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Biennale Foto/Industria 2015 — Bologna

[nemus_slider id=”48955″] Non è facile sintetizzare il percorso che si snoda nelle undici sedi bolognesi e al MAST, la Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia. La Biennale di Fotografia Industriale, inaugurata gli inizi di ottobre (e visitabile fino al 1...

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Non è facile sintetizzare il percorso che si snoda nelle undici sedi bolognesi e al MAST, la Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia. La Biennale di Fotografia Industriale, inaugurata gli inizi di ottobre (e visitabile fino al 1 novembre) si presenta come un denso percorso che attraversa stili e tecniche fotografiche, periodi storici, concetti che stanno alla base della vita industriale, mutamenti epocali nella concezione del lavoro tra il XX e il XXI secolo. Ma anche implica un diverso modo di fruire le opere fotografiche, allestite in spazi della città di Bologna spesso sconosciuti agli suoi cittadini. I luoghi coinvolti sono: Fondazione del Monte, Santa Maria della Vita in via Clavature, Spazio Carbonesi, Villa Delle Rose, Museo e Biblioteca della Musica in Strada Maggiore, Casa Saraceni in via Farini, Palazo Pepoli, Museo di Palazzo Poggi, Museo della Storia di Bologna, il Mambo e la Pinacoteca Nazionale in via Belle Arti. Oltre alla eterogeneità di luoghi espositivi, dalla forte valenza storica a luoghi più asettici come i muse d’arte contemporanea, si somma la varietà di fotografi invitati alla Biennale:  artisti di grande fama, ritrattisti, reporter, fotografi d’industria, giovani professionisti accanto ad autodidatti.

L’ampiezza del progetto, la complessità tematica, le implicazioni sociali, la varietà e eterogeneità del linguaggio espressivo della fotografia, fa della Biennale Foto/Industria una composita macchina scenica dove, come a stato spesso ribadito il Diretto Artistico Francois Hébel, ad essere messo in evidenza è soprattutto il concetto di produrre, “una parola che che accomuna tutto il mondo del lavoro, che si applica tanto alla sfera materiale quanto a quella immateriale.” Produrre, parola dalle implicazioni semantiche decisamente accattivanti – composta da pro-, avanti, e dùcere, trarre; porre o mettere avanti, dar frutto, generare -, legate e relaziona tanti altri temi, da quello della produzione (parola strettamente legata al mondo industriale), fino a espandersi ai concetti di creazione e riciclo. Lo sviluppo consequenziale al significato del produrre, ha connotato, dunque, l’intera Biennale, suddivisa da Hèbel, in capitoli che riuniscono le mostre: produzione, post-produzione, produttori, pausa e prodotti.

Aprono per molti versi la rassegna David LaChapelle e Hang Hao: il primo immortalando dei modellini fantasmagorici di impianti petroliferi, caratterizzata da colori squillanti e artificiali, che ad una prima occhiata ingannano sembrando vere costruzioni produttive, se osservati bene, invece, tradiscono la loro natura artefatta che mostra cannucce, spungnette abrasive e lattine vuote che fungono da tubi, silos e conduttori; il secondo, invece, raccoglie delle maniacali collezioni di oggetti scansionati quotidianamente. Entrambe riflessioni sulla falsa attrattive delle icone consumistiche del XXI secolo, le loro immagini raccontano – e illudono – gli osservatori grazie all’accumulo, al maniacale perfezionismo, alle seducenti superfici colorate e perfette.

Hong Hao Le mie cose n. 7,   2004 © Hong Hao courtesy Pace Beijing
Hong Hao Le mie cose n. 7, 2004 © Hong Hao courtesy Pace Beijing

Il capitolo sulla produzione presenta tra fotografi molto diversi per generazione, tematiche e stili fotografici: Edward Burtynsky con “Paesaggi Industrializzati”, O. Winstor Link con la serie “Nortfolk and Western Railways” e Luca Campigotto con “La Poesia dei Giganti”. Edward Burtynsky è presente con un lavoro video “Paesaggi Industrializzati” nella sontuosa cornice di Palazzo Pepoli Campogrande. Il video raccoglie una lunga serie di immagini che raccontano l’impatto dell’azione dell’uomo, e in particolare i spesso nefasti risultati dello sviluppo industriale nell’ambiente. Cave di marmo – Carrara, Vermont, Bencatel (Portogallo) – campi petroliferi – Mckittrick (California), Baku (Azerbaigian) – ma anche discariche di pneumatici in California e zone dove affiorano residui di nichel nell’Ontario, aree di demolizioni di nave in Bangladesh, sabbie bituminose dell’Alberta… “terre desolate” e devastate, tristissime, riprese senza la presenza del “piccolo” essere umano, che sembra essere fuggito o, peggio, estinto. A queste visione di una realtà distopica, seguono le grandi fotografie di Luca Campigotto, ospitate negli spazi dello Spazio Carbonesi che, invece, si è concentrato sulle realtà portuali di Marghera, Genova e Venezia. Visioni che mostra mastodontiche navi da trasporto merci, inquietanti per mole e cupezza: le immagini, infatti, sono state riprese per lo più di notte, il che trasforma le grandi imbarcazioni in imponenti presenze che lasciano pochissimo spazio all’orizzonte, luogo dell’essere umano, fattosi minuscolo e fragile. Tutt’altre visioni quelle presentati alla Casa Saraceni in via Farini, da O. Winston Link (1914 – 2001), fotografo appassionato di locomotive a vapore tanto da farne il principale soggette delle sue immagini. Link amava vedere le locomotive fare irruzione nel paesaggio, facendo da sfondo a scene di vita familiare, a drive-in, a cene all’aperto; per i suoi scatti ha adoperato potenti flash che illuminavano la scena come in un set cinematografico. Non sapendo naturalmente in quale momento la locomotiva sarebbe stata fissata sulla pellicola, ha scattato ben 2400 immagini di grande formato utilizzando fino a quaranta fonti di luce, mettendo così a punto nuove tecniche. Per spiegare la sua scelta di fotografare di notte, diceva: «Non posso governare il sole, che non è mai al posto giusto e ancor meno posso spostare i binari, ho dovuto quindi costruire io stesso il paesaggio e scolpirlo con la luce».

