Caducità. Il frammento come auto-rappresentazione nella ceramica d’arte italiana: questo il titolo della mostra ospitata, fino al 19 agosto 2018, al MIDeC di Laveno Mombello. La curatrice Irene Biolchini ha mutuato il taglio concettuale della mostra da una riflessione di Freud che riportiamo:
No! è impossibile che tutte queste meraviglie della natura e dell’arte, che le delizie della nostra sensibilità e del mondo esterno debbano veramente finire nel nulla. Crederlo sarebbe troppo insensato e troppo nefando. In un modo o nell’altro devono riuscire a perdurare, sottraendosi ad ogni forza distruttiva.
Ma questa esigenza di eternità è troppo chiaramente un risultato del nostro desiderio per poter pretendere a un valore di realtà: ciò che è doloroso può pur essere vero. Io non sapevo decidermi a contestare la caducità del tutto e nemmeno a strappare un’eccezione per ciò che è bello e perfetto.
(Freud, Caducità, 1915)
Nell’intervista che segue la curatrice ci spiega le motivazioni della scelta delle opere; la relazione che ha intessuto con gli artisti; l’ espansione e inclusione di molte tematiche che, con la ‘caducità’ e il ‘frammento’ hanno spesso sottili attinenze. Sottesa, la protagonista della mostra, la ceramica: materia con cui molti artisti selezionati si sono confrontati, alcuni in modo episodico, altri sviluppando una ricerca iniziata da tempo.
Gli artisti coinvolti: Valentina d’Accardi, Vincenzo Cabiati, Silvia Camporesi, Arianna Carossa, Pino Deodato, Loredana Longo, Nero / Alessandro Neretti, Ornaghi Prestinari, Paolo Polloniato, Laura Pugno, Alessandro Roma, Andrea Salvatori, Marcella Vanzo e Marco Maria Zanin.
Segue l’intervista con Irene Biolchini —
ATP: Il titolo e l’incipit della mostra – Caducità. Il frammento come auto-rappresentazione nella ceramica d’arte italiana – introduce a uno dei temi forse più complessi dell’arte e della cultura in generale: la precarietà, prima delle ‘cose’, della vita stessa. Citando Freud, la visione che scaturisce è quella di un continuo ciclo di creazione – distruzione che porta ad essere liberi… Come hanno interpretato gli artisti questo tema complesso? O, se hai scelto delle opere già fatte, come e perché le hai scelte?
Irene Biolchini: Le opere esistevano anche prima di questo allestimento, ma in alcuni casi hanno trovato una nuova vita grazie alla mostra. Penso ad esempio al lavoro di Nero / Alessandro Neretti che ha re-interpretato delle figure realizzate venti anni fa, organizzandole in una vetrina – ideale controcanto a un video prodotto lo scorso anno durante una residenza; alle piastrelle di Valentina D’Accardi (presentate a parete nel 2017 e ricollocate a pavimento per dialogare con l’imponente fregio di Biancini); all’opera di Loredana Longo Arma a doppio pugno che rielaborava con l’inserto in pelle oro la forza dei pugni presentati lo scorso novembre presso la Galleria Francesco Pantaleone, Milano. La selezione è avvenuta discutendo il testo di Freud con gli artisti: in alcuni casi la scelta era scontata per entrambi (penso ad esempio al lavoro di Laura Pugno incredibilmente vicino al tema), in altri è stata la discussione a portarci in una determinata direzione.
In ogni caso tutti i lavori in mostra sono stati scelti per la loro capacità di rappresentare il sé attraverso una visione parziale, tramite l’accettazione della caducità delle cose, che è cosa diversa dall’effimero perché porta con sé un percorso di conoscenza.
ATP: In particolare, la mostra parte dal ‘frammento’, da ciò che rimane della distruzione – metaforica – degli oggetti. Mi citi e introduci alcune opere che raccontano o rappresentano il concetto di frammento in relazione al materiale ceramico?
IB: Quando lavorai ad un progetto per il MIC con Silvia Camporesi, alcuni anni fa, mi ricordo che Silvia mi raccontò la paura che la attraversa quando si avvicina alla materia ceramica, per via della sua fragilità. In realtà la ceramica è uno dei materiali che meno soffre umidità, luce e sbalzi climatici: è quindi molto più resistente di molti altri, e più refrattaria all’intervento esterno. Detto questo, è evidente che l’immagine di una tazzina in frantumi popola i ricordi delle infanzie di tutti. Direi che il lavoro di Ornaghi e Prestinari riesce in questo senso a raccogliere in sé proprio quella dimensione del quotidiano e lo fa tramite due elementi: il secchio (la cui forma allude alla plastica, anche se è ottenuto per colaggio) e i frantumi di piccoli oggetti quotidiani che si stratificano. La terracotta con cui sono realizzati questi frammenti rimanda ai resti delle grandi civiltà del passato, parlando della Storia e della dimensione privata. Nella stessa sala di Ornaghi e Prestinari, poi, si trova anche Paolo Polloniato che lavora sulla materia stessa del ‘resto’: uno stampo aziendale, proveniente da una di quelle fabbriche che hanno reso ricco il Nord-Est, riempito degli scarti della produzione. La materia, lasciata cruda, porterà ad una naturale corrosione della forma-vaso: un pieno che rende la storia della ricerca individuale dell’artista e la storia del proprio contesto. Ecco dunque che colaggio, terracotta e terra cruda convivono nel creare un impianto comune in cui, più che la tecnica, è il concetto a dominare la scena.
