ATP DIARY

Centrale Fies | KAS: Simon Asencio – Giulia Damiani – Vanja Smiljanić

English text below KAS è una mostra collettiva di natura performativa che costituisce il terzo episodio della “Trilogia anti-moderna”, un ciclo di mostre a cura Simone Frangi e Barbara Boninsegna, che Centrale Fies dedica da alcuni anni al rapporto tra gli oggetti e le loro attivazioni, rivalutando forme di conoscenze affettive, somatiche, visive censurate o […]

Reading at random, Turning The Page of Singing Out of Doors, 2021 (c )Chloe Chignell

English text below

KAS è una mostra collettiva di natura performativa che costituisce il terzo episodio della “Trilogia anti-moderna”, un ciclo di mostre a cura Simone Frangi e Barbara Boninsegna, che Centrale Fies dedica da alcuni anni al rapporto tra gli oggetti e le loro attivazioni, rivalutando forme di conoscenze affettive, somatiche, visive censurate o soppresse dalla modernità sessuo-coloniale occidentale. Dopo la mostra collettiva “Storia Notturna” (2020) dedicata all’esplorazione delle pratiche di stregoneria performativa e la bipersonale di Josefa Ntjam e Joar Nango (2021) impegnata nella decostruzione del concetto eurocentrico di genealogia e delle versioni orientaleggianti e depoliticizzate dell’idea di indigeneità, KAS riflette insieme a un gruppo di artisti internazionali sulla funzione dei topoi mitologici e della fabbricazione collettiva di immagini di “urbanità primordiale” nei processi di fondazione delle “comunità immaginate”.

Come le altre due mostre della trilogia, KAS ha avuto una durata “statica” di due mesi ed è stata attivata con un ciclo di performance in occasione di Live Works Summit 2022 (1/2/3 luglio). La performance The Song of the Beggar: Villion’s Good Night, The Vain Dreamer di Simon Asencio rende omaggio ai canti anonimi raccolti nell’antologia Musa Pedestris di John S. Farmer. Il titolo di Farmer prende in prestito il nome dalla musa errante, la cui poesia è quella della prosa e del linguaggio comune, suggerendo che lo slang, il canto e le fraseologie vernacolari sono le radici della forma poetica. Utilizzando il respiro, il movimento e la parola, la performance attiva una serie di strumenti a fiato in ceramica, come una prova per un canto a venire. Giulia Damiani – scrittrice, ricercatrice, curatrice e dramaturg con sede a Londra e Amsterdam – nella sua performance Cerca, tramuta, traduci. Pronuncia corpo e roccia si collega al lavoro artistico e politico del gruppo femminista Le Nemesiache. Traccia linee che sono connessioni tra momenti, frammenti di geografie vulcaniche che diventano percorsi destabilizzanti per l’affermazione di soggettività e paesaggi esplosivi. Sono linee e frasi che si spezzano, si accumulano e si interrompono per ricominciare in una dimensione inaspettata attraverso il linguaggio e il movimento. Labyrinth riders in disremembering Atlantis di Vanja Smiljanic ci mette sulle tracce di Atlantide: nel 9600 a.C. Atlantide fu distrutta. Solo pochi sopravvissero. Seguendo tre ex abitanti di Atlantide che da allora hanno indugiato tra le dimensioni, la performance di Smiljanic mostra il loro processo di integrazione nell’Adesso. Ogni singola pratica e il percorso che ha portato ad essa viene raccontata attraverso le parole delle artiste e dell’artista in forma di diario.