Torna all’uomo al centro della scena nel capitolo Produttori con le fotografie di Pierre Gonnord “(Altri) Lvoratori”, Neal Slavin “Ritratti di Gruppo e Gianni Berengo Gardin con la serie “L’uomo, il lavoro, la macchina”. Anche in questo caso, lo stile e l’approccio fotografico, non potrebbe essere più distante. Dai ritratti intimisti che Pierre Gonnard dedica agli ultimi minatori di carbone delle Asturie (Nord della Spagna) – stremati e quasi deformi dalla fatica – ma anche raccoglitori di olive, uva e frutta nei latifondi iberici alle foto corali di Neal Slavin, definito un rivoluzionario della foto di gruppo. Il suo registro visivo, del tutto originale, è stato messo al servizio di rappresentazioni reali legate all’esercizio di professioni e mestieri, con una particolare attenzione ai personaggi, dando loro una presenza e un’identità e non soltanto una collocazione. La realizzazione di queste foto è degna a volte di una produzione cinematografica, prassi che da allora si è molto sviluppata, ma che era ben poco diffuso quando Neal Slavin inventava il suo stile. Discorso a parte merita Gianni Berengo Gardin che dedicata ai lavori italiani scatti dalla forte umanità. Come scrive Giovanna Calvenzi nel testo in catalogo: “Nella sua fotografia industriale nessuna eco della fascinazione per meccanica e tecnologia della quale erano vittime consapevoli autori come Albert Renger-Patzsch o Làszlò Moholy-Nagy. Per Berengo le macchine sono strumenti di lavoro, elementi grafici che fanno da sfondo o interagiscono con la fatica degli operai, con i gesti ripetitivi, con il desiderio che il turno finisca, ma anche con l’orgoglio di un lavoro ben fatto, con il piacere della manualità, con la consapevolezza sociale di vivere un destino comune. Con identica empatia il racconto del lavoro di Berengo passa dall’Olivetti di Ivrea all’Ansaldo di Genova, dalle acciaierie di Dalmine alle fabbriche di tessuti del mantovano. Sono in prevalenza immagini che rispondono a incarichi professionali, realizzate tuttavia in totale libertà narrativa, nelle quali Berengo riesce sempre a coniugare il suo sguardo poetico con le necessità dell’informazione.”

Pierre Gonnord Vengador,   2014 Courtesy of the artist and of the Gallery Juana de Aizpuru
Pierre Gonnord Vengador, 2014 Courtesy of the artist and of the Gallery Juana de Aizpuru

Non poteva mancare un capito della Biennale dedicato alla “pausa”. In questa sezione sono ospitate le toccanti immagini di Jason Sangik Nok, chirurgo specializzato in oncologia dalla forte passione per la fotografia. La serie “Biografia del Cancro” ospitata a Villa delle Rose presenta delle foto in perfetto equilibrio tra freddezza scientifica e profonda empatia umana. Diari, racconti, documentazioni mediche: una archivio che si fa di una delle malattie più temute e scongiurate del genere umano. Di tutt’altro segno e la raccolta di piccole immagini di Kathy Ryan, “Office Romance” allestite negli spazi del Museo internazionale e biblioteca della Musica in Strada Maggiore. “Tutto è cominciato un pomeriggio quando ho visto una saetta di luce lungo le scale del ‘New York Times Magazine’. Allora, ho preso il mio iPhone e ho scattato una foto. E poi ho cominciato a vedere immagini di continuo, il mio ufficio era pieno di incredibile bellezza e poesia.” Iniziato quasi per gioco, l’archivio di immagini scattate con il suo cellulare, documenta con immagini molto belle la vita d’ufficio nella redazione del New York Times. Giochi di luce, ritratti, atmosfere: le fotografie sembrano interrompere un documentario dai toni molto poetici, di lunghe pause, giochi di luce, momenti di intervalli dal flusso frenetico del lavoro.

