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Augmented Images | Intervista con Irene Fenara

Intervista di Sara Benaglia e Mauro Zanchi Sara Benaglia e Mauro Zanchi: Lo scorso 8 febbraio ha inaugurato la tua mostra personale Grandi Lucenti da ZERO… Come sei giunta alla sintesi estetica e concettuale di questa mostra? Irene Fenara: Grandi lucenti è una riflessione sul concetto di visione e sul tentativo di superarne i limiti […]

Irene Fenara, _Supervision_, 2024, stampa su carta da lucido 390×490 cm. Installation view “Grandi lucenti”, ZERO…, 2024, ph credits Roberto Marossi, courtesy l_artista_ ZERO… Milano
Irene Fenara, Supervision (Storm)_, 2024, video, 14:43, installation view “Grandi lucenti” ZERO…, 2024, ph credits Roberto Marossi, courtesy l’artista – ZERO… Milano

Intervista di Sara Benaglia e Mauro Zanchi

Sara Benaglia e Mauro Zanchi: Lo scorso 8 febbraio ha inaugurato la tua mostra personale Grandi Lucenti da ZERO… Come sei giunta alla sintesi estetica e concettuale di questa mostra?

Irene Fenara: Grandi lucenti è una riflessione sul concetto di visione e sul tentativo di superarne i limiti intrinseci attraverso le immagini di oggetti evocativi e misteriosi, corpi luminosi o riflettenti, tondeggianti, che ricordano qualcosa che ha a che fare con stelle e pianeti. Ho lavorato tanto sul limite della visibilità, sia a livello ambientale, attraverso il buio o l’uso eccessivo della luce, sia a livello percettivo nella leggibilità delle immagini, che sono spesso indecifrabili e inspiegabili. Mi interessa particolarmente l’atto di osservare senza sapere che cosa si stia guardando, né dove lo si stia vedendo. Per questo non mi interessa esplicitare i luoghi di provenienza geografica delle immagini. Il guardare senza sapere lo trovo affascinante proprio perché può portare lontano, dove non ci aspettiamo nemmeno di andare.

SB+MZ: Supervision è una serie che ingloba gran parte dei lavori in mostra. Supervisione è una visione superiore o altra da quella umana?

IF: Supervision è la super visione alterata di una macchina, che rivede il mondo che la circonda in maniera autonoma, anche attraverso la presenza fisica della sua lente. Si tratta di una visione alternativa, anche rispetto alla nostra. Sono sempre alla ricerca di strumenti che mi possano aiutare a vedere in modi a cui non sono abituata, così da poter avere uno sguardo sul mondo il più ampio possibile e non necessariamente legato solo alla prospettiva umana.

SB+MZ: La tua ricerca è conosciuta perché hai portato il fotografico a relazionarsi con la videosorveglianza, ma in questa mostra c’è uno scatto ulteriore: la non riconoscibilità figurativa dei soggetti e, soprattutto, la matericità informatica che raggiunge una dimensione quasi sublime. Che cosa ti ha portato a fare questo passaggio determinante e coraggioso nel tuo lavoro?

IF: Mi interessa moltissimo il carattere estetico che queste macchine possono produrre al di là delle funzioni di controllo, che sono comunque insite nel dispositivo, ma che sono anche in grado di vedere al di là. Questa estetica rappresenta il grado di libertà della macchina, nel momento in cui sfugge allo scopo che l’essere umano le ha imposto. La videocamera di sorveglianza è una macchina libera proprio perché limitata in un’infinità di altre cose, come i limiti tecnici legati a una funzionalità specifica e delimitata. Questa libertà per me si manifesta in tutte quelle situazioni in cui la funzionalità del dispositivo viene meno ed è concessa la contemplazione della natura, o nelle situazioni in cui essa stessa si percepisce e viene svelato il meccanismo che produce l’immagine.