Simon Asencio

Mi avvicino al testo come a un mezzo intrinsecamente incarnato: le parole di una lingua legano la bocca all’orecchio, la mano all’occhio, il momento della scrittura a quello della lettura, l’atto del parlare a quello dell’ascoltare, e le soggettività dei personaggi a quelle degli scrittori e dei lettori. In altre parole, il testo ha implicazioni corporee, relazionali e materiali. Uso la performance come strumento per indagare queste implicazioni con il pubblico. La mia ricerca si concentra su forme di solito escluse dalla poesia e dalla letteratura – dicerie, slang, indovinelli, lingue sacre e segrete, testi e vernacoli – per indagare la posizione dell’anonimato, dell’opacità e dell’invisibilità nel e attraverso il testo, al fine di raggiungere una pratica più distribuita di scrittura e lettura dei mondi. 

Durante la ricerca di precedenti letterari e poetici che potessero offrire alternative alla figura dell’autore, all’onniscienza narrativa dello scrittore e alla voce interna del singolo lettore, mi sono imbattuto in molteplici citazioni di un saggio sconosciuto di Virginia Woolf, intitolato Anon. 

Anon è un poema in prosa che racconta la storia millenaria di un protagonista Anon (o “Anonimo”, il nome di Anon). Anon, a volte donna, a volte uomo, è un cantante anonimo che parlava a un pubblico altrettanto anonimo. Attraverso una narrazione soggettiva, popolata da personaggi mitici, scrittori, drammaturghi e figure storiche, Virginia Woolf racconta ciò che è accaduto prima dell’apparizione dell’autore e del singolo lettore. L’autrice afferma l’importanza delle culture vernacolari e delle pratiche collettive nello sviluppo di una tradizione poetica, letteraria e teatrale in Inghilterra prima che la stampa attraversasse la Manica.  

Il testo di Virginia Woolf è formato da innumerevoli citazioni e riformulazioni di altri autori accuratamente cucite nella scrittura, rendendo il suo saggio una riflessione sulla scrittura. Anon articola una connessione tra i sentieri della terra e i percorsi della mente. Ci permette di vedere la letteratura come geologia: un palinsesto, una sedimentazione di tratti di penna da parte di molteplici scritture che cercano di catturare il parlato, il vivente, i miti e i loro luoghi.  “Camminare” attraverso il saggio diventa un invito a “leggere” un’altra storia della cultura inglese prima dell’Impero, prima dell’affermazione del soggetto autonomo individuale. 

Attraverso la ricerca d’archivio dei manoscritti e dei taccuini inediti di Virginia Woolf e lo studio filologico dei suoi scritti e delle sue letture, il processo è stato vissuto come una forma di scavo: scavare tra gli strati di testo e trovare connessioni più profonde con autori lontani (Ursula K. Le Guin, Samuel R. Delany, Octavia Butler, Alina Popa…). La consultazione dei documenti di partenza mi ha anche permesso di confrontarmi con i molteplici tentativi e stesure di uno scrittore: le false partenze, i dubbi, gli elementi omessi, rimossi, emarginati dall’autore. Questo mi ha portato a prestare attenzione a tutto ciò che di solito non fa parte del ‘testo’ e a interrogarmi su quali possano essere i margini di un processo di ‘scrittura’, su cosa possa deviare la linearità della ‘scrittura’; e ad applicarli al mio modo di fare ricerca. 

Il saggio anonimo è un’opportunità per confrontarsi con una forma aperta: un testo incompiuto che non ha necessariamente bisogno di essere terminato, ma che piuttosto invita a essere ulteriormente dispiegato per creare nuove connessioni – forse a rischio di negare la sua autonomia, la sua unità, a favore di un’esistenza più intricata. Come proseguire la ricerca da questo punto di vista? Ciò potrebbe implicare un ripensamento delle forme e dei modi di mediare le forme, e mettere in discussione l’autorità delle forme e la loro autorialità. Una strada forse è quella di pensare a forme fragili e morbide, che sono generative piuttosto che generate, che producono complici piuttosto che testimoni.  

