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Le sue creazioni sembrano l’incontro tra forme biomorfe e meccaniche. Tutte di dimensioni ‘umane’, le opere della giovane artista francese Caroline Mesquita (1989, Brest), presentate nella personale in corso alla T293 di Roma (fino all’8 dicembre), invogliano a toccarle, sfiorarne le superfici; a volte anche ‘praticarle’ come per misurarne la resistenza e possibile la funzionalità. Tutte in acciaio inossidabile, le “astronavi” di Mesquita sembrano in attesa di essere avviate, lanciate in uno spazio indefinito e in un tempo remoto dove il ricordo delle forme antropomorfe – i titoli indicano oggetti e animali come ombrella, foca, verme, cobra – è ibridato con quelle che posso essere pensate come involucri alieni, corazze che devono resistere o conservare delle forme di vita o degli oggetti legati al nostro mondo per un futuro ignoto e lontanissimo.
Nonostante questa notevole spinta verso una dimensione sconosciuta, le sculture di Mesquita mantengono un tratto “umano” fatto di saldature visibili e non levigate, imperfezioni (volute) nel trattare il materiale; come fossero di carta leggera, i volumi sono definiti da piegature e tagli abilmente studiati; le masse, anche molto diverse le une dalle altre, sono collegate da aste, saldature, rinforzi.
Pensiamo alla scultura “Spaceship Excalibur”, che ricorda una grande rocca su cui un guerriero-extraterreste ha conficcato una spada che, non fosse per il titolo, forse non assoceremo mai alla più nota delle mitologiche spade di re Artù. Ma potrei citare anche “Spaceship Worm”, “Spaceship Cobra” e “Spaceship seal”. Tutte e tre queste sculture fondono esseri animali con la durezza di una navicella spaziale; tutte mantengono con la realtà terrena un piccolo legame: una maniglia saldata nell’ampia pancia della foca; delle staffe, che sembrano imbrigliare il corpo tronco di un cobra e la forma di un corpo filiforme e rotondeggiante, evidente rappresentazione di un grosso verme.
Ancora più evidente l’aggancio con un oggetto quotidiano, la scultura “Spaceship umbrella” dove l’alternanza tra colore chiaro e scuro richiama all’evidente oggetto nominato dal titolo.
Reduce da due mostre importanti – Les Bons Sentiments, 2017, 19ème Prix Fondation d’entreprise Ricard curata da Anne-Claire Schmitz e L’ENGIN, 2017, Indiana, RATS Collectif, Vevey (CH) – Caroline Mesquita porta a Roma la rappresentazione di un mondo dove alle presenze delle mostre precedenti – che ricordavano rigide marionette meccanizzate o le forme di vetture futuriste provviste di turbine e manubri – sostituisce un eterogeneo gruppo di entità ibride e surreali rese misteriose perché semplificate e spogliate dai molti dettagli delle opere precedenti. Rese involucri informi, solo grazie a piccoli dettagli, lievi allusioni, ci ricordano da dove provengono.
In mostra anche il video ‘Night Engines’ – opera che da il titolo alla mostra – interamente girato in notturna. Ha come protagonista un tassista solitario che in un periodo di luna piena incontra lungo la strada misteriosi personaggi tutti interpretati dallo stesso attore. Racconta l’artista: “Mi piace cambiare l’identità delle persone, mettere in discussione concetti come genere, personalità, sessualità, marginalità, eccentricità e immaginare una sensualità più aperta”.