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La mutazione della materia nell’opera di Beatrice Pediconi

[nemus_slider id=”61425″] In occasione della sua seconda mostra alla gallerie z2o Sara Zanin, Beatrice Pediconi presenta un insolito progetto che da titolo alla mostra, Dimensioni Variabili: nove libri, realizzati interamente a mano dall’artista. Altre opere presenti, dei lavori inediti installati a terra e, nella sala principale della galleria, un video di recente produzione che esplicita […]

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In occasione della sua seconda mostra alla gallerie z2o Sara Zanin, Beatrice Pediconi presenta un insolito progetto che da titolo alla mostra, Dimensioni Variabili: nove libri, realizzati interamente a mano dall’artista. Altre opere presenti, dei lavori inediti installati a terra e, nella sala principale della galleria, un video di recente produzione che esplicita l’idea del movimento e della permutazione della materia, legata alla tecnica – tutta in divenire – della pittura ad acqua.

Segue il testo di Lyle Rexer, “Transparency, Blindness, Water” (traduzione di Franco Nasi, in Beatrice Pediconi – Something Alien…, 2016, Danilo Montanari Editore)

Trasparenza, cecità, acqua

Proveniamo da una oscurità che non conosciamo né ricordiamo come oscurità. Velo di questo non sapere è l’acqua interna da cui siamo emersi alla nascita. In quell’istante, e per molti altri momenti successivi, siamo interamente sensazione, e lo sguardo non è ancora sguardo o visione, ma caos di forme, confusione plurima; un eccesso sinaptico che deve essere limitato, diviso, rimosso, fissato se vogliamo passare dal liquido al solido, se vogliamo vedere. Chi può dire quando diventiamo sudditi del regno dello sguardo, quando siamo iniziati attraverso il linguaggio? Il corpo si oppone a questo assoggettamento. Il corpo ricorda cose invisibili, indicibili, che sono però imbalsamate dalle parole, oscurate per sempre dalla falsa trasparenza dello sguardo. Impariamo le regole del vedere. Impariamo le regole del discorso e del pensiero. Sono questi gli strumenti che ci rendono maghi. Chi vi rinuncerebbe per l’oscurità, per la confusione dei sensi, per l’incomprensibilità?

Un fotografo è uno che freddamente registra in due dimensioni un mondo di memorie, appercezioni, sogni, desideri e profonde incertezze. Tuttavia il fotografo cerca dentro il visibile qualcosa che ha perduto, prova a fare apparire qualcosa che lo sollecita oltre ciò che appare, quel qualcosa che non può essere catturato da un’immagine. Immagine dopo immagine, ogni fotografo si assuefà sempre più alla visione, diventa sempre più dipendente da metafore che non sono più secondi termini, come una specie di poesia incompleta. Nelle fotografie, il soggetto che guarda sprofonda nella trasparenza come in una droga, e il mondo diventa un’offerta, un dato, un “questo è” che rimane tuttavia estremamente distante.

Beatrice Pediconi utilizza la Polaroid, la forma più magica e ingannevole di questa offerta, per superare la tirannia del visivo e restituirci la cecità. La Polaroid aveva rimesso in vita la promessa da tempo dimenticata di una trascrizione in un solo gesto (la promessa, fra gli altri, di Daguerre e Bayard). Aveva ridotto la latenza dell’immagine a sessanta secondi, ed aveva promesso risultati ancora più veloci, forse nel futuro anche alla velocità della luce, senza ritardi. Aveva ridotto la distanza visiva e temporale fra l’occhio e il mondo. Aveva reso l’occhio immediato. La versione più recente, veloce e diffusa della Polaroid, la SX-70, aveva ossessionato sia Walker Evans sia Andy Warhol, che la vedevano, anche se in modi diversi, come il nunzio di un nuovo e più ampio regno del visuale, il regno ingannevole dell’immediato in cui ora viviamo. Eppure nonostante questi grandi libri di Polaroid ci facciano ricordare così intensamente, non si è trattato di un processo solo visivo. Hai dovuto iniziare il processo in modo concreto, con la pellicola e le macchine. Hai srotolato nell’aria la pellicola, ancora calda, staccato il positivo dal negativo, e hai osservato l’immagine formarsi. Hai dovuto tu stessa sviluppare la pellicola, con i reagenti chimici che non erano facili da usare. In quel momento, prima che le attese fossero esaudite e si riaffermassero tutte le convenzioni di un’era oculare, un intero corpo senziente, immerso in un’esperienza intensificata dalla promessa di un miracolo, si rifiutava di diventare un osservatore. Anche quando la SX-70 sputava fuori foto che non richiedevano alcun intervento, c’era l’incredibile suono delle fotografie che prendevano forma, come la porta di un garage che si apre verso il futuro.

Nei libri di Beatrice Pediconi recuperiamo l’immediatezza fisica (e metafisica) del non conosciuto. Perdiamo la vista per riacquisire la visione, una visione che trova una corporeità. Da decenni Pediconi ha intuito che il primo luogo per rompere la maledizione della trasparenza è con il soggetto. Con le normali pellicole trasparenti, aveva catturato i motivi dell’inchiostro nell’acqua, e in questo richiamava i maestri giapponesi del sumi-e. Faceva disegni del nulla. Che cosa era questo spazio fluido, organico nel quale ci invitava ad entrare se non un inconscio ottico, lascito del surrealismo, in cui le categorie di base dell’esperienza possono essere riformate? Non c’era alcuna intenzione di formulare programmi sociali, di promuovere un utopistico “nuovo mondo”. Al contrario queste astrazioni portavano a compimento una sfida personale, una sfida che gli artisti affrontano da secoli: Abbandonare il sonno. Pediconi ha reso opaca la trasparenza e, estendendo il progetto al video, ha cercato di far rivivere il senso primordiale di essere nata nell’acqua.