In un certo senso, la nozione di attivazione potrebbe essere estesa all’intera ricerca: quando il desiderio di dare un senso (sia logico che sensuale) coesiste con l’esperienza di essere fondamentalmente cambiati da ciò che facciamo. Attivare questo testo, stimolare il contatto con questo testo mi ha portato a ideare opere e situazioni per condividere la ricerca e continuare a ricercare con gli altri. Una partitura per letture comuni, strumenti a fiato in ceramica come “ausili” per raggiungere di nuovo una canzone, abiti per invocare i personaggi e i miti della storia, o anche questo testo attuale…

Reading at random, Turning The Page of Singing Out of Doors, 2021 – Cillian O_Neill

Giulia Damiani

In questa fase del mio lavoro penso all’attivazione di materiali preesistenti come a un processo di ricerca di connessioni instabili. Creare uno spazio in cui immagino che la performance e i materiali riescano a “cantare una canzone l’uno con l’altro”. Il testo e la performance che presento nello spazio della mostra KAS hanno come sottotitolo “If I Draw a Line to You”. L’intenzione del pezzo è quella di collegarsi al lavoro politico e artistico del gruppo femminista Le Nemesiache di Napoli, presentato nello spazio, attingendo a un potenziale femminista filtrato attraverso il “qui”: il momento presente, le esperienze ulteriori e le risonanze affettive. È una connessione che avviene sia ricordando alcuni elementi del loro lavoro sia incanalando la loro presenza increspata oggi; è anche una connessione che si dispiega attraverso linee tracciate nel paesaggio (a partire da Napoli) e sui corpi, innescate dal desiderio di immaginare dimensioni inaspettate oggi e di sperimentare il linguaggio. Dal 2013 lavoro con i materiali visivi e i documenti prodotti da Le Nemesiache tra gli anni Settanta e Ottanta. Nel corso degli anni ho avuto la fortuna di trascorrere del tempo con i membri del gruppo e di visitare i loro archivi domestici, nonché i luoghi mitologici e geomorfici che sono stati interessati dalla loro pratica e che a loro volta hanno interessato il gruppo. 

Questi incontri intimi e lenti, che includevano la condivisione di ricordi, sono stati determinanti per me nel modo in cui percepisco le attivazioni. Di recente ho parlato con la studiosa Genevieve Hyacinthe e durante la nostra intervista ha brillantemente illustrato come la comprensione di una forma d’arte possa avvenire al di fuori della forma stessa attraverso un impegno periferico. In quei momenti di incontro con un’opera in cui sembra che non stia accadendo nulla, nella cornice più ampia che si costruisce intorno ai materiali. Pertanto, impegnarsi con un documento o un film potrebbe significare trascorrere del tempo con esso ed espandere i suoi molti strati anche attraverso interazioni sensuali, incarnate e ricorrenti. Con il passare del tempo la mia risposta ai materiali cambia attraverso la lente della mia esperienza cumulativa. 

Il processo che ha portato a queste riflessioni è influenzato da anni di ricerca accanto e oltre gli archivi. La performance è diventata un modo per raggiungere una comprensione più profonda dei materiali con cui sto passando il tempo, “attraversando il confine della pelle” e creando uno spazio per ulteriori trasmissioni e traduzioni. Il testo di Kas discute le sfumature e i limiti dell’essere una “membrana che traduce”. Vedo il mio lavoro in linea con la concezione della performance come atto di trasferimento, che può tentare soprattutto di attivare tipi di conoscenze effimere trascurate dai canoni della storia dell’arte occidentale. La performance, la ricerca di connessioni instabili, diventa un tributo ma anche la creazione di qualcosa di nuovo, come il canto sbagliato di una canzone originale. Nelle bellissime parole del regista e scrittore Trin T. Minh-ha “ascoltare attentamente è preservare. Ma conservare è bruciare, perché capire significa creare”.

