‘Augmented Images’ — Intervista di Sara Benaglia e Mauro Zanchi —
Sara Benaglia e Mauro Zanchi: Tecnocopia (2022) è un progetto site-specific che hai presentato ad Adiacenze, a Bologna, in una mostra curata da Andrea Tinterri. Il progetto è un’esperienza in realtà virtuale in cui le persone hanno la possibilità di fotocopiarsi il volto con una fotocopiatrice virtuale e di attaccare quella immagine su un muro virtuale nel Metaverso. Il progetto è stato sostenuto da uno scambio che transitava anche da un ritratto fotografico, un selfie processato da un plug-in per Unity 3D, che trasforma il volto in una testa tridimensionale. Come relazioni, o differenzi, l’esperienza in una realtà virtuale e l’immagine lavorata da un software? Ma soprattutto, nel secondo caso parleresti ancora di fotografia?
Alessandro Sambini: Le differenzio e cerco di capire in quale relazione siano l’una con l’altra. L’esperienza della realtà virtuale, da questo punto di vista, mi ricorda qualcosa di simile a quella che in fluidodinamica viene definita portanza. Un prodigioso intreccio di software la cui finalità è generare una video proiezione stereoscopica ad altissime frequenze. Un flusso visivo in grado di sostenere una grande massa, dall’ingombrante inerzia, che non è altro che il nostro sguardo. Nella misura in cui quei processi continui di generazione di un’ulteriore immagine continuano a garantire coesione e coerenza tra un’immagine successiva e una precedente, lo sguardo prosegue nel suo incedere. I vuoti d’aria (una RTX 3090 ne genera un 9% in meno rispetto a una 3080 -TI) ci trasformano nell’arco di pochi frame da àlbatri leggiadri in gravi sgangherati. Quindi, per tornare alla domanda, la relazione è molto stretta. Infatti, il ritratto 3D generato dal plug-in è solo l’evidenza di uno dei processi mobilitati e attivi durante l’esperienza virtuale. Assieme a lui migliaia di altri illusionisti si muovono coralmente, con ritmi frenetici ma ordinati, per permettere agli sguardi di restare in volo. Nel secondo caso, parlando di immagine elaborata da un software, parlerei ancora di fotografia nel senso che mi sembra di poter individuare un apparato tecnologico, un incontro tra due soggetti e la messa in opera di un trattamento.
SB + MZ: Karl Marx ne’ Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (2010[1852)] ha scritto: “La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra ch’essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d’ordine per la battaglia, i costumi, per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste frasi prese a prestito la nuova scena della storia”. Quanto pesa su di te la tradizione fotografica? Con il tempo stai imparando a farne a meno?
AS: Quando penso alla Tradizione Fotografica sento scaturire in me, oggi, un marinaresco So long!
Ghirri, in Viaggio dentro un antico labirinto (1991), parla del suo rapporto con il lavoro altrui. Quando gli chiedono “cosa ne pensi del fatto che tutto è già stato affrontato in altri luoghi?” (riporto malamente la domanda e la citazione che ho trovato esposta all’interno di una mostra a Palazzo del Governatore di Parma nel 2022, riporto quello che mi è rimasto dentro) Ghirri risponde di aver fatto pace con questo: ogni visione è personale, singolare. Magari alcuni avvenimenti aventi un carattere di somiglianza tra loro si sono presentati in luoghi e tempi diversi e magari persone diverse ne sono state testimoni. Magari si sono realizzate interessanti letture rispetto a tali fatti, interpretazioni brillanti, di alto spessore artistico. Il palazzo è oggi che brucia, e sarà sempre oggi a bruciare. E sempre noi saremo lì presenti con un foglio di carta e una penna.
So long, Tradizione.
SB + MZ: Cosa rappresenta ora la riproduzione del reale, nell’era delle macchine tecnologiche dotate di intelligenza artificiale sempre più sofisticata?
