Testo di Giulia Morucchio
Dal 21 al 24 aprile si è svolta From Discovery to Rediscovery, 34esima edizione della fiera ArtBrussels curata per l’ultimo anno da Katerina Gregos e ospitata per la prima volta a Tour & Taxis, ex sito industriale oggi adibito a complesso polifunzionale. 141 le gallerie internazionali partecipanti, tra spazi che lavorano con artisti affermati (nel settore Prime), giovani gallerie che supportano gli emergenti (l’area Discovery), stand dedicati a personalità sottovalutate o dimenticate dalla critica e “riscoperte” in occasione della fiera (indicate come Rediscovery), e piccole mostre personali (gli spazi contrassegnati dall’etichetta Solo). Anche quest’anno un’ampia sezione è stata destinata ai Non-profit spaces, per includere nel contesto fieristico anche le realtà espositive indipendenti e senza scopo di lucro. Tra queste Aleppo, che per l’occasione ha presentato Black Market, un programma di incontri sulle forme clandestine di mercato, curato da Daniel Blanga-Gubbay, Simon Asencio, Teresa Gentile in collaborazione con Public School of Architecture di Bruxelles e Argos, centro di promozione di video e film d’arte con sede nella capitale belga.
Per cinque giorni lo stand di Black Market ha ospitato lectures, workshops, screening e performance che indagavano la tematica del l’economia sommersa, intesa non tanto come un sistema di attività illegali quanto, piuttosto, come una serie di strategie alternative di creazione e circolazione artistica che non rientrano nell’etichetta di “ufficiali”. Inserito in uno dei contesti maggiormente significativi per il mercato dell’arte – la fiera -, e grazie alla partecipazione di figure internazionali provenienti da diverse discipline e campi di studio (i ricercatori Maurizio Lazzarato, Stephen Wright, Natasha Ginwala e Andrew Norman Wilson, l’archeologo Sam Hardy, gli artisti Dora García, Sarah Vanagt, The Presidential Candidacy, Marisa Morán Jahn e Paolo Falzone) , il progetto ha messo in questione il confine, che tendiamo a percepire come netto, tra mercato bianco e mercato nero, mostrando le diverse sfumature di grigio presenti tra i due.
Di seguito alcune domande al curatore Daniel Blanga-Gubbay
Giulia Morucchio: Cos’è Aleppo e da che esigenze è nato?
Daniel Blanga-Gubbay: Aleppo (A L aboratory for Experiments in Performance and POlitics) nasce dal desiderio di poter avere una piattaforma in cui artisti e teorici si possano confrontare a partire da questioni del presente percepite come urgenti. L’idea è quella di poter costruire uno spazio in cui la creazione artistica non sia vista come un oggetto su cui riflettere, ma come uno strumento attraverso cui si riflette sul mondo che ci circonda, mettendo sullo stesso piano apporto artistico e apporto teorico. Al tempo stesso, nasce dalla volontà di aprire uno spazio di riflessione che si avvalga degli strumenti dell’ambito accademico (reading group, seminari e conferenze) ma che, a differenza di quest’ultimo, sia aperto, gratuito, condiviso e soprattutto che abbia anche dei tempi di organizzazione più veloci, che permettono di riflettere su quello che sta succedendo, nel momento in cui sta succedendo. Aleppo non è strutturato come un’istituzione, ovvero non riceve finanziamenti pubblici o regolari che determinano la programmazione con largo anticipo, ma può contare su una serie di contatti per cui, ogni volta che emerge una tematica, una domanda specifica che ci interessa approfondire, questa viene condivisa con altre istituzioni ognuna delle quali partecipa in maniera differente al programma e cofinanzia determinati momenti delle nostre attività.
GM: Come è nata la vostra partecipazione ad ArtBrussels? In particolare, perché avete deciso di riflettere proprio sulla tematica del mercato nero in un contesto invece così rappresentativo del mercato ufficiale, in cui le trattative e le vendite vengono sancite alla luce del sole, o meglio, sotto le luci al neon?
