Intervista di Sara Benaglia e Mauro Zanchi a Mattia Balsamini e Massimiliano Tommaso Rezza —
Sara Benaglia + Mauro Zanchi: Senza l’aiuto di uno specchio, di un dipinto, di una scultura o di altri strumenti tecnologici (macchina fotografica, videocamera), è difficile percepire totalmente il proprio corpo come lo si racconta a sé stessi. Il ritratto che facciamo di noi è il risultato di osservazioni dirette ma frammentarie e di ricostruzioni immaginarie. Come è nato il progetto Blind Spots?
Massimiliano Tommaso Rezza: Il progetto è nato da una riflessione casuale, forse anche banale, sui limiti dell’autopercezione, che però porta alla scoperta di un sorprendente paradosso, tanto grande quanto accessibile ma raramente rilevato. Ero disteso sul divano e per la prima volta mi sono reso conto che di me stesso vedevo solo alcune parti: gambe, piedi, mani, braccia, l’area esterna delle spalle. Quando sono arrivato alle aree del viso mi sono reso conto che di queste ne vedevo solo una piccolissima parte: l’area laterale del naso e, facendo qualche smorfia, anche il labbro superiore, poi una porzione limitatissima dell’arcata sopracciliare, quella più vicina all’attaccatura del naso, ma non di più. Che strano, il viso, che è la parte del nostro corpo con la quale ci identifichiamo e con la quale gli altri ci identificano, è quasi completamente invisibile al nostro sguardo, a noi stessi. Per quanto banale possa sembrare questa consapevolezza, sono rimasto colpito dal fatto che si presentava a me per la prima volta. Immaginavo potesse essere una presa di coscienza infantile, primaria, del tempo della vita, nella quale cominciamo a esplorare il mondo con i nostri sensi, e invece è stata una scoperta tardiva. Abbiamo messo la vista sul gradino più alto della gerarchia dei sensi, ma non ci siamo mai accorti che non vediamo il nostro stesso viso, che non potremo mai guardarci interamente senza l’ausilio di strumenti. Ecco, questo trovo sia il paradosso sul quale bisogna soffermarsi a riflettere. Siamo consapevoli di chi siamo e come siamo, ci pettiniamo, ci abbigliamo, ci prepariamo per incontrare la società là fuori, studiamo come apparire, l’effetto che possiamo sortire, ma manchiamo di una visione diretta della nostra figura. In Un certo Salvatore M. (2019), il libro che ho pubblicato per Pneumatica, ho cercato di riflettere su come la macchina fotografica sia utilizzata in molti casi come l’occhio della società, l’occhio estraneo, uno strumento quasi normativo, che può regolare e sovrintendere alle correzioni che apportiamo alla nostra figura sociale. La macchina fotografica ci mostra come siamo là fuori, fuori dalle mura delle nostre abitazioni, ci vede come oggetto e presenza nel mondo. Con Blind Spots, invece, mi sono chiesto cosa manchi alla visione che abbiamo di noi stessi, al processo di visualizzazione e costruzione della nostra figura.
Per fare un lavoro che tenesse conto anche di un altro punto di vista, ho chiesto a Mattia Balsamini di lavorare insieme per verificare su diversi soggetti quale fossero i risultati di questo fenomeno di mappatura delle risultanze auto-percettive. Il lavoro di Mattia mi ha colpito per la sua capacità di spostare esteticamente gli oggetti verso un orizzonte quasi surreale, pur tenendoli ancorati in uno stato di iperrealtà. Trasmuta la materia e gli oggetti in fantasmi, simulacri. Avevo bisogno proprio di questo, che una parte delle fotografie fossero situate in una zona incerta e ibrida dove reale e surreale potessero coesistere.
Mattia Balsamini: Ho aderito alla ricerca, affascinato dall’insistenza di Massimiliano Tommaso Rezza verso l’utilizzo della fotografia come strumento di verifica di fenomeni scientifici, sociali, fisici – spesso inter-relazionati. Ho incontrato il suo lavoro dapprima come curatore di contenuti molto complessi, in particolare il progetto di Piero Martinello e Piero Casentini The Weight of the Word, una ricerca sul rapporto tra scienza e potere in relazione alle malattie eponimiche, per poi approfondire i suoi interessi come autore/fotografo, in particolare con Palatography, in cui, forse più di ogni altro lavoro a mio avviso, mette in luce il problema dei documenti visivi provenienti da ambiti tecnici e scientifici, che vengono utilizzati in contesto artistico per le loro forme espressive e affascinanti, trascendendo e ignorando gli usi e le funzioni originarie. Credo che la mia fascinazione per questo progetto derivi, ancora una volta, proprio da questa tensione: la consapevolezza del potere evocativo di alcune immagini, e la necessità di usarle per uno scopo utile. In questo caso l’ulteriore punto di contatto ha riguardato l’ossessione con le zone d’ombra, il contrasto tra visibile ed invisibile.