AS: La riproduzione del reale è un’attività imperitura. Essa rappresenta lo stadio iniziale di evoluzione di qualsiasi saga visuale. Le intelligenze artificiali ne avranno sempre più bisogno. Ci sarà anzi una carenza, ad un certo punto, di grandi quantità di depositi di riproduzioni del reale, come per gli idrocarburi. E le fabbriche di senso si arresteranno o cercheranno forme di energia alternativa non potendo funzionare. Ci sarà, infatti, una forma di inerzia visiva e ridondanza dalle quali le nuove forme di output visivo saranno affette. Allora, come è successo a Robert Redford in All is Lost (2013), si tratterà di concentrare la condensa in poche gocce, ingegnandosi sul metodo di raccolta. Le singole immagini-nuove saranno trattate con più parsimonia, raccolte in un salvadanaio, che quando sarà pieno si potrà rompere. L’attività di riproduzione del reale, come il ciclo dell’acqua, non si ferma. Forse gli ufficiali di OpenAi inizieranno a passare casa per casa chiedendo alle persone se hanno dei micro-dataset da donare alla causa mostrando depliant con scritto: “Cercansi dataset”.
SB + MZ: Negli ultimi anni hai lavorato con l’Intelligenza Artificiale, che pensi come sistema organico di operazioni ibride umano-sintetiche, e sulle GAN (Generative Adversarial Networks). Human Image Recognition (2021) è un ulteriore step in questo percorso di riflessione in cui da un lato rifletti sul concetto di anatomia delle reti neurali e dall’altro cerchi di pensare come una macchina. Dunque, come pensa una macchina? Come si caratterizzano la sua visione e comprensione?
AS: Credo che la macchina goda di una certa leggerezza di pensiero e impunità. Innanzitutto, non appartiene ad alcun luogo. Lo scafandro che ne contiene gli organi principali è un limite tecnico meccanico che le diamo noi per poterla indicare col dito. Ma la macchina non è là dentro, i suoi confini vanno ben oltre. Per questo, anche se ne distruggessimo lo scafandro, la macchina rimarrebbe. In questo senso, l’intelligenza artificiale non la considero un’invenzione; la vera invenzione, piuttosto, risiede nella capacità di evocarla e lentamente vederla emergere (Musk, 2014, @TetraspaceWest, 2022). La macchina, infatti, esiste già e noi non facciamo altro che ingegnarci per portarla alla luce. In questo senso trovo consonante la dicitura “operazioni ibride umano-sintetiche”. La macchina, infine, quando si esprime produce visioni autoconclusive. Il suo stesso esprimersi è autoconclusivo: inizia e termina. Non si porta nulla dietro. La visione della macchina è condizionata da questi aspetti strutturali mentre l’umano con i suoi traumi, le sue cicatrici, l’attitudine paranoide su passato, presente e futuro ha un po’ di zavorra in più. Da umano, tentare di pensare come una macchina, richiede un forte esercizio di dilatazione dell’improbabile.
SB + MZ: (E che cosa è una vanilla-image?)
AS: Le Vanilla Images sono immagini che svuotate di “peso” a causa (tra l’altro) della grande diffusione, potevano essere considerate per il lavoro di Human Image Recognition come immagini sulle quali operare, proprio perché rendevano più difficile un tentativo di non riconoscibilità del loro contenuto da parte mia. Le Vanilla Images sono immagini “non rare, non preziose, non uniche” che sono state investite in origine di una carica commerciale, ma che per diversi meccanismi di attenuazione hanno perso la loro funzione e sono diventate orfane di lusso. Come successe al dominio google.com che per qualche minuto nel 2015 era rimasto in una condizione temporanea di separazione da Google stessa. Per pochi minuti il proprietario divenne un cittadino privato, che se avesse popolato il sito con, per esempio, il suo album di foto personali avrebbe reso google.com qualcosa di completamente diverso. Questo, seguendo l’idea di entropia, ci permette di affermare che google.com è probabilmente anche un sito di un privato cittadino. Almeno è uno degli stati tra i tanti verso cui potrebbe capitolare. (Ne abbiamo addirittura le prove, evento più unico che raro!) Cosa permette alla company Google di essere collegata a quel sito? Un fitto incrocio di legami legali ed economici. Ma il dominio google.com non è la company. La company è un agglomerato vivace e dinamico di cemento, carbonio, acqua, lingue, dita, cavi ethernet, ecc. I due sono legati temporaneamente da un legame estremamente fragile. Rotto il legame la company rimane uguale, il dominio si svuota. Questo meccanismo di affrancamento è quello alla base delle Vanilla Images. Ed era quello che succedeva con le quarte di copertina dei The Economist, superfici sulle quali ho cominciato il progetto.
