ATP DIARY

Intervista con Riccardo Baruzzi | P420, Bologna

[nemus_slider id=”55254″] Cadere con eleganza. Cadere lacerandosi i legamenti, e istantaneamente alzarsi come se niente fosse successo, senza portare ferite. Questo in parte è il tentativo insito del mio disegnare. Riccardo Baruzzi Questo l’incipit della mostra “Del disegno disposto alla pittura”di Riccardo Baruzz, da poco inaugurata alla galleria bolognese P420 e visibile fino al 4 […]

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Cadere con eleganza. Cadere lacerandosi i legamenti, e istantaneamente alzarsi come se niente fosse successo, senza portare ferite. Questo in parte è il tentativo insito del mio disegnare.

Riccardo Baruzzi

Questo l’incipit della mostra “Del disegno disposto alla pittura”di Riccardo Baruzz, da poco inaugurata alla galleria bolognese P420 e visibile fino al 4 giugno. Tensione e “gioco-forza” tra il disegno e la pittura è ciò che anima il progetto espositivo, sviluppato per allusioni più che sulla certezza della definizione del mezzo espressivo. Anche dalle risposte dell’artista, si evince che il disegno, in quanto tale altro non è che un meta-linguaggio carico di valenze tanto sviscerate nella storia dell’arte ma ancora pieno di enigmatiche rivelazioni.

Alcune domande all’artista.

ATP: Il disegno, il segno e la linea sono gli elementi attorno ai quali ruota la tua attuale ricerca e che ha dato come esito la mostra ospitata alla P420 di Bologna. Aggiungerei anche un altro elemento, la pittura. Che relazione c’è tra il disegno e la pittura, a livello concettuale, nella tua pratica artistica?

Riccardo Baruzzi: Del disegno disposto alla pittura significa che il disegno si rende disponibile alla pittura in modalità di prevalenza. Le va incontro prendendola per mano, perché in questa dimensione si trova spaesata, e senza potere coprente. Il disegno dal tenerla per mano passa con eleganza e velocità al guinzaglio, segnando così una chiara posizione di dominio, conducendola dove vuole e usandola come superficie; oppure espandendola, ma solo all’interno della linea.  

ATP: In merito all’atto del ‘sottrarre’. Premesso che l’arte, tutta, è sempre e comunque rivelazione, come risolvi l’azione del mostrare con quella del sottrarre? Sottrarre significa togliere qualcosa. Sottende, dunque, che qualcosa è stato messo e poi è stato tolto, un po’ come il concetto, tutto scultoreo, di ‘levare’ la materia. Non sarebbe più opportuno parlare di ‘astrazione’ o riduzione in merito alle tue opere?

 RB: Credo di non avere mai parlato di sottrarre, ma la questione mi interessa perché parli di ‘levare’. Diverse volte davanti alle mie opere ho usato il termine elevare, derivazione di levare. Mi interessa rivolgere verso l’alto il pensiero rispetto ai soggetti trattati, in particolare la serie dei placcaggi. Immagini estrapolate da giocatori di rugby durante una partita, nel momento di massima prossimità e fusione tra i corpi. Ammassi di carne, muscoli che si scontrano portando la loro forza e pesantezza nelle mie opere divengono quasi mazzi di fiori: la dinamica tra le figure si traduce in una mappa di rapporti tra colori e toni che si richiamano, contraddicono e sostengono a vicenda.

ATP: Anche se non è importante la ‘figurazione’ è comunque presente nelle tue opere. Forme e silhouette riconoscibili sono, inevitabilmente, poste in dialogo con il processo pittorico. Come relazioni questi due livelli nel processo di gestazione dell’opera?

RB: La linea assomiglia al pensiero e non alle cose: è un rendere visibile l’invisibile. Nel rappresentare c’è un dar-da-vedere, nel raffigurare un far-vedere. Il contorno è l’elemento minimo della visibilità che rende visibile pur essendo in sé invisibile. Il processo di gestazione di un’opera è talmente complesso che se riuscissi a spiegarlo avrei dedicato tutto il tempo solo a quello; una cosa è certa: le “immagini”, o forse meglio dire i mondi, si visualizzano chiari tanto da sentirne l’odore nei pensieri, poi c’è la traduzione in materia. L’interesse del bambino nello smontare il giocattolo è in me, ai miei occhi, il desiderio di trasformare la pittura, con l’idea di prenderne parti, struttura, visione ed elaborarli dall’interno. Da bambino copiavo e elaboravo quelle immagini da cui ero colpito senza però giustificare niente a nessuno e, per così dire, seguendo un piacere retinico. Oggi in parte credo ancora nella stessa operazione, ancora mi accompagnano il gioco dei particolari, la visione del macroscopico, l’estasi dello smontare, l’occhio che fissa e si inumidisce. Qualcosa vi si aggiunge, però: solo qualche piccola menzogna.

ATP: In occasione del Live Arts Week farai una performance sonora in galleria. C’è un legame tra tra tua ricerca pittorica e quella performativa?

RB: Si. Ci sono le mie mani che fanno. Edgar Varèse parlava di “lavoratori di ritmi, frequenze e intensità” mi azzardo a dire che potremmo usare gli stessi termini per leggere un mio dipinto, aggiungendo il termine sfregamento riferito agli strumenti sonori e anche a quelli usati per comporre dipinti. Userò oggetti/strumenti fabbricati con le mie mani che possono prendere anche il ruolo di piccole sculture, nate da una ricerca basata sulla funzionalità fisico/sonora.

Riccardo Baruzzi,   Del disegno disposto alla pittura,   installation view 5 ,   P420,   Bologna photo credit Carlo Favero
Riccardo Baruzzi, Del disegno disposto alla pittura, installation view 5 , P420, Bologna photo credit Carlo Favero
Riccardo Baruzzi,   Quasi quindici chili di grigi,   2016,   matita grassa su olio su tavola : grease pencil on oil on board,   cm.70x60 ciascuno : each (7 tavole : 7 boards) Courtesy P420 Bologna photocredit Carlo Favero
Riccardo Baruzzi, Quasi quindici chili di grigi, 2016, matita grassa su olio su tavola : grease pencil on oil on board, cm.70×60 ciascuno : each (7 tavole : 7 boards) Courtesy P420 Bologna photocredit Carlo Favero
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