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Simone Berti, CAMPOSTABILE, Stanislao Di Giugno, Genuardi/Ruta, Gianfranco Maranto, Giuseppe Pietroniro e Alessandro Sarra sono gli artisti invitati da Daniela Bigi per il nuovo progetto della Fondazione per l’Arte di Roma. La mostra, dal titolo “La struttura alare del calabrone, in relazione al suo peso, non è adatta al volo, ma lui non lo sa e vola lo stesso” – una frase attribuita forse erroneamente a Albert Einstein – parte proprio dall’immagine che lo stesso titolo suggerisce: “un goffo volo, pensiero logico, sentimento volitivo, e?lan poetico. Nessuna specifica riflessione di ordine scientifico, nessun riferimento ad attivita? di natura psicologica, cui pure sembrerebbe rimandare. Solo un’immagine atta a restituire la temperatura di un progetto.” La mostra è visitabile fino al 20 ottobre 2016.
Seguono alcune domande alla curatrice Daniela Bigi.
ATP: Partiamo dalla Fondazione per l’Arte. Come si inserisce questa mostra con il programma scorso e con quello futuro della Fondazione?
Daniela Bigi: Si tratta di un ampliamento del programma precedente e in qualche modo di un’apertura verso una modalità operativa che si affiancherà alle altre che stiamo mettendo in campo, ovvero progetti di residenza e produzione per artisti italiani e stranieri, mostre di natura monografica e dialoghi di vario tipo intorno a questioni di attualità. Attualità del pensiero dell’arte intendo, non attualità di ordine politico-sociale, che sono sempre più convinta non possa essere trasferita, tout court, dentro la sfera artistica, come è stato fatto ripetutamente, e in modo talvolta anche semplicistico, negli ultimi quindici/venti anni. Il processo dell’arte è estremamente più complesso, meno didascalico, sicuramente più lento e spesso meno visibile… In questi anni di evidente trasformazione e di “liberalizzazione” rispetto a cliché post concettuali spesso inariditi e epigonali, c’è un entusiasmo diffuso e un dibattito molto intenso tra gli artisti.
ATP: Il titolo è molto accattivante: “La struttura alare del calabrone, in relazione al suo peso, non è adatta al volo, ma lui non lo sa e vola lo stesso”. Dove è nata l’idea di questo titolo e che relazione ha con il taglio concettuale della mostra?
DB: Il titolo lo ha suggerito uno degli artisti invitati, Alessandro Sarra, che è riuscito ad interpretare sia quello che intendevo dire con questo progetto, sia il desiderio di leggerezza che maturavamo mentre costruivamo tutti insieme la mostra e ragionavamo su questioni tutt’altro che leggere, che avevano a che fare con il dialogo tra generazioni che si susseguono, con il rintracciare le radici di certo pensiero italiano legato all’astrazione, con l’estensione e l’inclusività di un modo storicamente sedimentato di intendere la pittura, con la riflessione sul portato mediterraneo in seno alla cultura europea, e molto ancora.
La frase è stata attribuita ad Albert Einstein, ma forse lui non l’ha mai scritta… E comunque, nell’accoglierla come titolo, non mi interessavano né le ragioni scientifiche né le proiezioni psicologiche che portava con sé. Per me era il pretesto per sintetizzare un’idea di progetto che sulla carta poteva anche non funzionare, che sembrava evocare un volo goffo. E mi piaceva poter tentare questo volo, verificare concretamente la possibilità di un dialogo tutto interno alla condizione espositiva, che riguardasse strettamente le opere e gli orizzonti di pensiero entro i quali erano state formulate, in una tensione fra le differenti posizioni che permettesse di raggiungere una visione sincronicamente accordata.
ATP: Gli artisti invitati, a colpo d’occhio, sono tutti amici, o meglio, sono artisti che hanno condiviso in passato molte esperienze professionali affini; alcuni sono della stessa città, altri provengono da altre parti. Su che basi li hai selezionati?