SB + MZ: Come ti rapporti con l’attuale mondo delle immagini aumentate, delle fotografie digitali mediate dalla cultura computazionale e di Rete?
AS: Da quando ho ricevuto questa intervista ad oggi sono emersi almeno due o tre micro-rivoluzioni tecniche che hanno ampliato il mio senso di spaesamento. Mi sento spinto, da un certo punto di vista, ad allontanarmi da una riflessione troppo approfondita e puntuale dato che ogni fine settimana cambia tutto. Ne parlavo con un docente di storia del’arte ormai in pensione qualche sera fa: si parlava di una soglia (temporale) oltre la quale molti docenti non si spingono perché occorrerebbe esporsi con giudizi e opinioni che magari, il tempo, rischierebbe di far morire. Io parlavo di come nel mondo della fotografia oggi, apparentemente, il tempo dei cambiamenti sia enormemente compresso e che quella soglia temporale (oltre la quale si azzarda, entro la quale si rimane nella confort zone) corrisponde sempre più a “2 minuti fa”, oppure a 12 “TikTok video prima”. Come notoriamente chiosa Károly Zsolnai-Fehér: “one more paper down the line, and it will be significantly better”. È quel “significantly” che mi scuote.
Floridi parlava dei seeds of time, riferendosi a Shakespeare. Cercar di capire quali daranno frutto e capirlo abbastanza in anticipo. Certo Shakespeare non si riferiva a un cesto di semi misti gettato in faccia, con Robert de Niro che ti punta la pistola alla tempia e ti comanda di individuare quelli buoni in una manciata di secondi (ne Il cacciatore in realtà è De Niro che si punta la pistola alla tempia, ma questa è la nuova estetica post stable diffusion: non si sa se gli spaghetti entrano nella bocca di Will Smith o se Will Smith mangia se stesso, sfuggono i complementi “di stato in”, “di moto a”, “di moto per” e “di moto da” luogo). Credo quindi di sentirmi come quando si è presi da un furioso cavallone al mare e testa e corpo se ne vanno sott’acqua. Mi immergo e mi lascio trasportare da un vastissimo e confortevole filtro Low Cut. Preferisco abbandonarmi ai vortici e lasciarmi trascinare in acque più tranquille, dalle quali coltivare spunti di riflessione (con buona pace di Jensen Huang).
SB + MZ: Quali termini utilizzi per definire ciò che non può essere definito come fotografia? La post-fotografia è fotografia o altro?
AS: Utilizzo la parola fotografia in molti frangenti in tutti quei casi dove da qualche parte è possibile risalire ad un’origine di matrice fotografica. Con fotografia, in effetti, mi riferisco principalmente alla tecnica fotografica. La post-fotografia è fotografia misurata con un righello che ha come unità di misura il micron a differenza della fotografia che usa quello da sarto.
SB + MZ: MARIO (2021) è un progetto che hai sviluppato insieme alla curatrice Francesca Lazzarini e al programmatore Gilberto Decaro. Mario è un dispositivo che consente di sapere e sentire quando qualcuno registra un’immagine fotografica in cui siamo presenti. Potenzialmente è un applicativo che potrebbe consentire di approvare o meno l’archiviazione e divulgazione dell’immagine senza firmare un modulo, ma accorciando la catena di permessi. È un brevetto depositato? Cosa ha innescato il progetto quando l’hai collocato nei luoghi frequentati da molte persone nelle fiere o in altri spazi?