Beatrice Pediconi,   Dimensioni Variabili,   2016,   Installation view at z2o Sara Zanin Gallery Room 3 - courtesy: z2o Sara Zanin Gallery and the artist - photo credit: Dario Lasagni
Beatrice Pediconi, Dimensioni Variabili, 2016, Installation view at z2o Sara Zanin Gallery Room 3 – courtesy: z2o Sara Zanin Gallery and the artist – photo credit: Dario Lasagni

Questi libri raggiungono un risultato ancora più ampio. Non sono interessati al significato metaforico: il loro scopo è rinnovare l’esperienza visiva. La loro origine più vicina risiede in una serie di Polaroid di piccolo formato di acqua e inchiostro che Pediconi ha scattato alla fine della prima decade del 2000. Queste opere sfruttavano in modo evidente il mezzo e le sue possibilità. Astratte e delicate, mettevano in evidenza il carattere antiquario del processo così come traevano vantaggio dal suo prezioso senso di nostalgia: A che cosa assomiglia davvero l’istante? È un’immagine ricca di informazioni su quello che indossavi, su come apparivi, o su dove ti trovavi? Oppure è qualcosa di fluido, portatore solo di una semplice testimonianza, un’esperienza che non potrà mai essere (ri)catturata, ma solo (ri)immaginata? Immaginate la stessa esperienza, vitale e primitiva, all’interno di un libro. Immaginate l’illimitabile (se ci riuscite), vincolato da un libro. Ogni pagina mostra il positivo di una polaroid di grande formato: l’immagine assieme alla cornice di supporto. Quella stampa è un sistema chimico e fisico, ma nello stesso tempo è anche un contenitore. Il processo fotografico è esposto davanti a tutti, come un atto di magia che venisse improvvisamente svelato per mostrare un’operazione assai più coinvolgente e affascinante dell’illusione stessa, in questo caso dell’illusione di un’immagine attesa. Ma questo disvelamento non è messo in scena come critica sociale o per valorizzare il mezzo. Quasi tutti oggi sono consumatori di immagini. Il problema dunque è: possiamo immaginarci un’esperienza alternativa, un risveglio quindi, e non una mera critica, che descrive solo in modo più accurato le pareti della prigione? Nell’atto di Pediconi di demistificare la Polaroid, compare un mistero ancora più fondamentale. Le immagini sono dirette e non manipolate, ma sono illeggibili, travolgenti, liquide, conseguenze di probabili eventi causali. Eppure nello stesso tempo sono troppo dettagliate e complete per essere casuali. Sono contingenti ma necessarie, inquietanti ma attraenti oltre ogni desiderio.

Al “lettore” di questi libri non è permesso leggere, così come all’ “osservatore” delle fotografie non è permesso semplicemente guardare. I libri sono pesanti, tattili, concreti. Emettono un suono quando le pagine vengono girate, alzate e voltate, e ogni pagina ripete un evento inedito, con lo stupore di una nascita. Le immagini sembrano chimicamente fresche; si può quasi sentire il loro odore. Sembra che si siano date da sé stesse la vita, che non provengano da uno strumento tecnico. Non sembrano per nulla fotografie. Eppure la loro provenienza meccanica non è né negata né nascosta. Questo è l’ultimo dei paradossi che presentano, che fisicamente aboliscono i confini fra organico e inorganico, fra ciò che ha forma e ciò che ne è privo. Va da sé che ciascuno di questi libri, così come ciascuna delle immagini che li compone, è unico. Allo stesso modo, ogni detentore del libro è spinto a sperimentare, a modo suo, il dubbio liberatore relativo alle apparenze, la dismissione del velo e una nuova connessione fra l’occhio e il corpo.

Sono libri che vi rendono ciechi di fronte all’ordinario, che vi fanno impazzire per il rammarico di aver perso le meraviglie dei sensi nella convenzionalità; sono libri che, nello stesso tempo, vi guariscono ristabilendo quel ricco disordine, e che vi stimolano a vivere più pienamente in un presente incorreggibile.

Beatrice Pediconi,    Alien #1_oc 2016 B.Pediconi Polaroid 20x25 color - - courtesy: z2o Sara Zanin Gallery and the artist - photo credit: Dario Lasagni
Beatrice Pediconi, Alien #1_oc 2016 B.Pediconi Polaroid 20×25 color – Courtesy: z2o Sara Zanin Gallery and the artist – photo credit: Dario Lasagni
Beatrice Pediconi,   Alien 2016  One Channel video,   dimension variable,   5 min 40” (looped) ,   color,   silent. Ed. 15
Beatrice Pediconi, Alien 2016 One Channel video, dimension variable, 5 min 40” (looped) , color, silent. Ed. 15 – Courtesy: z2o Sara Zanin Gallery and the artist – photo credit: Dario Lasagni