Tre pittori, con sensibilità e ‘umore’ molto differente, si incontrano negli spazi della galleria Cardelli & Fontana per dar avvio ad un dialogo serrato, fatto di pause eloquenti e deviazioni che, a ben vedere, avvicinano le intenzioni e forse anche gli obbiettivi. Cesare Biratoni (Barcellona, 1969), Giuliano Sale (Cagliari, 1977) e Marco Salvetti (Pietrasanta, 1983), si incontrano nello spazio espositivo per dar vita ad una “mostra di frammenti ricomposti, dove echi di scontri ancora risuonano sotto la superficie del lavoro.”
Abbiamo posto alcune domande agli artisti —
Elena Bordignon: Il tema della mostra è Crash Test: prova d’impatto o collaudo. Che significato hai dato a questo concetto in relazione alla tua ricerca pittorica?
Cesare Biratoni: Più che un significato ho trovato un riscontro emotivo nel termine proposto da Marco Salvetti per la mostra. La metafora era riferita al possibile impatto o al dialogo tra lavori molto diversi, ma io ho sentito che la stessa parola si poteva usare per descrivere una sensazione che vivo quotidianamente; e cioè il continuo scontro, oggettivo e visivo, con la materia dei lavori. Mi è piaciuto mettere in risalto come per me, a differenza del crash test che si risolve in tempi brevissimi, il tempo dello scontro con la superficie pittorica impieghi moltissimo tempo prima di definirsi. Penso oltretutto che il crash si riproponga ad ogni sguardo, e non solo in riferimento ai miei lavori.
Giuliano Sale: Penso che il tema di questa mostra contenga entrambi i significati, prova d’impatto e collaudo. Personalmente devo dire che in questa occasione ho avuto “fortuna”, il CRASH, si sposa perfettamente con l’idea che ho del mio modo di lavorare, far scontrare, impattare, vari elementi e farli coesistere pacificamente tra loro. Mentre il collaudo più che altro penso che lo abbia fatto la galleria, Cardelli e Fontana, nell’assemblare e far esporre tre artisti contemporanei che tra loro non si conoscevano, in una mostra che ho trovato riuscitissima in termini di armonia tra stili e scelte pittoriche diverse.
EB: Racconti la genesi delle tue opera come fosse il risultato di due tempi diversi: uno lento dove le forme si sedimentano e uno più rapido, che distrugge, mette in discussione. Mi racconti come nascono le tue opere in mostra, anche in relazione a questa doppia temporalità?
Cesare Biratoni: Le opere in mostra arrivano da tempi e da situazione molto diverse. Ci sono sia collage che pittura. Ho anche esposto due dipinti ad olio su carta che rappresentano due bagnanti; di solito una sempre in piedi e l’altra seduta: credo che questa cosa sia dovuta ad una mia fascinazione giovanile per il flauto di pan del 1923 di Picasso. Il tempo di cui parli nella domanda è veramente un argomento complesso, direi sostanziale. Ho cercato di restituire questa dimensione di continua rimessa in discussione del giudizio sul lavoro immaginando scontri che riecheggiano sotto la superficie del lavoro anche dopo moltissimo tempo. La sedimentazione è sicuramente una mia modalità di lavoro, si riferisce sia alla pratica manuale della pittura sia alla costruzione e ridefinizione di un giudizio sull’opera stessa. Cambiando i modi e i medium con cui lavoro è normale che cambino anche i tempi di realizzazione: i collage hanno una dimensione di “progetto”, che non sento appartenere alla pittura, nel senso che la superficie delle immagini (mi riferisco alla provenienza dei ritagli) è già di per sé risolta e storicizzata, il mio problema diventa di tipo compositivo, come se il confronto si misurasse più sulla semantica che sulla qualità sensibile della superficie. Invece la pittura sento che deve essere realizzata fin dalla sua primigenia immagine mentale, è una genesi che si scontra con la viscosità di una materia riluttante, con una superficie che, appunto, cambia, si asciuga, si modifica. Questo dialogo-scontro tra la forma-idea e la sua sostanza materica è una pratica ossessiva che non sempre funziona. La parola “realizzata” la uso sia nella sua accezione del fare che nel senso più mentale del “realizzare”, e cioè decidere, capire se quel che ho fatto va bene o va male; questi, credo, siano i due tempi diversi di cui parliamo: il secondo tempo di solito è quello nel quale si tende a mettere in discussione e a cancellare tutto.