Exhibition view “Grandi lucenti”, ZERO…, Milano 2024, ph credits Roberto Marossi, courtesy l_artista_ ZERO… Milano

SB+MZ: Supervision (Storm) (2024) è un video di 14’ 43”, dove emerge in maniera chiara e netta non la tempesta – anche citata nel titolo – ma la formattazione del file stesso che stiamo guardando. C’è un’assonanza diretta che ci porta a Thomas Ruff, alla sua serie Jpegs. Come lui, hai lasciato emergere la compressione del file, portando la visione in scala monumentale (la proiezione è strutturata su una parete lunga una decina di metri). Anche qui i pixel – i mattoni di tutte le immagini digitali – sono ingranditi al punto da rompere l’immagine stessa che li compone. Insomma, questa mostra mette in luce tutti i presupposti non esplicitamente figurativi e dichiarati del tuo lavoro, portandoci alla materia informatica prodotta da una bassa definizione. Come trasforma la visione questa danza di pixel?

IF: Paradossalmente, un’immagine che dovrebbe essere chiara e nitida come quella della videosorveglianza viene compressa per permettere l’archiviazione di una grande mole di dati. Questi dispositivi registrano uno streaming continuo di immagini, che vengono immagazzinate e poi cancellate dopo 24 ore. Si tratta quindi di immagini in bassa risoluzione, contrariamente a quanto viene da pensare se si volessero cogliere i dettagli di una ipotetica “scena del crimine”, e la visione che ne deriva è spesso ambigua. È una visione intermittente, dovuta all’effetto flickr o al movimento incessante dei pixel, consapevole dello sforzo che viene fatto per vedere e persino della “palpebra” che si inserisce nel mezzo. A venire in primo piano, alla fine, è la bassa definizione delle immagini, soprattutto tramite l’ampia scala che decido di dare a queste piccole immagini.

SB+MZ: Che rapporto hanno queste immagini, costituite da una materia sgranata e dalla forma geometrica degli innumerevoli pixel, con la tradizione pittorica che trasfigura il reale figurativo dentro una visione di matrice informale o astratta? C’è una apertura o concessione pittorialista?

IF: Ricerco spesso nelle immagini che seleziono un effetto sfuocato e sgranato, prodotto dalla forte pixelatura della bassa qualità, attraverso il quale esce il carattere atmosferico di queste immagini che diventano così leggere e disperse. In un certo senso, si riallaccia anche a una tradizione pittorica e fotografica, che ha fatto dello sfumato atmosferico una caratteristica fondamentale, da Turner a Stieglitz. Nel digitale questo senso di sfumato è reinterpretato dal reticolato e dalla griglia dei pixel che, attraverso il rumore visivo, riportano a una simile percezione atmosferica dell’ambiente e del paesaggio. 

SB+MZ: Nello spazio ipogeo della galleria ZERO… sono installate tre piccole stampe, frame da camera di sorveglianza, anch’esse in bianco e nero, come la quasi totalità delle opere esposte. Queste immagini esplicitano la curvatura della lente della videocamera, la percezione del dispositivo che genera l’immagine, mentre la bassa risoluzione mostra riflessi a cui tenderemmo ad attribuire un indice extraterrestre. Perché l’immagine delle CCTV non mostra ma crea il reale? 

IF: La quantità immensa di video, fotografie e immagini che produciamo in continuazione pretendono di essere realtà, ma sono solo il nostro tentativo di vedere il mondo. Lo assembliamo a partire da questi nostri frammenti, presumendo che quello che vediamo sia coerente e assimilabile a quello che è la realtà, e scoprendo infine che non è così. Il reale, qualsiasi cosa significhi, è sempre riprodotto e mediato dai dispositivi che ordinano il nostro pensiero. Le immagini che le videocamere di sorveglianza, come ogni dispositivo, producono sono quasi una nuova creazione perché molto lontane da noi, partono dall’osservazione della realtà, ma poi diventano necessariamente una cosa diversa. 

Exhibition view “Grandi lucenti”, ZERO…, Milano 2024, ph credits Roberto Marossi, courtesy l’artista_ ZERO… Milano

SB+MZ: È impossibile registrare il video Supervision (Storm) (2024) con uno smartphone senza che venga ri-mediato. Come vivi la ri-mediazione costante in atto nel contemporaneo? 