Vanja Smiljanić

Scenario ipotetico numero 1: Attivazione = Diffusione 

medusa sogna di diventare una sequoia
sorseggiando il cocktail ID (1)
pensa agli accessori necessari per eseguire questa trasformazione 
nello stesso momento (è il 2015) viene lanciato un drone chiamato Lily  
è uno dei primi droni commerciali ad avere l’opzione “segui l’obiettivo”.
un braccialetto con antenna permette questa funzione
immagina di avere 7 braccia e su ognuna 54 braccialetti
sta correndo in un campo con uno sciame di droni che la segue
i droni si schiantano l’uno contro l’altro
caos. 

(1)

Ho esplorato la complessa configurazione dell’identità, del nazionalismo e della politica del corpo confrontandomi con diverse comunità che operano ai margini delle griglie della norma. Rivisitando particolari pratiche del loro repertorio, la mia intenzione è quella di (ri)presentarle come strumenti di potenziamento nell’attuale contesto socio-politico. Questa espansione del loro campo è il primo passo verso la liquefazione e la trasformazione. Invitando gli “e” e gli “anche” al posto degli “altro/o”. Su un altro piano, collocare queste pratiche in un nuovo contesto è qualcosa che mi entusiasma particolarmente. Mi interessa creare ambienti in cui possiamo esplorare collettivamente gli stati liminali del non essere così sicuri e dare spazio al nutrimento di questo limbo che storicamente è stato così pesantemente stigmatizzato e presentato come una mancanza, specialmente nel regno dell’economia/politica guidata dal mercato (dell’arte).
In definitiva, trovo necessario sviluppare una cassetta degli attrezzi su misura di pratiche, macchine, interfacce, che sostengano questa sindrome di Phoenix e possano facilitare una rivoluzione perpetua dell’identità.

Scenario ipotetico numero 2: attivazione = performatività mostruosa

ogni oggetto, strumento, performance genera una lente particolare
ogni zoom è un viaggio singolare
particolare e concreto, piuttosto che astratto
rompere le trappole della norma
accogliere le mutazioni (2)
permettendo il potenziamento e la diminuzione a volontà e il loro passaggio da una all’altra
permettendo all’ibrido e all’indefinito di esistere, esprimersi, essere
diventare disfatto
resistere alle strutture fisse e sedentarie
fondendo realtà e finzione, cultura “bassa” e pensiero astratto “alto”, ecologie oscure e ambienti leggeri, costumi e sculture di fantascienza povera. 

(2)

I mostri con cui faccio amicizia operano come filtri, sì. Hanno anche un lavoro part-time in una spa socio-politica. Diventano strumenti di visione critica e di re-immaginazione. Nel profondo sento di essere stato indottrinato dalle strategie di auto-ottimizzazione delle televendite e dai loro consigli fai-da-te per diventare un membro più efficace della società. In qualche modo, sono ancora profondamente colpito da tutti quegli oggetti conglomerati, per esempio un ferro da stiro, un telefono e una lampada nello stesso corpo. Li trovo sorprendenti.  Sono colpito dal loro potenziale creativo e allo stesso tempo paralizzato dalla paura per la loro capacità di adattarsi così rapidamente alla frivolezza del desiderio consumistico. Questa costante ricerca di punti ciechi all’interno di un mercato già sovrasaturato e la creazione di beni che hanno molteplici funzioni e che promettono di risolvere tutti i tuoi problemi con un solo clic, sono i miei corpi-mostro. Sono i miei amici. 

Labyrinth riders in disremembering Atlantis, 30min, 2022 (video still)

Simon Asencio

I approach text as an medium inherently embodied: the words of a tongue bind the mouth to the ear, the hand to the eye, the moment of writing to the moment of reading, the act of speaking to the one of listening, and  the subjectivities of characters to writers and readers. In other words, text has bodily, relational and material  implications. I use performance as a tool to investigate these implications with a public. My research focuses on forms usually excluded from poetry and literature –rumours, slang, riddles, sacred  and secret languages, lyrics and vernaculars– to investigate the position of anonymity, opacity and  invisibility in and through text, in order to reach a more distributed practice of writing and reading worlds.