SB+MZ: Avete invitato dodici volontari a osservarsi in studio, senza superfici riflettenti. Come vi siete rapportati con loro, visto che avete chiesto di fare un’osservazione diretta di sé? Come avete preparato lo studio fotografico per accogliere questo esperimento?
MB: È stato importante definire parzialmente le aspettative di risultato estetico di questo lavoro, ma ancora più decisivo accettarne l’imprevedibilità. Il processo di preparazione dei corpi è stato graduale, l’atto del body painting richiedeva molto tempo ad ogni singolo partecipante, ed altro tempo era richiesto dai nostri collaboratori make-up artist per completare le sfumature. L’atto trasformativo di ciascun corpo credo abbia dato a me e Massimiliano il tempo di adattarsi al cambiamento di queste figure, per imparare sul momento le differenze e similitudini tra campi visivi. Non si parlava molto all’interno del set. Osservavamo e fotografavamo il processo quasi in silenzio. L’atmosfera di curiosità perdeva noi quanto i soggetti stessi. E trovarsi di fronte, di volta in volta, i corpi “pronti” era una costante epifania. Dava la possibilità di fare esattamente ciò per cui il processo era stato pensato: mappare e segnalare. L’ulteriore, parziale, sorpresa di riscontrare delle inedite forme, quasi rorshachiane, che connotavano volti e schiene dei soggetti è stata, credo, una potente conferma del potere visivo di questa metodologia empirica. L’imprevedibilità si è manifestata anche interiormente, nelle reazioni che suscitavano i corpi di fronte a noi. Inizialmente c’era una grande volontà di presentarli come mappe (tant’è che un iniziale working title è stato Atlante), in maniera estremamente rigida, alludendo a reference sinergicamente a cavallo tra il lavoro dei Becher e quelle neo-scientifiche di Muybridge – si è poi manifestato con grande intensità l’aspetto più umanamente personale di ogni singola figura, con le proprie diversità visive e motorie, estremamente presente e palpabile nella fase di fotografia documentaria delle performance.
MTR: La collaborazione con i volontari è stata fondamentale. La loro partecipazione doveva essere informata, dovevamo essere sicuri che i volontari sapessero come interagire con il concetto e adeguare la propria partecipazione/prestazione. Quindi, abbiamo spiegato loro cosa avrebbero dovuto fare: osservarsi attentamente, prendere consapevolezza della propria visione, usarla come un fascio di luce che illumina di bianco le parti direttamente osservate. Mentre le parti invisibili sarebbero state colorate di nero. Dopo che i volontari hanno tracciato con il bianco i contorni delle aree direttamente visibili, due make-up artist hanno reso omogenee le campiture di colore bianco o nero, di modo che il risultato fosse visibilimente apprezzabile. Gli stessi make-up artist, mentre lavoravano, spiegavano ai volontari come osservarsi, quando c’erano dei dubbi o incertezze. Lo studio è stato diviso in due set, uno per Mattia e uno per me. Ognuno avrebbe lavorato in autonomia, senza interferire con l’altro per produrre due lavori indipendenti e al tempo coerenti con il tema. Lo spazio messo a disposizione gentilmente da Marsèll a Milano, uno spazio industriale vuoto pavimentato con cemento grigio, ci ha permesso di mantenere isolati i soggetti contro uno sfondo neutro, e quindi fotografare i modelli in uno spazio che non distraeva. Ci è sembrato che anche per i volontari il progetto sia stato un’esperienza di auto-conoscenza, che li ha coinvolti profondamente. Le sessioni di scatto sono diventate delle vere e proprie performance in tempo reale. Tutti alla fine delle sessioni siamo stati in qualche modo toccati, modificati.
SB+MZ: Che cosa è la Body Image e come si costruisce l’immagine mentale della propria apparenza?