L’ultima sezione della Biennale è dedicata ai “prodotti”. Sono stati scelti due fotografi del secolo scorso, Hein Gorny, autore di fotografie industriali e commerciali della Germania degli anni ’30 (Ospitato al Museo di Storia di Bologna con la serie “Nuova oggettività e industria – Collection Regard”) e il francese Léon Gimpel, sperimentatore e precursore di un immaginario fotografico fatto di suggestioni luministiche di forte impatto e suggestione. La sua densa storia professionale culmina nel 1904, quando incontra a Lione Auguste e Louis Lumière che hanno appena reso noto all’Accademia delle Scienze lo stato delle loro ricerche sulla fotografia a colori. Il procedimento messo a punto dai fratelli Lumière, l’autocromo (la tecnica consiste nel sovrapporre due scatti diversi, uno effettuato al crepuscolo e l’altro in piena notte allo scopo di restituire l’atmosfera e l’illuminazione notturna in tutta la loro potenza), richiede un lungo tempo di posa, il che limita il suo utilizzo a soggetti statici. Gimpel fa suo questo procedimento e ritorna ai generi classici del paesaggio o della natura morta. Aiutato da Fernand Monpillard, anche lui membro della Société française de photographie, modifica le lastre in commercio e riesce a realizzare istantanee a colori. Gimpel diventa così l’unico fotografo in grado di riprodurre a colori le scene di vita della Belle Epoque. In mostra, nelle meravigliose sale decorate del Museo di Palazzo Poggi, possiamo osservare le piccole immagini di una Parigi d’altri tempo, splendente e meravigliosa nelle visioni notturne di Gimpel che sembra disegnare la capita francese con dei neon colorati.

Le?on Gimpel Luminarie delle Galeries Lafayette,   Parigi,   1 dicembre 1933 Courtesy of the Collection Socie?te? franc?aise de photographie (SFP)
Le?on Gimpel Luminarie delle Galeries Lafayette, Parigi, 1 dicembre 1933 Courtesy of the Collection Socie?te? franc?aise de photographie (SFP)

Molto più fredda è la visione ‘industriale’ del tedesco Hein Gorny, nella serie ospitata al Museo della Storia di Bologna. Coniugando le influenze del movimento Nuova Visione – che esplorava i limiti estremi del visibile con un approccio sperimentale alla luce e ai materiali – con i diktat dei i fotografi della Nuova Oggettività che invece consideravano le innate, specifiche qualità della fotografia essenziali per una rappresentazione del mondo che fosse obiettiva, Hein sviluppa un particolare stile nel riprendere i prodotti industriali di aziende come la Pelikan, Bahlsen e Rogo. Biscotti, collant, matite colorate, bobine di carta, colletti, puntini: nell’immaginario di Gorny gli oggetti sembrano quasi perdere la loro funzione e priorità per diventare forme astratte dal forte valore compositivo e strutturale.

Finito il lungo giro in lungo e in largo per Bologna, l’ultima tappa è il MAST, che ospita i finalisti del concorso GD4Photoart 2015: Óscar Monzón (vincitore) , Marc Roig Blesa, Raphaël Dallaporta e Madhuban Mitra e Manas Bhattacharya. Per approfondimenti

Oltre all’esito del Concorso. Il MAST ospita l’interessante mostra “Dall’Album al Libro Fotografico. Spiega Urs Stahel, Curatore PhotoGallery MAST: “Prima è venuto l’album, poi l’opuscolo, infine il libro: nel corso degli ultimi cento anni, le industrie hanno fatto sempre ricorso alla stampa per sostenere e promuovere la propria attività, sia sotto forma di album, sia come dépliant e opuscolo pubblicitario o anniversary book. I 50, 100 o 150 anni di vita di un’azienda venivano spesso celebrati con sfarzose pubblicazioni rilegate sulla propria storia. Immagini e testo erano i garanti dei risultati ottenuti, del successo e della prosperità di un’impresa.Con i suoi 120 libri pubblicati da varie industrie italiane, la mostra illustra l’uso della fotografia nelle opere a stampa e, contemporaneamente, offre una panoramica sulla fotografia industriale italiana e la storia dell’industria in Italia.. Le molteplici videoproiezioni delle pubblicazioni consentono inoltre al pubblico di sfogliare i libri virtualmente. Le opere esposte provengono dalla collezione milanese di Savina Palmieri. L’esposizione è corredata di un testo critico introduttivo a cura di Cesare Colombo.”

O. Winston Link Maud si inchina al Virginia Creeper,   Green Cove,   Virginia,   1956 © The Estate of O. Winston Link,   courtesy Robert Mann Gallery
O. Winston Link Maud si inchina al Virginia Creeper, Green Cove, Virginia, 1956 © The Estate of O. Winston Link, courtesy Robert Mann Gallery