When researching on literary and poetic precedents that could offer alternatives to the figure of the author, to  the narrative omniscience of the writer and to the internal voice of the individual reader, I stumbled upon  multiple mentions of an unknown essay by Virginia Woolf, titled Anon.

Anon is a prose poem that tells the thousand-year story of one protagonist Anon (or ‘Anonymous’, the name  of Anon). Anon, sometimes woman, sometimes man, is an anonymous singer who spoke to an audience just  as anonymous. Through a subjective narrative, populated by mythical characters, writers, playwrights and  historical figures, Virginia Woolf tells the story of what happened prior to the apparition of the author and the individual reader. She states the importance of vernacular cultures and collective practices in the  development of a poetic, literary and theatrical tradition in England before the printing press crossed the  Channel. 

Virginia Woolf’s text is formed of innumerable quotes and rephrasings from other authors carefully sewn  into the writing, making her essay a reflection on writing. Anon articulates a connection between the paths of the land and the paths in the mind. It allows us to see literature as geology: a palimpsest, a sedimentation of  pen strokes by multiple handwritings striving to capture the spoken, the living, the myths and their places.  ‘Walking’ through the essay becomes an invitation to ‘read’ another history of the English culture before the  Empire, before the establishment of the individual autonomous subject.

Through archival research of the unpublished manuscripts and note books of Virginia Woolf and through  philological study of her writing and readings, the process was experienced as a form of excavation: digging  through the layers of text, and finding deeper connections with distant authors (Ursula K. Le Guin, Samuel  R. Delany, Octavia Butler, Alina Popa…). Consulting the source documents also allowed me to be confronted with the multiple attempts and drafts of a writer: the false starts, the doubts, the elements omitted, removed,  marginalized by the author. This brought me to pay attention to everything that is usually not part of the ‘text’ and questioning what could be the margins of a ‘writing’ process, what could divert the linearity of ‘writing’;  and to apply these to my way of doing research.

Anon essay is an opportunity to be confronted with an open form: an unfinished text that does not necessarily need to be finished, but rather invites to be further unfolded in order to create new connections –perhaps at  the risk of denying its autonomy, its unity, in favor of a more entangled existence. How to then pursue the  research from that standpoint? This might imply a rethinking of forms and the ways of mediating forms, and  to question the authority of forms and their authoriality. On way perhaps is to think of weak and soft forms,  that are generative rather than generated, that produce accomplices rather than witnesses. 

In a way, the notion of activation could be extended to the entire research: when the desire to make sense  (both the logical and the sensuous) coexists with the experience of being fundamentally changed by what we  do. Activating this text, stimulating contact with this text lead me to devise works and situations to share the  research and keep researching with others. a reading score for communal readings, ceramic wind instruments as “aids” to reach back a song, garments to invoke the characters and myths of the story, or this present text  even…


Giulia Damiani —

At this stage of my work I think of activation of pre-existing materials as a process of seeking unstable connections. To create a space in which I imagine that the performance and the materials manage ‘to sing a song to one another’. The text and performance I’m presenting in the space of the exhibition Kas has the subtitle ‘If I Draw a Line to You’. The intention behind the piece is to connect to the body of political and artistic work by the feminist group Le Nemesiache from Naples, presented in the space, while tapping into a feminist potential filtered through ‘here’: the present moment, further experiences and affective resonances. It’s a connection that happens through remembering some elements of their work as well as by channelling their rippling presence today; it’s also a connection that unfolds through lines drawn in the landscape (starting from Naples) and onto bodies, triggered by the desire to imagine unexpected dimensions today and experiment with language. I’ve been working with visual materials and documents produced by Le Nemesiache between the 1970s and 1980s since 2013. Over years I was lucky to spend time with members of the group and to visit their home archives as well as the mythological and geomorphic places that were affected by their practice and which in turn affected the group.

