Testo di Daniela Zangrando —
Intercetto quasi per caso la comunicazione. Alessandro Sciarroni sarà a Bassano con U. venerdì 26 luglio, per Opera Estate Festival. Leggo qualcosa, ma non voglio sapere troppo. Mi incuriosiscono le informazioni lette in obliquo. Canti della tradizione, repertorio folkloristico. Ricerca sulla coralità. Il mio retroterra musicale freme. Mi basta. Non ho mai assistito dal vivo alle performance di Sciarroni. Ricordo del suo Leone d’Oro alla carriera. «[…] Mette in scena i nostri corpi quotidiani in uno spazio che amplifica l’insistenza a trovare la falla che ci addolcirà e solleverà». Devo andare.
Il palco è scarno. Dei microfoni scendono dal soffitto, ordinati. Entrano sette performer. Sono pura silhouette nera. Si parte. Dietro di loro, a sinistra, compaiono le indicazioni sul canto che sta per iniziare. A destra, alcune frasi tratte dal canto stesso. C’è anche una numerazione, che avvisa che siamo alla traccia 1 di 11. Il libretto di sala lascia intuire un dodicesimo pezzo, un cantico di Sciarroni.
I canti si succedono uno dopo l’altro. Bernardi, De Marzi, Gatti, Susana, … Pian piano le silhouette si fanno corpi, vestiti in bianco e nero. Ogni dettaglio pesa. Degli stivali da neve Moon Boot neri, una maglietta bianca con Kurt Cobain. Il protocollo si ripete, costante. Note di intonazione, ‘presentazione’ del pezzo, canto. Nelle pause tra un brano e l’altro i performer fanno un passo o alcuni passi avanti, chiudono leggermente l’arco in cui sono disposti, portano lo sguardo verso il pubblico, si guardano. Le sonorità sono composte, la timbrica perfetta. Conosco quasi tutte le canzoni. Se vi dicessi che una è proprio la celeberrima “Signore delle Cime”, non sareste pronti a storcere il naso? Peggio per voi. Stupefacente l’incontro di U. con questa melodia, che scorre nelle varianti proposte facendo sussultare le persone sedute in sala. Esecuzione mirabile – ho sentito commentare da una poltrona vicina. Ma non è l’esecuzione a meravigliare. È l’insieme. Ed è fatto di silenzi, del respiro dei performer, dello scricchiolio delle assi del palcoscenico in ogni passo portato lentamente avanti, di tensione sospesa, del tossire di qualcuno tra il pubblico. Di parole e di musica. La ricerca è sofisticata: come non pensare allo sguardo deciso, avanti, durante “Ma dove andate?” o l’insistenza, l’incalzare e la luce piena di “Apri la porta” – entrambe di De Marzi – la bellezza degli sguardi sempre più complici e emozionati dei performer e la loro leggera rotazione verso il centro in “Resterà la luce” di Susana, la chiusura con quel cantico di matrice quasi classica, dedica a U., a You, a te a me, a noi, alle creature della terra? Come non riferirsi allo studio del bacino popolare e delle sue necessità?
Ripensando a U. ho scoperto una cosa che mi piace moltissimo. Le parole che compaiono dietro i performer prima di ogni singolo pezzo sono quasi un intra-testo. Suona così. «Saltate, danzate, correte, cantate. Urlate, ridete, toccate, stringete. Prendete, mangiate, bevete, cantate. Amate la vita. Cerca le parole della poesia, cerca la memoria dei giorni innamorati. Dormono le rose bianche nella siepe della tua casa. E canterà. E canterà più alto delle stelle. E suonerà la cetra all’infinito. Dove andate se non avete cuore? Se non sapete amare? Cosa pensate, se non avete voce per cantare? Il nostro amico, il nostro fratello. Su nel Paradiso lascialo andare per le tue montagne. Sulle colline ti prendo con l’uva più bella. A cogliere il vento, le mani d’amore. Apri la porta e canta la nostra canzone. Amo il profumo che vien dalla tua terra amo la luce e il colore del tuo cielo amo la pace delle tue montagne amo la voce delle tue acque amo i misteri scolpiti sulle rocce. Dolce è sentire come nel mio cuore ora umilmente sta nascendo amore. Dolce è capire che non son più solo. Ambra come il sole, come la luna. Ambra come il sangue della mia terra. Guarda che occhi che ho. Guarda lo sguardo. Con quello, come so, io ti parlo. Resterà la luce a far splendere come perle le nostre lacrime. Per la luce per la morte per il fuoco. Per quelli che perdonano per quelli che sopportano. È per te.»
U. è un canto d’amore. Un cantico d’amore. Qual è il desiderio che esprime? Quale la natura della sua rivelazione? È un desiderio di vita. A tratti una nostalgia di vita, una preghiera. U. è un canto incredibilmente pieno di vita.
Con una chiarezza cristallina, con una tensione sempre sospesa, dà un attimo di tregua al dolore. Espone voracità, forza primigenia ed erotica, carezza. Commozione. Compassione. Una gratitudine profonda, smossa dalla corrente dell’oggi e raccolta nel petto.
Sono tornata al mondo senza il bisogno di dire albero, stella, prato, essere umano, animale, lacrima. Senza chiamare e nominare, toccata a fondo dalle sporgenze dei corpi, dalle prominenze dei sentimenti in intimità col prossimo, con l’ordinario e la sua umile origine. Senza resistenza. Con la sensibilità pronta ad appoggiare la guancia. Lavata. Addolcita, e senza necessità di mentire a riguardo. Negli applausi, ho sentito vibrare l’aria. «Dammi ancora una nota, una soltanto!» – gridava la mia mente. Dammene una rotonda, naturale, nuda, spontanea, vera. Lasciami vivere in questo istante, ancora.
Rientrando a casa, si son fatte largo delle frasi di Giorgio Agamben. «Da Epicuro e da Fallot, che del piacere è importante solo la sua misura minima, quella che coincide col limite inferiore della sensazione, la semplice, giornaliera sensazione di esistere. Destarsi al mattino con questa minuscola gioia e sentire da essa chiamare, a bassa voce, l’amicizia.»
Aggiungerei alla motivazione di quel Leone d’Oro che Alessandro Sciarroni sospende la sensazione d’essere inconsolabili. Fa persistere al mondo e alla natura. A qualcosa di semplice che viene troppo spesso ignorato, frainteso, osteggiato, sminuito. Grazie.
U. (un canto) Alessandro Sciarroni
22 – 24 novembre 2024 – Triennale di Milano
Durata 60′
Lo spettacolo del 22 novembre sarà seguito da un incontro con Alessandro Sciarroni, Aurora Bauzà e Pere Jou, con un focus sul rapporto memoria-tradizione e uomo-natura.