EB: Per i tuoi quadri in mostra, parli di un ‘crash’ iniziale e di un secondo momento in cui varie forme e tecniche pittoriche coesistono per giungere ad un equilibrio. Mi racconti come avviene questo processo? Come scegli i tuoi soggetti?
Giuliano Sale: Esatto, come detto è proprio il CRASH iniziale il mio punto di partenza. Sono solito partire da una macchia o da una forma senza apparente identità, a volte anche solo una linea, non importandomi se il risultato sarà un ritratto o una rappresentazione di più elementi, il punto iniziale è sempre uguale. Non disegno sulla tela e non faccio schizzi o progetti. A volte sono solo le dimensioni delle tele sulle quali lavoro a decidere se si tratterà di un ritratto, più piccolo e quindi intimo, oppure una composizione di più soggetti con più piani di lettura, più grande e quindi dove rompere o spezzare forme e contenuti. Sulle forme iniziali poi sovrappongo vari strati e a volte numerose “prove” per dedurre che di solito sono quelle sbagliate a portare le evoluzioni migliori. Il lavoro per me finisce quando il tutto mi risulta riconoscibile e mi dice che può bastare, che non ho altro da aggiungere.
Per farti comprendere meglio è più il tempo che passo a fissare il lavoro e capire che forma ed equilibrio deve avere che il tempo effettivo di messa in opera.
Se per scelta intendi un processo razionale, non c’è davvero una scelta per i soggetti dei miei quadri, pesco un po’ tutto dalle mie ossessioni, dalle ansie, da un certo mio nichilismo e quindi alla fine faccio semplicemente come mi va di fare.
Marco Salvetti, eludendo le domande, mi da una risposta pienamente coerente sia con i temi della mostra che con al sua ricerca pittorica.
In quella che definirei una prospettiva ontologica, credo che la pittura non abbia nessun legame con la realtà che osserviamo. Per fare della pittura ci serve della pittura, una forma carica, impegnata, non un buon soggetto. Un pittore che sceglie qualcosa da qualche parte e poi dipinge…non saprei, non ne sono pienamente convinto. Il soggetto va trattato come un caro impostore, nel soggetto ci s’inciampa.
Certo, nello stesso corpo coesistono il pittore che si guarda intorno. Il pittore che agisce. Il maestro. L’irrisolto, il puzzone. L’audace imbrattatele come me. Tutti insieme creano l’innesco, nel migliore dei casi.
Ma è la pittura allora che mette alla prova la realtà (crash-test). La pittura è come una macchina lanciata. La realtà offre delle collocazioni al nostro fare. Dei perimetri da testare.
La domanda è: che cos’è la pittura? Non c’è mai stata la pittura. Ci sono stati e ci sono i pittori con le loro opere e le loro rogne…gli artisti di fronte all’inevitabile. La pittura potrebbe non essere mai esistita per quanto ne sappiamo…potrebbe essere successa in Italia nel 1300, durare un secolo…poi appare altro che per comodità abbiamo continuato a chiamare pittura. Tuttavia potremmo sostenere che la pittura è solo ciò che facciamo oggi, che è qualcosa che puoi praticare ad una determinata latitudine…quando hai alle spalle almeno un millennio di pitture precedenti e il mondo sta per finire..
“La Sainte Victoire esisteva già nella testa di Cezanne. Un giorno del 1882 l’artista s’imbatte inevitabilmente nel suo motivo. Spodestati gli alpinisti e i geologi, oggi la montagna è percorsa esclusivamente da pittori e storici dell’arte. La confusione regna sovrana.”
J.B.Wozenkroft, Does painting exist