Such intimate and slow encounters, which included the sharing of memories, have been determining for me in the way I perceive activations. Recently I talked with scholar Genevieve Hyacinthe and during our interview she brilliantly encapsulated how the understanding of an art form may happen outside the art form proper through a peripheral engagement. In those moments of encountering a work when nothing seems to be happening, in the larger frame that is built around the materials. Therefore engaging with a document or film might mean spending time with it and expand its many layers also through sensuous, embodied, recurring interactions. As time goes by my response to the materials change through the lens of my cumulative experience.

The process that led to these reflections is influenced by years of research beside and beyond archives. Performance has become a way to reach a deeper understanding of the materials I’m spending time with, ‘crossing the boundary of the skin’ and creating a space for further transmission and translation. The text for Kas discusses the nuances and limits of being a ‘translating membrane’. I see my work in line with the conception of performance as an act of transfer, which can especially attempt at activating kinds of ephemeral knowledges neglected by Western art historical canons. Performance, the seeking of unstable connections, becomes a tribute but also the creation of something new, akin to the mis-singing of an original song. In the beautiful words of filmmaker and writer Trin T. Minh-ha ‘to listen carefully is to preserve. But to preserve is to burn, for understanding means creating’.


Vanja Smiljanic —

Hypothetical scenario number 1: Activation = Outreach

jellyfish dreams of becoming a redwood tree
sipping on that ID-cocktail (1)
she thinks about accessories needed to perform this transformation
at the same time (it is 2015) a drone called Lily is launched 
it is one of the first commercial drones that has a follow-the-target option
a bracelet with an antenna allows this feature
she imagines having 7 arms and on each 54 bracelets
she is running through a field with a swarm of drones following her
the drones are crashing into each other
mayhem.

(1)

I’ve been exploring the complex configuration of identity, nationalism, and body politics by engaging with different communities that operate on the fringes of norm-core grids. By re-visiting particular practices from their repertoires, my intention is to (re)present them as empowering tools within the current socio-political context. This expansion of their field is the first step towards liquefying and transforming. Inviting ‘and’s and ‘as well’s instead of ‘either/or’s. On another level, situating these practices in a new context is something that particularly excites me. I’m interested in creating environments where we can collectively explore liminal states of not being so sure and give space for nourishing this limbo that has been historically so heavily stigmatised and presented as a lack, especially in the realm of (art) market-driven economy/politics.
Ultimately, I find it necessary to develop a custom-made toolbox of practices, machines, interfaces, that sustain this Phoenix syndrome, and can facilitate a perpetual revolution of identity.

Hypothetical scenario number 2: Activation = Monstrous performativity

each object, tool, performance generates a particular lens
each zoom-in is a singular journey
particular and concrete, rather than abstract
breaking norm-core traps
welcoming mutations (2)
allowing the enhancement and diminution at will and their switching in-between
allowing the hybrid and undefined to exist, express, be
becoming undone
resisting fixed, sedentary, structures
merging reality and fiction and ‘low’ culture and ‘high’ abstract thinking and dark ecologies and light-hearted milieus and costumes and sci-fi povera sculptures.

(2)

The monsters I befriend operate as filters, yes. They also have a part-time job working in a socio-political spa. They become instruments for critical viewing and re-imagining. Deep down I feel I was indoctrinated by teleshopping-self-optimisation strategies and their DIY tips on becoming a more effective member of society. Somehow, I’m still deeply impressed by all those conglomerated objects, for example, an iron, a phone, and a lamp in the same body. I find them astonishing.  I am affected by their creative potential and at the same time paralysed with fear by their ability to adapt so quickly to the frivolity of consumerist desire. This constant quest for blind spots within an already oversaturated marketplace and the creation of commodities that have multiple functions and that hold a promise of solving all of your problems with just one click, those are my ur-monster bodies. They are my friends.