MTR: La Body Image, che intuitivamente è stata sempre presente nelle riflessioni dei filosofi, ma che solo da poco viene studiata dagli scienziati che si occupano di percezione e cognizione, è quella figura mentale dai contorni sfrangiati, mutabile, e continuamente negoziata tra percezione, proiezione e ricostruzione, grazie alla quale ci “vediamo” e identifichiamo. È il nostro avatar, suscettibile però d’imprecisione. Non è una visione oggettiva, ma una figura approssimativa, vaga, forse uno schema dinamico, senza il quale, però, la nostra soggettività perderebbe l’ancoraggio alla realtà, perché perderebbe la centralità di agente-soggetto: ci permette di vederci come attore principale dell’esperienza. La Body Image ci serve, quindi, per relazionarci con il mondo, per prevedere le nostre capacità dinamiche e volumetriche, di ingombro, ma anche semplicemente per “vederci” collocati nella realtà. Quindi le implicazioni della nostra Body Image non sono soltanto di natura cinetica, fisica, ma sociale e psicologica. Le implicazioni della figurabilità della Body Image vengono ad esempio studiate dalla psicologia clinica nei casi di disturbi alimentari come anoressia e bulimia. In essi la stessa Body Image è l’origine della sofferenza, in quanto esteticamente inadeguata alle aspettative del soggetto che l’ha formata. La Body Image si costruisce sia per osservazione diretta – il guardarsi – sia attraverso l’integrazione con percezioni e osservazioni provenienti da strumenti ottici e di registrazione (macchina fotografica, videocamera, specchi, ecc.), là dove la visione diretta di parti di noi non è possibile. Tutte queste informazioni visive vengono assemblate, riunite per creare una figura mentale imprecisa, ma funzionale all’unità psichica del soggetto.
SB+MZ: Come avete risolto formalmente tutte le questioni che avete appreso in riferimento alla Body Image? Nelle vostre fotografie in bianco e nero fate emergere un’apparenza enigmatica che evoca una figura funzionale legata all’unità psichica?
MTR: In fotografia non potevamo mostrare la Body Image, che è una raffigurazione mentale (intra-soggettiva), ma soltanto i limiti dell’autopercezione, e cioè come l’osservazione diretta non potesse accedere alla totalità delle parti del nostro corpo e che siamo pertanto parzialmente ciechi rispetto a noi stessi. Come è stato già accennato, bisognava documentare questo paradosso e presentarlo all’osservatore. Al centro del paradosso c’è la consapevolezza di un dubbio, di una rivelazione del soggetto: la sua mancanza di totale controllo visivo su se stesso. Era giusto, per semplificare e ridurre al minimo gli effetti che avrebbero distratto l’osservatore, utilizzare il bianco e nero, il bianco per le parti del proprio corpo che noi riusciamo a vedere direttamente, le nere sono le parti che la vista non ci permette d guardare, e restano quindi relegate, per costruzione della Body Image, alla ricostruzione mnemonica. C’è un aspetto estetico e culturale legato al bianco e nero, e cioè la sua primitività, la sua originarietà nel fotografico. Mi sembrava che parlare di un aspetto soggettivo radicale come il rapporto con la propria figura, con la propria immagine, doveva certamente implicare un uso elementare della forma e dell’estetica fotografica. L’enigma a cui si fa riferimento nella domanda, secondo me, è prodotto da diversi fattori: innanzitutto la nudità, che da una parte ha implicazioni socioculturali, ma allude soprattutto un carattere di “disponibilità” fisica all’esperimento, il superamento del pudore per esporre il soggetto al paradosso risultante. Poi è enigmatica la pittura corporale che: 1) modifica la percezione delle fisionomie e 2) le tribalizza, le trasporta in un tempo remoto, dove gli ornamenti erano applicati direttamente al corpo nudo appunto come pittura, disegno. E infine abbiamo constatato come, durante i tre giorni di sessioni di scatto con i volontari, noi stessi siamo stati modificati, i nostri stessi piani a tavolino sono stati smantellati dalla stessa esperienza emotiva che abbiamo vissuto tutti noi: gli assistenti, i truccatori, i volontari. Tutti siamo stati toccati, ma nessuno è riuscito a comprenderne a fondo il motivo. Queste emozioni si sono riversate, poi, nell’espressione estetica delle fotografie. Due espressioni diverse, quella di Mattia e la mia. Mattia ha riportato il soggetto a una fase psichica, di enigmatica presenza e di dubbio radicale come prodotto della scoperta di un limite percettivo. I suoi modelli hanno spesso gli occhi socchiusi, quasi a evocare uno stato di soglia, un mondo limbico nel quale il dubbio non è risolvibile. Io ho pensato più a una forma elementare che descrivesse, documentasse semplicemente senza dimenticare la forma storica del corpo nudo.
