrazione, questa immagine è stata setacciata dall’artista, dando vita ad una lunga serie di dipinti di cui in mostra ne vediamo una ottima selezione, partendo dalla serie Rear Window (2016): studi su carta nascosti tra le pagine di una serie di moleskine incorniciate ed esposte aperte di cui si vede solo la copertina.
Anche nella serie in mostra The Argon Weldwen – opere che sono state le protagoniste di una mostra alla X Zeno Gallery di Anversa nel 2020, dove erano esposte 14 versione dello stesso tema – vediamo con insistenza, una sorta di ‘variazione’ sul tema, delle reiterazione dello stesso motivo che ricordano le diverse stazioni di trasformazione del soggetto, interpretato attraverso il genere della natura morta. Da semplice soggetto, una michetta – tra le tipologie di pane più diffuse in Italia – diventa un motivo iconografico che sconfina dall’essere una natura morta verso il genere del ritratto.
Spiega Flavia Frigeri (curatrice alla National Gallery di Londra): “ I quadri con la michetta sono nati in un momento in cui l’artista aveva bisogno di qualcosa che fosse un oggetto a se stante, che potesse essere usato come base di partenza. Un motivo che, come ‘la sposa’, ‘il marito’, ritorna continuamente. I riferimenti posso essere molteplici, su tutti le ’michette’ di Manzoni immerse nel caolino. In questa serie di quadri, il soggetto appare sospeso, isolato in un teatro più grande. Penso alla michetta un po’ come la sposa con la racchetta, sono come dei fermo-immagine che, riprodotti più e più volte, si trasformano, mutano lentamente.”
Non proprio delle illuminazioni momentanee, dunque, ma rivelazioni della natura interiore e segreta di una situazione o di un luogo che abbiano continuità nel tempo e nello spazio. Cita James Joyce Pietro Roccasalva davanti alla serie The Argon Weldwen. “Joyce chiamava le opere d’arte ‘epicleti’. Attingendo dalla religione cristiana, lo scrittore parla di momento epiclettico dell’arte. L’epiclesi è il momento in cui il prete invoca lo Spirito Santo perchè attivi la trasformazione del corpo di Cristo nel pane e nel vino. Dunque diventa simbolo della creazione in generale. (…) Dunque la capacità dell’arte di trasformare la materia e farla diventare altro”.
In tutte le sue opere si evince questa capacità dell’arte di trasformare la realtà rappresentata in qualcosa d’altro. Un volto diventa un’icona, una corpo diventa un ammasso di segno, degli elementi quotidiani che possono essere del pane, della frutta o degli oggetti come una racchetta o una bottiglia, diventano portatori di simbologie e significati a volte imperscrutabili.
Ecco allora che parlando delle nature morte, un genere consolidato nella storia dell’arte da sempre, mediante la tecnica pittorica – e la sensibilità – di Roccasalva, diventano dei ritratti; ma potrebbero diventare anche dei paesaggi, dalle atmosfere surrealiste come la serie dei dipinti degli atelier, dove l’artista riproduce dei pittori che a loro volta riproducono un soggetto. Come non ricordare le ‘macchine’ pittoriche di un Velasquez o, ancora più indietro dei pittori manieristi. Ma anziché scivolare in una deriva (gratuitamente) surreale, Roccasalva gioca la carta della citazione. In vent’anni di lavoro e ricerca è riuscito a costruire un ampio archivio iconografico che, aggiungendo sempre nuovi elementi, ha creato un ‘teatro dell’immaginario’ fortemente originale e intrigante.
In mostra abbiamo un ampio spettro della sua iconografia: dal gallo vestito come le guardie svizzere, alla racchetta intelaiata come la Piazza del Campidiglio, le michette, l’arancino, lo spremiagrumi; i tanti volti (in mostra un magistrale The Good Woman del 1998, che ricorda fortemente i volti di De Dominicis), i camerieri, l’ascensorista, la sposa, il trovatore.
Molto presente come nodo iconografico lo spremiagrumi che ritroviamo nella serie Untitled (Giocondità) dove l’artista riprende un video fatto nel 2002 durante la residenza d’artista nella Chiesta sconsacrata di San Francesco a Como. Il video consisteva in una carrellata aerea che percorre la chiesa realizzata digitalmente. Mentre la telecamera scorre a volo d’uccello la costruzione, il tempo scorre e il sole inizia a tramontare: le immagini da molto chiare diventano piano piano più scure, creando delle lunghe ombre attorno alla basilica. I dipinti esposti mostrano dei fotogrammi di questa imponente costruzione, sormontata da una grande cupola-spremiagrumi.
