Testo di Ilaria Dal Lago —
Bill Lynch (Albuquerque, New Mexico, 1960 – Raleigh, North Carolina, 2013) ha vissuto la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta come giovane artista nell’East Village a New York. Potrebbe essere immediato immaginarlo nel grande vortice delle nuove tendenze dell’arte, diviso tra una galleria e l’altra, affannato in studio con gli artisti della sua età. Eppure, probabilmente, mentre tutto quel caos si faceva spazio tra le strade newyorkesi, sarebbe stato più facile trovare Lynch davanti a una tela di Goya o nella sezione di arte orientale del Met, magari con un blocco per prendere appunti e realizzare schizzi.
La galleria torinese di Norma Mangione presenta per la prima volta in Italia alcune delle opere di Bill Lynch, raccontando il suo lavoro attraverso dipinti e disegni. Il titolo della mostra, By my rock in Central Park, è tratto da una poesia dello stesso Lynch, in cui l’artista racconta al suo amico, lo scrittore Michael Wilde, una notte di primavera passata a Central Park ad ascoltare il canto di un pettirosso che all’improvviso accende la sua immaginazione.
Entrando a contatto con le opere esposte nella galleria la sensazione è quella di trovarsi all’interno di una conversazione privata tra l’artista, i soggetti rappresentati e i materiali. Il modo in cui le venature delle tavole di compensato dialogano con la pittura a olio racconta una particolare cura nell’avvicinarsi lentamente, ma in profondità, alle cose che Lynch si trovava davanti. Rimasto quasi sempre nascosto durante tutta la sua attività, il lavoro dell’artista si racconta sottovoce in una mostra che rende partecipe chiunque del dialogo silenzioso tra Lynch e l’arte.
I soggetti che preferiva rappresentare erano soprattutto naturalistici, come nel caso di Senza titolo (Branch, Leaves in Center of Painting), una natura che appare molto viva, per il colore pieno, il tratto marcato e per il gioco di intrecci che la figura crea con le striature del legno; nei dipinti ci sono anche le visite dell’artista al museo, che si traducono nella rappresentazione di un vaso e una statuetta in Senza titolo (Vase and African Statue), come una serie di appunti presi durante un pomeriggio tra le sale di una collezione.
La delicatezza nell’approccio al soggetto è ben visibile nei disegni, allestiti nella galleria vicini tra loro, come se ci si potesse trovare davanti alle pagine di uno dei quaderni su cui l’artista tracciava i suoi schizzi. I disegni raffigurano piante, uccelli, erba, statue, con un tratto leggero dato dall’utilizzo delle matite conté, che con la loro resa “pastellata” donano ai disegni un tocco onirico, che rende visibile la spontaneità ricercata dall’artista per le sue opere.
In una delle lettere inviate all’amico Michael Wilde, Lynch dice che dipingere può far male come sbattere la testa su un muro di mattoni: un po’ come se la leggerezza ottenuta nel tratto e nelle figure dei suoi lavori fosse il frutto di uno sforzo intenso – quasi doloroso – che si restituisce al mondo esattamente come un respiro affannato si scioglie in un sospiro di sollievo. È questo che permettono le opere di Lynch: connettersi a loro significa tirare fuori l’aria dai polmoni, ritrovandosi accanto a lui sulla sua roccia di Central Park ad ascoltare il canto di un pettirosso.