MB: Credo poi che Massimiliano ed io ci sentiamo molto vicini al lavoro di Gioli e Cresci, la cui magia affonda in un immaginario spesso oscuro, imperfetto, si radica profondamente nelle motivazioni che hanno spinto innanzitutto a crearle, quelle immagini. Per Massimiliano è molto importante l’assenza di alterazione dell’immagine: la sua, se posso permettermi, onestà. Per quanto mi riguarda, ho provato a relegare la veridicità solamente nell’aspetto mappale, ma meno quello della luce e del trattamento delle fotografie.
SB+MZ: Dal momento che la Body Image è una ricostruzione, in che modo vi siete confrontati con la neuroscienza? Quali reti neurali sono deputate alla sola Body Image e qual è il loro ruolo?
MTR: Abbiamo comunque dovuto informarci sulle novità della neuroscienza, e per questo motivo mi sono messo in contatto con uno scienziato del CNR, Massimo Silvetti, che da anni studia i metodi computazionali applicati alle scienze cognitive. Abbiamo fatto qualche incontro per presentare l’impostazione delle ipotesi sollevate da Blind Spots e per verificare che non ci fossero errori teorici di fondo o ipotesi erronee. Le aree deputate alla formazione della Body Image sono molte, ma sicuramente quelle più coinvolte sono la corteccia parietale, la frontale e le aree visive non primarie.
MB: Queste fotografie servono a produrre una mappatura immediatamente accessibile all’osservatore, non la figura stessa della Body Image. Come già affermato da Massimiliano non è possibile fotografare la Body Image. Il titolo del lavoro Blind Spots riporta quindi anche il sottotitolo “Sui risultati dell’osservazione diretta delle parti visibili e invisibili del proprio corpo nel processo di costruzione dell’immagine corporea” proprio per specificare le risultanze del lavoro. La fotografia mostra i limiti dell’auto-osservazione direttamente sul soggetto che si è guardato. Nel mio lavoro di image making a servizio della scienza e dell’industria mi sono spesso trovato a confrontarmi con la necessità della fotografia di (provare a) raccontare l’invisibile e in questo approccio di Blind Spots ho trovato un altro grande punto di contatto tra il mio lavoro e quello di Massimiliano.
SB+MZ: Nella contemporaneità individuiamo noi stessi e gli altri a partire dagli aspetti fisiognomici e delle innumerevoli copie digitali e analogiche dei visi. Eppure, è impossibile guardare il nostro volto direttamente. Che cosa è l’invisibilità che porta con sé questa relazione impossibile?
MTR: Beh, credo che questa sia la questione più urgente che Blind Spots solleva. Le fotografie di Blind Spots hanno un chiaro aspetto processuale, e cioè aiutano a riflettere su sé stessi riguardo a quella “invisibilità” o cecità che il colore nero evidenzia e mostra. Sono dei buchi da riempire con le informazioni che provengono dagli strumenti ottici, come è stato detto. Va de sé che il soggetto che pensa di governare se stesso deve tener conto che la figura che ha in mente, quella che lo rappresenta mentalmente, non è verificabile direttamente, e quindi sfugge al controllo immediato. Sono parti della propria figura umana che restano indietro, sono temporalmente arretrate rispetto al tempo presente, le vediamo in un luogo e in un tempo diverso da quello che si vive come esperienza diretta. È, questa, una consapevolezza di una slogatura o una sfasatura dell’unità spazio-temporale della propria persona. Se in questo preciso momento posso vedere le mie mani con i miei stessi occhi, posso però solo immaginare approssimativamente le espressioni che il mio viso assume, e per lo più basandomi su immagini di questo colte o registrate in un altro momento. Il soggetto, pertanto, è al centro di un complesso nodo che è allo stesso immanenza e memoria, sensi e immagine, corpo e mente. Un punto complesso, quindi, quello in cui si trova il soggetto, che deve articolare e gestire mondi diversi, e diverse metafisiche: l’empirismo puro, ma anche il mondo delle immagini mentali o fantasmi della memoria. Un tale soggetto non è frammentato, non ha perso la sua unità psichica, ma si deduce come questa sia il prodotto di una sintesi complessa che ha afferenze differite nel tempo e nello spazio. Credo, anzi, che la potenza dell’unità del soggetto ne esca rafforzata da questa consapevolezza. Siamo, cioè, in grado di compiere operazioni altamente complesse nei tempi stretti della esperienza istantanea senza bisogno di controllo consapevole. C’è, poi, l’aspetto di fiducia nel mondo esterno, dal quale si estraggono informazioni che appartengono al nostro corpo, che ci riguardano direttamente: non possiamo non essere in dubbio sulla veridicità di queste informazioni, e dobbiamo accordare loro una fiducia totale. E tra fiducia verso i propri sensi e quella verso il mondo esterno, il soggetto, appunto, si radica nel mondo e non lo può negare né di esso può dubitare perché da esso ottiene informazioni che lo riguardano intimamente, che servono a situarsi, a individuarsi.