ATP: Mediante il ‘frammento’ sei riuscita a sviluppare un percorso che attraversa molte e complesse tematiche: l’autoritratto, la ri-definizione dei sensi, l’archeologia del quotidiano, i gesti arcaici, la natura ecc. Mi racconti come hai legato assieme tutti questi soggetti?
IB: La mostra nasce da una specificità della materia ceramica, che permette di modellare con assoluta rapidità un certo sentire. Ciò che è per me davvero interessante è notare come le ricerche degli artisti in mostra, pur mantenendo le loro specificità, condividessero una comune esigenza, cioè quella della rappresentazione del sé attraverso visioni parziali. Da qui il frammento, descritto nel 1915 da Freud in Caducità. Direi che tutte le opere sono accumunate da una tensione verso la conoscenza, la definizione dell’Io tramite la perdita. È grazie a questa trasversalità che la mostra riesce a non essere un percorso tematico, quanto piuttosto una riflessione sull’ossessione della rappresentazione del sé, dell’individualità. Un percorso all’interno del quale poter collocare ciò che tu, giustamente, chiami ‘soggetti’ e che in questo caso sono tappe di una ricerca assolutamente trasversale.
ATP: Nel mettere in dialogo tre generazioni di artisti, ci sono degli aspetti di continuità o di rottura che emergono dalla mostra?
IB: La continuità domina, travalicando distinzioni sia di genere che di generazione. L’intento, infatti, era proprio quello di creare un percorso coerente, mischiando linguaggi, aree di provenienza ed esperienze. Come dicevo trovo che ci sia una similarità tra il lavoro di Polloniato e quello di Ornaghi e Prestinari (sebbene nati con un decennio di distanza). Allo stesso modo la riflessione sul frammento vegetale come momento di riscoperta interiore è fondamentale nel lavoro di Valentina D’Accardi (1985) e di Alessandro Roma (1977). Infine trovo interessante il dialogo che si instaura tra Vincenzo Cabiati (1954) – che parte da un frame video per modellare la propria scultura – e il video di Nero/ Alessandro Neretti (1980), capace di restituire nel video la dimensione interiore della propria scultura. Per non parlare della continuità tra l’autoritratto ‘decapitato’ di Andrea Salvatori (1975) e le figure acefale che popolano l’installazione di Pino Deodato (1950).
ATP: Scorrendo la lista degli artisti, ce ne sono alcuni che solo in modo latente lavorano con la ceramica; penso a Silvia Camporesi che lavora per lo più con la fotografia, ma potrei citare anche Laura Pugno e Loredana Longo. Mi motivi la loro presenza?
IB: Semplificando direi che Caducità può essere riassunta in due modi: una mostra di ceramica ed una mostra tematica. Il risultato finale è la negazione di entrambe. Sia in fase di selezione opere che in allestimento, infatti, ho tentato di allargare il concetto di ceramica, indagandone la dimensione concettuale prima ancora che materica. Trovo che in questo senso la ricerca di Loredana Longo sia un perfetto esempio di ciò che tentavo di descrivere: l’esplosione del calco del proprio pugno è in linea con la sua ricerca degli anni precedenti. La terra fresca era lo strumento più efficace per rendere la sua idea e quindi è stata utilizzata. Il materiale ha permesso di conservare le nervature originali della mano dell’artista, come si può notare avvicinandosi alle sculture. Ma è altrettanto chiaro che la forza del lavoro non è determinata dal materiale, quanto piuttosto da quel singolare connubio tra ricerca concettuale e potenzialità tecniche. Per Silvia Camporesi vale più o meno la stessa riflessione: nel suo unico lavoro ceramico ha ricostruito simboli delle filigrane medioevali, forme che vivono del passaggio della luce su carta. Queste sculture sono il tentativo di dare corpo a quel passaggio di luce, e mi sembra che in questo non ci si allontani sideralmente dalla fotografia, almeno in termini di concetto. Laura Pugno, infine, ha presentato un lavoro perfettamente in linea con il concept della mostra: l’argilla non cotta, e quindi mai fissa, era il materiale migliore per rendere il continuo cambiamento della percezione, del sé e degli oggetti.