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Behind the ink – Every tattoo has a story | Intervista con Micol Di Veroli

E’ in corso  fino al 3 dicembre 2022 presso Enav Cultural Center and City Garden a Tel Aviv Yafo – nell’ambito della 10a edizione del festival fotografico Photo Is:rael in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura di Tel Aviv –...

Roni.Mo
Roni.Mo

E’ in corso  fino al 3 dicembre 2022 presso Enav Cultural Center and City Garden a Tel Aviv Yafo – nell’ambito della 10a edizione del festival fotografico Photo Is:rael in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura di Tel Aviv – la mostra Behind the ink – Every tattoo has a story.
A cura di Micol Di Veroli, il progetto mette in dialogo le opere fotografiche di Paolo Cenciarelli, Michal Chelbin, Guido Gazzilli, Angelo Marinelli, Roni.Mo e Yael Shachar.
Seguono alcune domande alla curatrice. 

Elena Bordignon: Nell’introdurre la mostra di fotografia Behind the Ink, racconti il tatuaggio in una prospettiva identitaria. Più di quello che sembra, il tatuaggio coinvolge sicuramente l’identità, ma anche molto altro. In questo viaggio attraverso la fotografia, cosa hai scoperto di questa pratica? 

Micol Di Veroli: Il corpo tatuato è diventato un confine e un crocevia tra le dimensioni dell’interiorità e dell’esteriorità, tra l’estetica e la rappresentazione di sé. I tatuaggi infatti sono una particolare forma di lotta per andare al di là del convenzionalmente permesso, per sentire qualcosa di forte. Il tatuaggio è anche attestazione di un dolore subito, di un viaggio compiuto, dei tempi che cambiano. In questo senso, il dolore può venire compreso sia come un inevitabile correlato dell’esperienza del tatuaggio, sia come qualcosa di profondamente significante all’interno di questa pratica, a volte arrivando addirittura a superare l’importanza del tatuaggio stesso.

EB: La storia e la cultura del tatuaggio hanno radici molto lontane nel tempo, ma solo di recente è stato innalzato a linguaggio artistico. Secondo il tuo punto di vista, perché è da considerare un’arte?

MDV: Negli ultimi anni il tatuaggio è stato innalzato allo stato di arte quanto la pittura e la scultura entrando tra le pratiche artistiche moderne. Musei internazionali hanno dedicato al tatuaggio mostre fotografiche accompagnate molto spesso da eventi in bilico tra la performance e la body art. Una data importante è il 2017 quando le opere del tatuatore italiano Gabriele Pellerone vengono esposte nel tempio dell’arte contemporanea ossia la Biennale di Venezia. È interessante vedere le evoluzioni di questa forma artistica, i tatuatori da esser considerati degli artigiani oggi sono considerati artisti esperti, pittori che creano e plasmano la pelle, artisti che raccontano la società e l’habitat che ci circonda.

EB: La selezione di fotografi in mostra raccontano vere e proprie storie legate ai tatuaggi. Ce ne racconti alcune di particolarmente significative?

Michal Chelbin presenta un ciclo di fotografie sulle prigioni in Russia ed Ucraina e quello che si può notare è che sono carceri atipiche, non le prigioni che immaginiamo dai film, ma piuttosto vediamo stanze ricoperte da carte da parati floreali addobbate da icone religiose con i ritratti di uomini, donne ma anche bambini incarcerati che indossano abiti da casa. Non sembra che stiano soffrendo o che stiano scontando magari l’ergastolo. Con questo lavoro Michal Chelbin ha sollevato molte domande sulla natura della colpa, del crimine e della punizione. La scelta di queste fotografie per la nostra mostra è nata perché mi interessava la simbologia del tatuaggio siberiano. Ogni simbolo è considerato come un trofeo da sfoggiare ed è intrecciato ad un altro. Osservando i tatuaggi da vicino si possono quasi leggere come una storia, capire le origini della persona, riconoscere tutte le sue azioni e identificare il suo valore all’interno della società. Nessun detenuto sceglie il tatuaggio ma è il tatuaggio siberiano a scegliere il suo portatore.
Nove anni fa, Roni Morag ha creato Roni.mo, un account Instagram in cui presenta autoritratti del suo corpo o di parti di esso. Tutto è iniziato dopo un incidente, che l’ha costretta ad essere creativa pur non riuscendo a muoversi. Lo sguardo di Roni.mo si concentra sul corpo femminile così com’è, ha utilizzato il suo corpo come se fosse una tela da dipingere e nel corso degli anni il suo corpo si è coperto di tatuaggi. Le sue fotografie, che per la prima volta escono dal mondo virtuale dei social, si muovono avanti e indietro tra le opposizioni, tra il mondo domestico e quello esterno, tra l’inconscio e il confortante, tra l’erotismo e il pensiero.
L’opera di Angelo Marinelli è in bilico tra sacro e profano, tra la fotografia e la pittura. Nel ritratto del giovane con il petto tatuato emerge la volontà di recuperare l’energia benigna della spiritualità accostandola al mondo terreno o più specificamente al mondo naturale. Lo sguardo attento dell’artista restituisce immagini avvolte da misticismo e divengono metafora dell’amore e del sentimento, anche se quest’ultimo è messo a dura prova dall’oblio ossia dalla perdita causata, genericamente, dal passare del tempo tra l’esperienza vissuta e l’atto del ricordo. 

EB: Sono stati coinvolti sei fotografi molto diversi tra loro per stile e formazione. Con quali criterio li hai scelti? Hai riscontrato consonanze e forti differenze tra i fotografi italiani e quelli israeliani? 

MDV: Mi interessava mostrare al pubblico come il tatuaggio fosse diventato una forma di linguaggio contemporaneo ed è per questo che la scelta degli artisti è stata appositamente eterogenea. Ogni artista coinvolto racconta una storia diversa, troviamo esempi di uso del tatuaggio come pratica ancestrale e identitaria o come oggetto di fascino e creazione artistica nell’attualità esplorando così i valori etnologici, antropologici e sociologici di questa pratica.
C’è un forte dialogo tra gli artisti italiani e quelli israeliani: Nelle opere selezionate il concetto di tatuaggio è universale e si parla di culture e sub culture senza distinzione di provenienza. Ad esempio credo che i lavori in mostra di Paolo Cenciarelli o di Guido Gazzilli che descrivono drammaticamente la scena notturna underground romana si affianchino perfettamente alle fotografie di Yael Schachar che documentano la società israeliana nel quotidiano. Ognuno di loro non è necessariamente interessato ad una storia definita che ha un inizio, una parte centrale e una fine ma tutti raccontano i rapporti umani e il clima sociale che sia israeliano o italiano.

Yael Shachar – Robyn, Combat Veteran live with PTSD, 2011