MB: Come afferma Massimiliano, cosa contiene questa invisibilità è esattamente il soggetto della ricerca. Possiamo aggiungere che abbiamo molto riflettuto anche sugli oggetti che andavano a “materializzare” la ricerca, rendendola oggetto unico, oltre che fotografia riproducibile e quindi anche di dubbia veridicità. In particolare, oltre alla mappatura fotografica, sono diventate uno strumento tangibile le impressioni di colore nero dei volti, realizzate tramite impressioni degli stessi su fazzoletti di cotone, in copia unica. Forse questo ultimo documento inizia a fondere l’immagine con quello che Massimiliano descrive come sensazioni e fantasmi della memoria.
SB+MZ: Da una parte possiamo vedere il nostro volto, con i suoi tratti fisiognomici, guardandoci allo specchio o nelle fotografie che ci hanno scattato. Dall’altra c’è la complessità dell’immagine che abbiamo di noi stessi. Il vostro lavoro riguarda la dimensione retinica dell’immagine di sé oppure esplorate anche altri sensi?
MTR: Blind Spots si occupa soltanto dei risultati dell’osservazione diretta, retinica, quindi, che la fotografia mostra. Qui la fotografia è impiegata nella sua funzione ostensiva, oggettiva, e cioè mostra delle rilevazioni che siccome sono referite ai corpi, come forme universali, interpellano ognuno e lo invitano a riflettere. L’osservatore vede nel corpo del modello quali potrebbero essere le risultanze di un’osservazione diretta su se stesso. Le fotografie sono prove che dovrebbero indurre una riflessione su se stessi. Per poter alludere all’invisibilità di queste parti inaccessibili allo sguardo e alla loro ricostruzione non si poteva fare altro che mostrarle. La loro presenza nella foto indica la visibilità dell’invisibile per se stessi, e anche questo è un paradosso, credo.
MB: In Blind Spots la percezione rappresentata è quella “dell’altro” che viene fissata nelle aree bianche e nere, ma questo aspetto di rivelazione deve fungere da punto di partenza della riflessione dell’osservatore. Come già affermato non ci si ferma alla forma della fotografia, chiusa in sé stessa, ma alla fotografia come mappatura per orientarsi, una fotografia per ragionare.
SB+MZ: Il corpo è sempre contenuto in uno spazio, in un tempo e in un non tempo, in un paesaggio, in una dimensione. Mentre pensiamo alla percezione di noi, siamo concentrati su quella modalità e non abbiamo un’impressione lucida che proprio in quegli istanti siamo all’interno di qualcos’altro, di un ambiente spazio-temporale. Emerge qualcosa di questo aspetto nella vostra ricognizione? In che modo la mappatura di sé si relaziona con un intorno più complesso?
MB: Quello che non appare visivamente nel contesto empirico ed essenziale della location in cui abbiamo rappresentato i soggetti è la loro appartenenza al mondo. Sia da un punto di vista paesaggistico/architettonico, sia, soprattutto, relazionale. In questo progetto i corpi appaiono chiusi in sé stessi, immersi in una auto osservazione che sembra non prevedere nessun’altra azione possibile. Questa è la dimensione quasi onirica e di isolamento in cui le immagini si presentano. Ma queste fotografie alludono, paradossalmente, anche all’opposto, ovvero una grande operazione di unione e integrazione che il soggetto deve compiere per riempire quelle aree invisibili che sono escluse al proprio sguardo.
