Testo di Vania Granata —
All’interno di una gabbia tre avvoltoi si muovono rapacemente. Li sentiamo gracchiare e beccarsi minacciosi alle nostre spalle, sono sopra di noi; a terra gli orribili residui di carni animali del loro pasto.
Repentinamente siamo trasportati in alto; molto in alto, quasi troppo. Sorvolando le baracche di una periferia degradata e ostile, il nostro occhio entra fin dentro gli interni sgangherati ed intimi di una comunità gitana ivi stanziata. Qui, un coro Rom di attori improvvisati recita al medesimo tempo la sua vita odierna e un dramma antico: esilio e ricerca di un luogo dove radicarsi, dove poter morire ed essere sepolti. In barba alle regole, alle istituzioni, agli dei. Tra essi, un uomo accompagnato da una ragazza bionda narra la sua stessa tragedia: è Edipo, ormai vecchio e cieco.
È così, tra claustrofobia e vertigine, che si apre il video in realtà virtuale Oedipus in search of Colonus di Loukia Alavanou. Visual artist e filmaker nata nella Grecia post-dittatoriale, vincitrice di numerosi premi nazionali e internazionali, è lei l’unica rappresentante del Padiglione Greco per la 59ª Biennale d’Arte a Venezia. Uno dei tesori nascosti in questa edizione, secondo il nostro parere.
La sua opera, esplorando criticamente degli spazi di contraddizione delle attuali politiche ed economie globali, attualizza e ridispone nel territorio di una discarica alla periferia di Atene – oggi villaggio stanziale di una comunità Rom (Nea Zoi ad Aspropyrgos) – la trama tragica dell’Oἰδίπoυς ἐπὶ Κολωνῷ di Sofocle.
Non è però solo di vedere un filmato che si tratta. La ricerca che l’autrice mette in campo e i riferimenti cardine della sua poetica camminano sempre in direzione opposta alla seduzione della facile esposizione da galleria proponendo agli spettatori un iter programmaticamente studiato in ostilità alle dinamiche e ai tempi brevi del consumismo culturale che contempla già una lunga attesa in fila prima dell’accesso.
Come acutamente osserva il curatore Heinz Peter Schwerfel infatti, alle poche postazioni previste si deve aggiungere la scelta di un medium (il visore Oculus Virtual Reality) tecnologicamente desueto ed inappropriato alla fruizione collettiva del video, la cui reiterata disinfezione riduce drasticamente l’accessibilità all’opera imponendo al pubblico misure sanitarie aggiuntive a quelle già previste dai nostri tempi post-lockdown.
A volte però vale la pena aspettare.
Appena entrati si fa fatica a capire dove siamo; la sala del padiglione greco accoglie al buio, destabilizza con nuovi spazi che ne contraddicono la forma esterna. Al suo interno l’artista ha ricavato quattro cupole emisferiche dotate di un sofisticato sistema hi-tech di insonorizzazione e canalizzazione del suono dove spot a cono di luce rovesciato localizzano speciali sedute verso cui veniamo accompagnati ad accomodarci.
Nella penombra di questo spazio rivisitato (frutto della cooperazione tra l’autrice, Studio AREA e Dimitris Korres) ispirato al Pantheon e alle geodesic domes dell’architetto americano Fuller, Loukia Alavatou crea un collegamento virtuale – dall’antichità al futuro – con la trama del video.
Un allestimento dalla complessità stratificata che rappresenta, inoltre, il tributo dell’autrice al visionario e poco noto progetto di Takis Zenetos. architetto greco autore dell’urbanismo-elettronico che, già negli anni Sessanta, prevedeva l’uso di tecnologie immateriali in architettura, urbanistica ed interior design al fine di favorire il passaggio e la coesistenza tra dimensioni individuali e collettive di un’utopica comunità virtualmente interconnessa.
A questo ampio contesto di ricerca vanno quindi ricondotte le particolari poltrone-postazioni-video su cui ora sediamo: lettini girevoli con una peculiare barra curva all’altezza delle spalle cui potersi aggrappare per ruotare il proprio corpo a 360 gradi.
Mentre siamo parzialmente immobilizzati su queste attrezzature ergonomiche, possiamo iniziare il nostro viaggio verso Colono/Nea Zoi; un percorso immersivo e sospeso nella realtà virtuale straordinariamente abbinato alla peculiare conformazione delle sedute che, non permettendo di poggiare i piedi a terra, moltiplica il nostro grado di immedesimazione.
Finalmente qui, tra i rifiuti e il degrado della periferia ateniese, siamo spettatori ed attori del cortometraggio/farsa/thriller/documentario/slapstick-comedy di Loukia Alavanou che accoglie e narra le istanze della collettività tzigana testimoniandone la volontà di smentire il proprio destino errante – reo innocente di un nomadismo atavico, come innocente era Edipo – in perenne contrasto con le istituzioni greche. Dalla particolare vicenda Rom all’universale tragicità infatti, il negato diritto a stanziamento e sepoltura implica il mancato riconoscimento della propria libertà e della propria dignità come individui.
In questa precisa ottica, la sovrapposizione tra dramma antico e modernità assume i connotati di una potente attualizzazione critica, e politica, dell’incolpevole esilio di Edipo e del suo predestinato errare da Tebe sino alla sacra città di Colono che, come Nea Zoi oggi, assume il senso di eletto luogo di appartenza e destinazione finale cui poter liberamente consacrare la propria morte.
Anche contro il volere degli dei.