DB-G: Per le attività che hanno luogo a Bruxelles, Aleppo ha uno spazio di lavoro in centro città, grazie ad una residenza dell’Académie Royale des Beaux Arts, ed inizialmente non c’era interesse, da parte nostra, nel rispondere positivamente all’invito della curatrice della fiera, Katerina Gregos, di partecipare ad ArtBrussels. Al tempo stesso ci siamo posti la domanda: “Esiste una questione che possa avere più senso se posta all’interno di quel contesto, invece che all’esterno?” Un’altra questione cruciale che ci faceva desistere dal partecipare, era che nello spirito stesso di Aleppo tutti i formati che proponiamo sono sempre aperti, gratuiti e accessibili, mentre la fiera ha un biglietto d’ingresso. Riflettendo tra noi, è emersa la volontà di approfondire il tema del commercio illegale e dell’uso della pirateria nelle pratiche artistiche, una questione che aveva senso all’interno del contesto fieristico non come critica o contrasto rispetto al contesto stesso, ma per mostrare la porosità tra mercato bianco e nero; mostrare tutto l’interstizio tra bianco e nero, mostrare la zona grigia che esiste, è l’unica possibilità di minare la solidità che il mercato bianco ha di sé stesso come zona alla luce del sole, mentre in realtà sappiamo che le cose sono molto più complesse di così.
Abbiamo quindi iniziato una contrattazione con la fiera sull’accessibilità di questo progetto e siamo riusciti ad ottenere una lista di ingressi illimitati che il pubblico ha utilizzato per prendere parte alle nostre attività o semplicemente per entrare alla fiera senza pagare il biglietto, aggirando le regole del contesto che ci ospitava.
GM: Ci puoi raccontare qualcosa di quanto è successo nel vostro stand in quei giorni?
DB-G: Abbiamo chiesto a tutti coloro con cui abbiamo collaborato una riflessione sull’importanza di parlare delle reti non ufficiali e delle zone d’ombra della contrattazione tra mercato bianco e mercato nero. Abbiamo aperto la programmazione con una conversazione con Maurizio Lazzarato sugli interstizi della circolazione del mercato, spazi alternativi che rischiano di venire riassorbiti sotto forma di critica marginale, di venire inglobati dal sistema.
Dora Garcia ha presentato invece a una performance a partire da un progetto precedente che si chiama Where do the characters go when the story is over?. Si trattava di un dialogo tra il personaggio brechtiano Charles Filch e Jessica, una figura che prende vita dal lavoro di Simon Asencio: è stato un intervento molto sottile, in grado di sollevare molte delle questioni che avevamo aperto, ad esempio “in che modo si possono vendere delle storie?” e “in che modo una performance è – soprattutto all’interno del mercato dell’arte – differente da un mendicante che vende le sue storie?”
Sabato 23 abbiamo ospitato Sam Hardy, specializzato in archeologia politica e delle zone di conflitto, che in questo momento sta portando avanti una ricerca sulle distruzioni nelle zone di Daesh, lavorando molto su Palmira e Mosul e sui gesti di distruzione che son stati fortemente mediatizzati nei mesi passati. Violenze che non avvengano tanto per un fine iconoclasta di distruzione di una civiltà, quanto perché il mercato nero dell’archeologia è, dopo il petrolio, la seconda fonte di introiti per lo stato islamico: tutti questi reperti vengono distrutti per poter essere trasportati, o sfigurati per poter essere meno riconoscibili e essere facilmente inseriti nel mercato nero dell’archeologia, per poi passare al mercato bianco attraverso le collezioni private e le donazioni ai musei.
Un altro dei progetti presenti nel nostro stand era l’installazione Video Slink Uganda di Paul Falzone e Marisa Moràn Jahn che hanno lavorato sulla difficoltà dei video artisti ugandesi e della diaspora ugandese di mostrare il proprio lavoro nel paese d’origine, dove non c’è un mercato e non c’è una rete di video arte abbastanza sviluppata. Esiste però un mercato nero immenso di produzioni hollywoodiane, bollywoodiane e nollywoodiane che vengono masterizzati in tantissime copie. Quello che Falzone e Jahn hanno fatto è stato di chiedere ai video artisti di rinunciare all’autorialità sulla propria opera e di accettare, tramite la stipulazione di un contratto, di essere piratati. Successivamente i due hanno coinvolto le strutture illegali che si occupano della masterizzazione e della vendita dei dvd, chiedendo di poter inserire un video d’artista al posto del trailer che compare prima del film che effettivamente è piratato e presente sul dvd. Ciò ha fatto sì che i video d’artista entrassero in maniera massiccia nel circuito di ciò che viene consumato visivamente nel paese. Si tratta di un progetto che ho fortemente voluto all’interno di Black Market perché pone diverse questioni in causa: parla della contaminazione tra il mercato nero e il mercato dell’arte e del ribaltamento dell’oggetto che è un po’ il feticcio del mercato bianco perché indica che si è nell’ambito dell’ufficiale, che qui sancisce l’ingresso nel mercato nero. Quello che volevamo evidenziare è che il mercato nero è uno spazio problematico ma è anche, come in questo caso, uno spazio di riappropriazione e di circolazione più facilmente manipolabile.