MTR: Blind Spots vuole riflettere principalmente sul soggetto e lo sguardo che questo ha verso il proprio corpo, che costituisce il suo orizzonte immediato, anche se, come giustamente si verifica nella realtà, questo soggetto non si trova mai nelle condizioni di isolamento totale o di separazione da un contesto “ambientale”. I punti ciechi, le aree invisibili del nostro corpo, sono ricostruibili o semplicemente osservabili nel contesto situazionale, là dove il mondo della cultura, della tecnica o delle relazioni, istruiscono il soggetto sulle forme di quelle parti mancanti alla osservazione diretta. Solo il soggetto immerso nell’ambiente-mondo può ricostruire l’interezza della propria figura. Senza questa relazione col mondo il soggetto sarebbe mancante e cieco alla propria stessa presenza, non potrebbe produrre la propria Body Image. Emerge, quindi, un soggetto e un’idea di soggettività che è il risultato di un’integrazione esterno-interno, una negoziazione tra sensi e strumentazioni, tra sé e il mondo. Ma questa riflessione, però, e mi ripeto, arriva in un secondo momento, come effetto della presa di coscienza di quanto manca a sé per ottenere una figura intera, la forma della propria presenza nel mondo. La fotografia di Blind Spots vorrebbe stimolare proprio il pensiero sulla natura sociale e culturale dell’integrazione del soggetto nella realtà e la sua appartenenza a un mondo e a un tempo della cultura condivisa. Le aree nere sono pertanto fessurazioni del corpo-involucro, della monade soggetto, dove il mondo riesce a penetrare e a colmare i limiti naturali.
SB+MZ: Riprendendo la tesi di Merleau-Ponty, secondo cui la percezione va riferita interamente al corpo, dove si mescolano dati materiali e spirituali in un intreccio che supera ogni dualismo di tipo cartesiano, i fruitori delle vostre immagini cosa possono cogliere dentro l’organizzazione e l’interpretazione dei dati sensibili coscienti che voi avete rilevato dall’esterno, ovvero da ciò che vi è stato riferito da coloro che avete poi fotografato, tradotto formalmente da rapporti fra macchie chiare e scure dipinte sul corpo?
MTR: Speriamo innanzitutto che l’osservatore di Blind Spots possa rilevare questo strano paradosso che è il rapporto che abbiamo con la nostra immagine. Parti di noi sono invisibili a noi stessi, sono un buco nero nel quale si depositano informazioni eterodirette, forme ottenute per vie riflesse, “parole”, forme, prospetti, vedute che provengono dal mondo a noi esterno. Il soggetto, per conoscersi, deve relazionarsi col suo ambiente, con l’esterno. Noi, i soggetti, nonostante il potenziale “eretico” o eterodosso che possiamo esprimere, siamo comunque il prodotto di una lunga contrattazione interno-esterno, siamo “carne del mondo”, per citare appunto Merleau-Ponty, il frutto di relazioni complesse e di tradizioni, di giochi linguistici, di scambi che ci intercettano e ci informano. L’individuo è il punto di raccolta e di smistamento di un complesso simbolico-culturale che il soggetto può contrastare, ma non annullare. I volontari, che durante i giorni dedicati agli scatti si sono messi gentilmente a disposizione dell’idea del progetto, si sono scoperti, trovati, hanno fatto esperienza di consapevolezza, come anche noi tutti che eravamo presenti. Non abbiamo fatto loro una vera e propria intervista per conoscere la loro esperienza. Abbiamo però notato una notevole introversione, una commozione durante le sessioni di scatto. Qualcosa li ha sorpresi profondamente. La loro nudità si è duplicata. Il soggetto, il volontario, è sé stesso, incarna una specificità, ma è anche l’essere umano in generale, in quanto i risultati dell’auto-osservazione appartengono all’antropologia della persona. Forse è anche a causa di questa rivelazione quasi universale che il volontario è stato investito da una forte emozione.
MB: Aggiungo solamente che è stato molto potente vedere come i volontari siano stati disponibili ad analizzare aspetti molto profondi del sé nonostante fossimo in uno spazio performativo, distantissimo dalla sfera privata – e grazie a questo esperimento abbiano potuto scoprire una dimensione al contempo molto pragmatica e profonda.
Credits:
Federica Iannuzzi – Producer
Manuela Balducci e Edoardo Bacigalupi MUA / Body Painting
Bianca Maria Longoni – Photo Assistant
I volontari:
Alberto Laccarini; Alessandro Calò; Andrea Corbetta; Annalisa Limardi; Claudio Reali; Gaia Contarino; Giulia Carolina Mezza; Marina Paul; Mian Wei; Paola Fiorindo; Paolo Maria Caporale.