Testo di Veronica Pillon —
Entrare nell’universo concettuale di Paolo Icaro significa muoversi all’interno di uno spazio dinamico, che viene continuamente ridefinito, modificato e aggiustato. Nella seconda personale dedicata all’artista presso la galleria P420, continua l’esplorazione della sua poetica, dagli esordi fino alle opere più recenti – alcune inedite – al fine di evidenziare la necessità di cambiamento e trasformazione, non solo nell’arte, ma anche nella vita di ciascun essere umano.
Lo spazio della galleria è modellato dall’artista, che interviene nel white cube come se si trovasse all’interno di un vero e proprio cantiere: le sale sono legate tra loro da un’impalcatura di legno che sottolinea il carattere unitario dell’ambiente. Un ambiente in cui l’artista sperimenta la propria trasformazione, in cui le condizioni necessarie alla realizzazione di un qualsiasi lavoro sono messe in atto. Lo spazio si considera come “spazio” di vita, umano, volto alla costruzione e all’edificazione dei sogni e dei traguardi non ancora raggiunti. La scelta dei lavori esposti non segue un andamento cronologico o tematico, ma mescola, in un’alterazione spazio-temporale, quelle che sono le sperimentazioni dell’artista, attivo dagli anni Sessanta.
Entrare nel cantiere significa entrare in contatto con installazioni architettoniche polimateriche. In una commistione di elementi naturali e artificiali, i pavimenti e le pareti della prima sala si contraddistinguono per la presenza del materiale ligneo, del gesso e della pietra. Icaro diviene quasi un muratore o un carpentiere in lavori come Momento, pietra dell’Adda (1986) e Question (2015). Se in Momento, pietra dell’Adda l’elemento naturale della pietra è integrato all’interno del gesso manipolato dall’artista stesso, il secondo lavoro presenta un ceppo che viene intagliato con la scritta “Question”: la volontà di porsi delle domande, di cambiare idea, di ripensare la propria esistenza, la propria arte e la propria vita sono espressione dell’immensa umanità che contraddistingue la scultura di Icaro. La forma cilindrica e la verticalità che caratterizzano le due installazioni sono, infatti, un richiamo a quello che è il corpo umano, con tutti i suoi difetti e imperfezioni. La scelta dei materiali, inoltre, richiama la vicinanza dell’artista all’Arte Povera.
La riduzione al “minimo”, sia nei media utilizzati che nello stile, avvicina l’artista a quello che è il grado zero, esplorato attraverso gli oggetti e la relazione con il corpo. Il concettuale di Icaro è un concettuale caldo, che non disdegna la dimensione umana ma che l’integra nell’idea.
Ciò emerge con forza nell’installazione della Stanza della favola, un progetto risalente agli anni Settanta e che viene mostrato integralmente per la prima volta. L’installazione si compone di una serie di pezzi in acciaio nero e legno: quasi a ricostruire una camera da letto – luogo in cui il sogno si manifesta – il visitatore è invitato a interagire con lo spazio che lo circonda. La dimensione della favola emerge all’interno della stanza attraverso i glitter che cospargono le barre d’acciaio, quasi a evocare il segno della matita che il pittore imprime sul foglio.
I pezzi, datati 1970, sintetizzano la ricerca di Icaro sulla gabbia, influenzato dal minimalismo di Morris e dal clima culturale newyorkese di inizio anni Settanta: la considerazione di uno spazio come qualcosa da esplorare, come contenitore ma nello stesso tempo “gioco serio”, rendono la ricerca di Icaro assolutamente personale, differenziandolo dagli artisti del periodo.
La Stanza delle Favole dialoga con un’altra serie, quella legata ai Racconti, nata per caso dall’incontro tra l’artista e l’acciaio. Al centro della stanza un parallelepipedo, composto dalle stesse barre nere dell’installazione – aperto sui lati ad evocare l’idea dello spazio vuoto come contenitore – richiama quelli che compongono la serie, iniziata negli anni Sessanta ma ancora aperta. I solidi – in legno, onice, acciaio e piombo – poggiano su dei fogli di carta e su di essi si legge la parola “Racconto”, in un corsivo dolce e panciuto. Ancora una volta entra in gioco la dimensione umana, biografica e personale evocata attraverso la parola.
Icaro, parlando del Cantiere afferma: “Nel Cantiere lo spazio è dinamico, continuamente modificato, ripensato, aggiustato, deformato e il fare lascia spazio al disfare per rifare”. Non ci troviamo più di fronte al non-finito, di michelangiolesca memoria, ma al “per non finire”, alla volontà di lasciare aperte molteplici possibilità di riflessione, di ipotesi, di critica. La scritta “Ancora” sulle vetrine della galleria accompagna il visitatore mentre sta per uscire dal cantiere: ancora ci saranno dei cambiamenti, ancora ci si porrà delle domande, ancora si cambierà idea…