ATP Diary ospita un Diary di Roberto Fassone ed Elida Brenna Linge, in residenza nel mese di novembre da The Blank, Bergamo, a cura di Cristina Rota
Roberto Fassone — Ho passato gran parte del novembre 2015 nella residenza di The Blank a Bergamo. Tra le cose successe: ho scoperto la canzone “With Me” di dvsn, approfondito il quasi inarrivabile lavoro di Gianni Motti, conosciuto una ragazza norvegese che parla molto bene l’italiano, mangiato polenta con le lumache, visto i Golden State Warriors dominare l’NBA e scaricato il nuovo album di Avril Lavigne. Ho continuato a studiare la creatività. Quanti metodi conosco per sviluppare un nuovo lavoro? Ho deciso di lavorare su quattro sezioni principali: Giocare, Ricombinare, Cambiare e Rappresentare.
In Giocare, dalla definizione di gioco di Bernard Suits: “Giocare a un gioco è lo sforzo volontario per superare un ostacolo non necessario” consiglio di progettare una performance. Se ci pensiamo, quando Francis Alys performa Loop , ovvero passare da Tijuana a San Diego senza attraversare il confine che divide il Messico dagli Stati Uniti, realizza perfettamente le parole di Suits.
Ricombinare indica invece un gruppo di opere contemporanee in cui gli elementi sono ricombinati per dare vita a una nuova narrazione. Omer Fast, nel suo video CNN Concatenated (2002), raccoglie singole parole utilizzate da presentatori televisivi e le riconfigura in un monologo personale. Cambiare è la categoria più semplice, dice che per creare un’opera a volte è sufficiente cambiare una fra le caratteristica che appartengono a un fenomeno già esistente.
Rimpicciolire un ascensore = cambio di dimensione; spostare un negozio di Prada nel deserto = cambio di luogo; colorare di verde un fiume = cambio di colore; rallentare di 24 ore un film = cambio di tempo … Ho descritto questa sezione in Wind of Change, una sorta di video-lecture al mio open studio.
Rappresentare racconta di quei lavori che possono essere realizzati attraverso la materializzazione di una figura retorica. L’ossimoro avviene quando scrivo con dei coltelli “Life is Beautiful”, il paradosso quando cerco di sollevare una gru con una gru, l’ellissi quando conduco un’intera lezione senza usare la lettera R.
Queste quattro categorie vanno a formare How to Make an Artwork, una lecture che ho progettato nella residenza, testata per la prima volta allo IUAV di Venezia nel corso di Antoni Muntadas e Alessandra Messali. Vorrei portare questa lezione nei licei e nelle università, ampliandola in relazione alla risposta, e magari, un giorno, farne una pubblicazioni sulla linea del lavoro di Bruno Munari.
Elida Brenna Linge — Non conoscevo molto riguardo Bergamo, solo il fatto che esiste un dialetto chiamato bergamasco – così strano che probabilmente non sarei riuscita a comprenderlo – ma che volevo utilizzare per sviluppare il mio progetto. M’interessava l’esistenza di una lingua diversa, parallela a quella ufficiale e mi chiedevo come fosse utilizzata. Quando sono arrivata in città, nonostante il mio italiano fosse povero, ho insistito per usarlo sempre, per conoscere attraverso la lingua. Ho sperimentato una lingua in modo intuitivo e fluente o in maniera astratta, con l’utilizzo di suoni e gesti privi di senso. Ho avuto la possibilità di conoscere un linguaggio dall’esterno e dall’interno.
Durante la residenza ho scoperto che la vera lingua di Bergamo è il suo dialetto, la lingua legata alle emozioni, alla storia del luogo e alle professioni. E’ una costante, un fattore parallelo e ignoto, uno strumento alternativo per situazioni nelle quali non avrei pensato di imbattermi.
“Ho fatto la conoscenza con l’italiano, ma ho cercato il bergamasco fra le linee, dentro la impalcatura, in momenti spontanei. Ho scritto e disegnato tante schizzi, ho deciso di usare gli schizzi in modelli di impalcatura, con un esterno bianco ed un interno di linee e parole. Così gli schizzi, originalmente spontanei, fanno parte di strutture intenzionali e costruite.“
La vicinanza con una legatoria artigianale mi ha fatto immaginare un libro che figurasse il dialetto bergamasco. Il suono “ü” – assente nella lingua italiana – è diventato il personaggio principale, per questo ho deciso di utilizzare solo parole che lo contenessero. Parole inserite in pagine chiuse, mai direttamente accessibili e di cui si coglie solo la traccia posteriore.
Nella mia terra, la Norvegia, il dialetto è sempre presente, anche fra gli stranieri che conoscono poco la nostra lingua. Parliamo sempre in dialetto, anche all’università o fra persone che provengono da zone lontane, con influssi diversi. Ma, durante la residenza ho capito che a Bergamo non è così.
Per questo ho voluto sviluppare lavori che trattano dell’esistenza astratta di una lingua parallela e orale, funzionante come un segno profondo d’identità e di appartenenza. Connotata, meno rigorosa, ma con i piedi per terra.