GM: In che modo il tempo di fruizione della vostra programmazione si inseriva all’interno del tempo di fruizione della fiera? Mi riferisco alla durata delle performance e delle lectures, ma anche agli eventi organizzati fuori dall’orario di apertura ufficiale della manifestazione..
DB-G: Una delle preoccupazioni che avevamo era quella di capire quali erano i limiti della fruizione fagocitante della fiera e quali erano le possibilità di uscire da questa temporalità. Abbiamo lavorato su questo aspetto utilizzando formati che fossero differenti dalla logica dell’evento, ad esempio ospitando il workshop di Florin Flueras and Ion Dumitrescu della durata di un’intera giornata, e delle conferenze sul mercato nero legato all’architettura il giorno precedente all’apertura della fiera, momento in cui solitamente possono accedere alla struttura solo persone autorizzate e il team che lavora agli allestimenti. Volendo mantenere l’evento aperto al pubblico, abbiamo dovuto fare entrare gli spettatori inserendoli in una lista costruttori, facendo leva ancora una volta sul regolamento dell’istituzione che ci stava ospitando. Formati di questo tipo hanno permesso di marcare differenti temporalità di fruizione, una questione centrale nella logica di consumo che esiste in quel contesto.
GM: In occasione di Black Market avete prodotto una pubblicazione che unisce un testo drammaturgico di Bernard-Marie Koltès dal titolo “Nella solitudine dei campi di cotone” ad alcuni contributi teorici. Come mai questa struttura?
DB-G: Abbiamo chiesto ai teorici che avrebbero fatto parte del programma di Black Market di scrivere una riflessione sull’idea di transazione illegale, sul potenziale e sui rischi delle zone d’ombra che fuoriescono dal mercato ufficiale. Successivamente abbiamo pensato di ripubblicare “Dans la solitude des champs de coton” (1986) testo teatrale di Bernard-Marie Koltès, incentrato sulla trattativa tra un venditore e un cliente. Il volume non esiste più in inglese ed è difficilmente reperibile in commercio, quindi la nostra operazione si inseriva anche in un’ottica di rimetterlo in circolazione. La scelta di questo testo non è stata casuale: l’opera propone l’idea di scambio illegale in tutta la sua potenzialità e rischio. Se inizialmente non si capisce quale sia l’oggetto della negoziazione tra i due personaggi, poco a poco intuiamo che ciò che stanno contrattando è la produzione di desiderio stessa.
Ma non ci siamo limitati a ripubblicare il testo così com’era: abbiamo chiesto a chi aveva scritto i contributi teorici di individuare un punto del testo di Koltes che potesse avere una connessione col proprio lavoro e abbiamo inserito il loro saggio lì, come nota a margine. Nascondendo i brevi saggi all’interno dell’opera drammaturgica abbiamo invertito il rapporto gerarchico tra quello che è luce e quello che è ombra nella pubblicazione, e abbiamo suggerito al lettore una passeggiata attraverso il testo letterario che in diversi momenti prevede porte d’accesso alla deviazione teorica.
GM: Utilizzerete il materiale prodotto e raccolto durante la fiera per trarre delle conclusioni rispetto a questo tema?
Non ci interessa fare una raccolta a posteriori che guardi retrospettivamente a quanto è successo. C’è più una tendenza a cercare di disseminare delle domande, sia attraverso gli incontri sia attraverso la pubblicazione, in modo che questa tematica possa poi essere portata avanti da qualcun altro, altrove.
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