DB: Si, è così. L’idea di fondo era quella di lavorare su alcune contiguità. Anche sentimentali oltre che formali. Lo trovo un fattore determinante per l’arte, lo è sempre stato. Nell’acquisizione di un habitus comportamentale globalizzato, ci ritroviamo sempre più frequentemente di fronte a scenari progettuali privati di quella componente essenziale che appartiene profondamente all’arte, agli artisti, ovvero il loro mondo di riferimento, la loro relazione effettiva e affettiva con le persone, le cose, i luoghi… Simone Berti, Stanislao Di Giugno, Giuseppe Pietroniro, Alessandro Sarra hanno legami di amicizia e hanno condiviso diverse esperienze, come tu sottolinei. Mi sembrava interessante verificare oggi se la loro vicinanza di percorsi e di scelte potesse esprimere una dimensione di lavoro che li vedesse ancora in sintonia. E se sì, intorno a quali valori, quali istanze. Sono arrivata a loro partendo, in realtà, da tre giovanissimi che si sono formati presso l’Accademia di Palermo con i quali ho lavorato di frequente negli ultimi tempi (l’ultima occasione è stata una mostra a Catania presso la Fondazione Puglisi Cosentino) e che con Gianna Di Piazza e Toni Romanelli abbiamo seguito da vicino all’interno dell’Osservatorio dell’Accademia, un luogo di ricerca e di confronto di forte vitalità. Anche tra loro, come tra gli altri quattro artisti in mostra, c’è stata una condivisione di esperienze espositive e soprattutto una vicinanza nelle riflessioni, negli interrogativi, una pratica costante dello scambio e della verifica intorno al fare. Dal loro modo di intendere e di esplorare i territori della geometria, della pittura astratta, dal loro indagare certi materiali e certi processi (da quelli essenziali come il ferro, la carta, la stoffa, a quelli immateriali, alle immagini della rete, ai risultati dei motori di ricerca, alla progettazione in 3D), ho sentito la curiosità di risalire un po’ indietro nel tempo e provare a cercare una continuità di interessi con la generazione che li ha immediatamente preceduti.
Sulla base di alcune opere viste di recente, è stato abbastanza naturale avvicinare queste due realtà, geografiche, anagrafiche, artistiche, sentimentali. E mi ha stupito il trovare molti più punti di tangenza di quanti non ne avessi ipotizzati. Così la riflessione ha cominciato ad inoltrarsi dentro la necessità, che mi pare sempre più diffusa, di rileggere la nostra storia italiana e parallelamente di costruire una nuova storia, ampliando la ricerca delle radici, superando certe strettoie storiografiche, a partire proprio da quanto i giovanissimi stanno esprimendo con immediatezza e come urgenza. A partire dal Mediterraneo. Lo stesso mare al quale stanno di nuovo rivolgendo lo sguardo i giovani filosofi.
ATP: Per entrare nel merito delle opere. Sono state prodotte per questa mostra o le hai scelte seguendo il tuo taglio curatoriale?
DB: Nella maggior parte dei casi sono state prodotte per la mostra. In particolare Genuardi/Ruta e Gianfranco Maranto hanno risieduto in Fondazione e hanno lavorato a una gran quantità di progetti. Campostabile, Simone Berti e Alessandro Sarra hanno realizzato un’opera ad hoc, pensando proprio a questo spazio, ma assolutamente dentro una ricerca personale condotta autonomamente. Non ho avanzato alcuna richiesta, non c’era alcun input da parte mia. Mi interessava giocare proprio in assenza di input. Stanislao Di Giugno e Giuseppe Pietroniro, invece, avevano queste opere in studio – quelle di Giuseppe erano addirittura inedite, stavano decantando – ed erano esattamente la pedina che cercavo per avvalorare l’ipotesi di partenza.
ATP: Mi racconti brevemente il “racconto” che sta alla base del percorso espositivo?
DB: E’ un racconto a tratti esplicito, a tratti più nascosto. Puoi visitare la mostra partendo da qualsiasi punto. Non c’è inizio, non c’è fine. E’ tutto giocato sulla corrispondenza interna tra le opere. Ci sono alcuni temi visivi che, volendo, potremmo trasformare in termini narrativi. Prendiamo ad esempio un tema strutturale come quello della tensione. Si potrebbero leggere tutti i lavori sulla scorta di questa idea guida. Oppure potremmo entrare dentro la questione della percezione, trovando in quel caso altri elementi di relazione, altre chiavi di accesso alle ragioni delle singole opere. Ma ce ne sono diversi altri. Il senso della mostra risiede proprio nella loro lenta individuazione.
Si tratta di argomenti che solo in apparenza possono essere confinati entro la sfera della pittura, e che solo uno sguardo superficiale potrebbe ascrivere esclusivamente all’universo del fare e delle sue problematiche. Credo che la lunga esperienza moderna abbia ancora molto da dirci al riguardo.