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Jus D’Orange: Camille Henrot e Estelle Hoy – Fondazione ICA Milano

Testo di Chiara Zonta – Stimola l’immaginazione, apre punti di vista inaspettati, proietta nella visione personale pensieri tridimensionale di coinvolgente levatura. Stiamo parlando della mostra in corso alla Fondazione ICA di Milano Jus D’Orange – a cura di Chiara Nuzzi, fino al 25/11 – che presenta un fitto dialogo tra la ricerca di Camille Henrot […]

Camille Henrot & Estelle Hoy. Jus d’Orange, curated by Chiara Nuzzi, Installation view, Fondazione ICA Milano, Milan. Ph. by Andrea Rossetti

Testo di Chiara Zonta

Stimola l’immaginazione, apre punti di vista inaspettati, proietta nella visione personale pensieri tridimensionale di coinvolgente levatura. Stiamo parlando della mostra in corso alla Fondazione ICA di Milano Jus D’Orange – a cura di Chiara Nuzzi, fino al 25/11 – che presenta un fitto dialogo tra la ricerca di Camille Henrot e la scrittura di Estelle Hoy
Le due protagoniste sviscerano problematiche sociali, politiche ed etiche venendo accomunate da una stessa fascinazione per la simbologia dell’arancia da cui prende il titolo la mostra. Per Henrot l’arancia è emblema di apertura: la buccia permette di accedere alla polpa, alla sostanza delle cose; per Hoy gli spicchi che la compongono sono l’incarnazione degli eventi significativi delle nostre vite. Ogni spazio, ogni opera riporta su di sè la tinta di questo frutto, da Hand That’s Too Weak in cui lo sfondo è una campitura piena di colore arancio, a Labor of Pure Breathly Interminability in cui la tonalità viene soltanto citata nei confini del quadro. L’arancia compare nelle parole sulle pareti, guida il significato della poesia, è l’incarnazione di una cosciente rassegnazione riparativa a cui difficilmente ci si abbandona.
Le tele accolgono tracce di colore che smascherano una superficie in passato eccessivamente acquosa, le pennellate sono tenui, le linee che disegnano i contorni antropomorfi non sono nette, il segno è piegato alla capillarità dell’acqua. Le immagini generano una dimensione onirica in cui realtà e menzogna non possono essere distinte, le donne in The Three Graces appaiono simili al vero ma l’artista triplica le braccia e mozza loro la testa sfregiando la figura eterea della Grazia. Sulle pareti dello spazio sono aggrappate le poesie di Hoy che emergono materialmente dal muro, se da un lato le immagini le subiamo, le parole per natura sono condannate al rischio di essere viste ma non lette, la loro inusuale sporgenza è una ribellione al pericolo di essere ignorate. Le frasi non sono mai troppo lunghe e la loro lettura è frammentata nell’ambiente, la loro disposizione nello spazio ci obbliga a soffermarci sul peso di una virgola lasciata in sospeso o sul significato di una parola separata dal resto del periodo. 

In una stanza una parte di testo cita: “È comprensibile evitare la fragilità psichica cercando motivazioni per tutto, basandosi sulla separazione tra il linguaggio e la sfera affettiva. Perché? Non saprei dirvelo. È troppo mondo tutto insieme,”-  “per me”. Il complemento di termine “per me” risponde alla domanda “per chi?” e indica la persona o la cosa su cui ricade l’azione, in questo caso lo spazio vuoto creato dall’ingresso nella stanza si interpone fisicamente tra la frase e il suo complemento, causando un’iniziale alterazione di significato: “è troppo mondo tutto insieme”. Terza persona singolare, anonima. Verso l’uscita un piccolo tassello sullo stipite della porta: “per me.” Il macigno di un mondo troppo bello e troppo orribile non gravita su persone ignote, ma è una zavorra su di sé. 
Le parole di Hoy si riflettono come uno specchio d’acqua sulle sensazioni emanate dai dipinti; nella prima stanza a destra è presente un’opera, Under a Serious Moon, sui toni del blu e dell’arancione da cui emerge il profilo di un occhio scrutatore, il testo che accompagna l’opera condanna la condizione di colui che non vive le proprie oppressioni “eppure non prova il mostruoso pentimento richiesto a una vita segnata dal privilegio.” e così d’un tratto lo sguardo vitreo sulla parete sembra penetrare come una lama delle più affilate. 
La sala più ampia dell’esposizione ricorda un suolo lunare da cui emergono sculture di ferro dalle linee organiche innalzate sopra a dei pilastri, tutt’attorno la narrazione scorre sulle tele dipinte e nelle parole affisse. Una scultura accompagna l’unica anomalia nell’esposizione, il testo che riflette non si trova su una parete ma poggia orizzontalmente ai suoi piedi contrastandone la verticalità, quasi la parola fosse troppo impudica per essere posta al suo pari livello. È l’eccezione che permette di sbloccare l’ingranaggio del messaggio e risiede nel suolo delle parole: dal terreno emerge un seme che si eleva libero alla ricerca di una fessura che gli permetta di rincorrere la luce, ma nel suolo il germoglio coesiste con il terrore di essere calpestato e ricondotto nell’infertilità del fondo.

Camille Henrot & Estelle Hoy. Jus d’Orange, curated by Chiara Nuzzi, Installation view, Fondazione ICA Milano, Milan. Ph. by Andrea Rossetti