IF: Trovo assolutamente interessante, parlando di visione delle macchine, questa costante rimediazione che avviene in primis attraverso i nostri smartphone tutti i giorni. Nello specifico i telefoni che utilizziamo non sono come macchine fotografiche tradizionali, ma hanno sensori microscopici e componenti scarse, a cui sopperisce un algoritmo di ritocco automatico che fa apparire buona un’immagine, anche se si tratta in realtà di una ricostruzione grafica effettuata sull’esperienza dell’AI. La videoinstallazione che si trova in mostra viene quasi “corretta” dagli smartphone che la riprendono e ricostruiscono il paesaggio, come forse noi lo ricostruiamo nella nostra testa quando riusciamo a intravederlo al di là del rumore digitale. D’altronde il paesaggio non esiste e siamo noi a costruirlo come proiezione visiva nel soggetto che lo percepisce.

SB+MZ: Quanto ti ha influenzato la Trilogia Sfere di Peter Sloterdijk nella preparazione di questa mostra?

IF: Leggendo Sloterdijk mi ha affascinato l’idea della sfera come razionalizzazione dell’immagine di mondo, qualcosa sempre in grado di orientare le esperienze dell’uomo. Ci penso spesso riguardo alle immagini in cui è presente una forte curvatura della lente della videocamera di sorveglianza: mi fa pensare che sia possibile percepire l’universo e il fatto di trovarsi su un pianeta, pensando anche alla rotondità dell’oggetto pianeta. La sfera ha principalmente a che vedere con la spazialità e con la creazione di spazio, che comprende un rapporto di mutuo e reciproco rimando tra interno ed esterno. Dentro la sfera e fuori la sfera. Sul pianeta, fuori dal pianeta. 

SB+MZ: Supervision è immagine prodotta senza una macchina fotografica e, come in tutto il tuo lavoro, è una tensione verso la visione delle macchine. Quanto la visione delle macchine sta per escludere l’essere umano da una visione altra, di immagini prodotte da macchine per macchine?

IF: Immagini prodotte da macchine per la sola, o quasi, lettura di altre macchine esistono già da diverso tempo, basti pensare all’autovelox o altre tecnologie automatizzate, che producono in autonomia immagini che hanno un effetto diretto e tangibile sulla nostra realtà. Per quel che riguarda invece la domanda sempre più urgente, ovvero se le macchine siano in grado di fare arte, da un lato penso che la tecnologia abbia fatto dei progressi inimmaginabili in pochi anni (quindi, chissà cosa sarà in grado di fare in futuro), ma dall’altro lato penso che nella marea di immagini prodotte da umani e macchine la vera differenza la faccia ancora la capacità di fare una scelta, accorgersi e riconoscere se nel potenziale ci sia qualcosa di significativo da salvare.

SB+MZ: Sulla base della tua ricerca metafotografica, come possiamo ricalibrare il visivo secondo il cambio di statuto delle immagini?

IF: Quando avvengono dei cambiamenti tecnologici e si velocizzano i processi con cui impariamo ad assimilare questi mutamenti, a volte l’uomo è incapace di metabolizzare immediatamente quello che sta avvenendo. Come per esempio nell’Ottocento, in Inghilterra, quando stava prendendo piede la ferrovia, i treni venivano fatti andare molto lentamente, nonostante la potenza potesse già essere elevata, perché si temeva che la mente umana non avrebbe retto la visione alla velocità del treno. Al contrario gli aborigeni australiani, che sono soliti viaggiare cantando una canzone che descrive il paesaggio che vedono camminando, se si spostano su una macchina cantano in maniera velocizzata per andare al passo con la visione accelerata del paesaggio dal finestrino dell’automobile. Quando la velocità della visione corrisponde a quella necessaria ad assimilare l’idea che la visione stessa produce, si ottiene una percezione costante del mondo.

Irene Fenara
Grandi lucenti
08.02-30.03.2024
ZERO…, Milano

Irene Fenara, _Supervision_, 2024, stampa a getto d_inchiostro su carta baritata, 23×30 cm, installation view “Grandi lucenti” ZERO…, 2024, ph credits Roberto Marossi, courtesy l_artista_ ZERO… Milano
Irene Fenara, _Supervision_, 2024, stampa a getto d_inchiostro su carta baritata, 23×28 cm, installation view “Grandi lucenti” ZERO…, 2024, ph credits Roberto Marossi, courtesy l’artista_ ZERO… Milano