Balla, Boccioni, Carrà, Russolo, Depero sono i protagonista di una serie di opere dedicate al Futurismo. Anziché seguire l’irrequietezza dei dipinti dei pittori futuristi, Roccasalva li traduce simbolicamente mediate una unica campitura per quadro. Ogni dipinto, come suggerisce il titolo – Imprimitura – è un’imprimitura e dei d’après. Il d’après (in italiano “tratto da”) è la versione rielaborata del lavoro di un altro artista, mentre l’imprimitura è la tecnica storicamente utilizzata per la preparazione del supporto pittorico. Il colore di ogni tela è realizzato mescolando i pigmenti dei dipinti originali fino all’ottenimento di un unico colore. Tutte prive di cornice, le tele lasciano in vista i loro bordi e i chiodi speciali, in oro massiccio, che le fissano al telaio. Cosa simboleggiano questi chiodi d’oro?
Roccasalva immagina i futuristi – per l’artista emblema dell’Antropocene – nel loro slancio verso il progresso fondersi come degli Icaro per essersi avvicinati troppo al sole.
Domina la mostra, sia per dimensioni che per intensità, The Skeleton Key II, un pastello di grandi dimensioni che riproduce il viso di un ascensorista, sorpreso nell’atto di subire una raccapricciante metamorfosi. Al di là degli ovvi riferimenti ai grandi maestri del passato, così come alle tante citazioni che l’artista disseminati nei suoi dipinti – non ultime le auto-citazioni – la grandezza della sua opera si trova sopratutto nella magnifica padronanza tecnica che supera – o dilania, a mio parere – la stessa bramosia di citare a destra e a manca. Che ci sia il riferimento al disegno di Michelangelo per la Piazza del Campoglio o le michette di Manzoni, che si ammicchi a De Dominicis o a Francis Bacon, che si spolveri Pasolini o Tarkovskij, Murnau o de Chirico… Sono tutti semi-pretesti per irrorare l’opera di contenuti che, a ben guardare, spesso non necessita.
Mi verrebbe da fare una metafora calcistica e utilizzare il “fallo di confusione”. Suggerito da un artista – sicuramente più avvezzo di me al gioco del calcio – il fallo di confusione è un’usanza tipica dell’Italietta pallonara. Il sistema, perfido ma notevolmente efficace, è un meccanismo semplice e matematico: maggiore è la densità di calciatori in una zona di pochi metri quadrati, più alta è la probabilità di contatto tra loro. E maggiore è la legittimità con cui l’ arbitro può difendere una decisione presa in modo pur discutibile.
Fuor di metafora, Roccasalva addensa, intreccia, somma eterni ritorni – veri e filosofici – per dare densità a delle opere pittoriche che, per tecnica magistrale, basterebbero semplicemente a se stesse.
“Per me non è un lavoro, è un lavorio. Assieme al fare c’è anche il disfare. Assieme al costruire c’è senza dubbio l’azione del distruggere, altrimenti non ci sarebbero i continui scivolamenti che si rintracciano nel mio lavoro. Nell’introdurre la mostra, alla parola ‘fare’ dovevamo sostituite la parola ‘disfare’.”
In merito al titolo, Roccasalva racconta: “chi è che ride chi”, è tratto da una vecchia edizione italiana de “Il Bafometto” di Pierre Klossowski. Questa espressione, onomatopea del canto del gallo, è un malinteso che come un “ritornello” mi accompagna da più di 20 anni. Volendo potrebbe suonare come uno scioglilingua da utilizzare per calmarsi, una forma circolare che continuamente ritorna. La cosa più importante di questa scritta è il suo essere un malinteso. Nel libro originale, qualcuno diceva questa frase e qualcun’altro capiva che fosse il canto del gallo. Quello che ti invita a fare il titolo della mostra è il disfare, è il malinteso. Diventa il canto del gallo perchè c’è un malinteso… Il malinteso va cavalcato perchè nella realtà viviamo costantemente dei fraintendimenti. La prima idea è stata quella di mettere un’insegna nel mio studio e questa, visto che mi ritorna in mente da vent’anni era perfetta. Senza contare che è un titolo formato da 14 lettere: in futuro potrebbe diventare una via crucis… ”