AS: MARIO è un brevetto per il quale è stata depositata la domanda. Il progetto nei vari momenti di presentazione ha sempre sconvolto prima di tutto le mie convinzioni, quelle delle persone che hanno collaborato al progetto (in primis Gilberto Decaro, Francesca Lazzarini, Michela Rizzo, Giovanna Repetto, Matteo Razzano, Vincenzo Miranda, Antonio Mazzei, Marco Pelos Spagno, Margherita Fortuna e tanti altri) e quelle delle persone che incontravamo. MARIO nasce nel 2020 per non nascere, doveva inizialmente rimanere un brevetto ingenuamente depositato ma mai realizzato. Depositarlo serviva proprio ad impedirne la realizzazione in quanto pensavo che fosse pericoloso. Ma la visione era appunto ingenua, non puoi brevettare e poi non produrre. Se non lo fai ti può essere portato via. Ad Artissima cercavamo quindi di mostrare il progetto come liminale tra il mondo dell’arte e dell’industria più rampante: proprio a metà. Iscrivevamo la gente che passava e misuravamo l’effetto che faceva. Le conversazioni con le persone erano utilissime per comprendere le paure e le criticità che una tecnologia del genere sembrava comportare, ma cominciavano ad affacciarsi anche ragionamenti e sensazioni di simpatia verso quel nuovo canale di comunicazione che al tempo era assolutamente in nuce. Avevamo creato una piccola comunità a Torino e tra di noi si cercava di andare oltre il concetto di gangsterismo digitale esploso con la tratta funesta dei dati personali a partire da quando, dopo l’11 settembre 2001, fu allentata la privacy a scapito di appropriazioni indebite e selvagge. MARIO, pur nel brodo filosofico speculativo garantito dall’ambiente artistico in cui si muoveva, non poteva diventare un ulteriore colabrodo. Abbiamo quindi iscritto circa 160 persone e con quasi ognuna di esse abbiamo avuto interessanti discussioni. Difficile riassumerle. In generale se si trattava di una persona fotografata la sensazione era quasi sempre positiva e di sollievo. Accompagnata dalla paura di un’eccessiva esposizione che non era altro che il riconoscere che già lo siamo (esposti) e che MARIO permetteva semplicemente di saperlo in diretta e in maniera inequivocabile aprendo un canale di comunicazione dove prima non c’era. Quest’ultimo corsivo va proprio letto con una voce da televisione commerciale anni ‘80. Importante l’uso della chitarra arpeggiata nella colonna sonora. Dopo Artissima abbiamo pensato che avesse senso riproporlo in un contesto più strettamente legato alla fotografia. Si è presentata la possibilità di partecipare al bando New Post Photography al MIA curato da Gigliola Foschi e abbiamo vinto la possibilità di esporre gratuitamente, in uno stand tutto nostro. In quei tre giorni ci siamo sentiti come una nuova Start Up che presentava un prodotto rivoluzionario e cercavamo di protrarre quella performance rimanendo in parte ma ignari dell’effetto che avrebbe effettivamente avuto. Si sono fatte avanti aziende che hanno fatto offerte commerciali, possibili finanziatori, piattaforme social, fotografi che ci hanno augurato di bruciare assieme alla nostra azienda e tante persone entusiaste e speranzose che il progetto potesse essere portato avanti. Da quel momento in poi era chiaro che il mondo era diviso in due: chi fotografava, diviso tra un “si” moderato e un “no” radicale e il mondo di chi viene fotografato, nettamente favorevole. Le aziende, terzo spettatore, erano altrettanto interessate. Il punto è che anche se ci presentavamo come Start Up, non lo eravamo e quindi era difficile per noi distillare per bene il tutto. Normalmente il processo va al contrario: prima indaghi sulla fattibilità di un’idea, poi pensi alla possibilità di fare un brevetto. Noi al contrario. Allora riprendo da quanto ha detto uno street photographer di passaggio alla fiera: “come facciamo noi che viviamo di questo? Ci impedite di fotografare!” e la nostra risposta era sempre “no, lo potete fare come lo avete sempre potuto fare”. Poi è passata una persona che mi ha illuminato: “Ma non state rendendo il mondo un po’ troppo pulito? In fondo l’umanità è difetto, incompletezza, errore, sporcizia. Un sistema di questo tipo rende tutto scintillante”. Quest’ultima considerazione mi ha bloccato. Non so in che misura la frase “rendere il mondo un mondo migliore” si adatti a MARIO. Credo che questa intenzione, seppur auspicabile, non sempre porti a risultati auspicabili. Sento l’esigenza di un’autoregolazione dei comportamenti da parte delle persone, ma non riesco a sentire mia l’esigenza di limare le imperfezioni, che sono le cose che ci rendono unici: siamo degni perché in fondo siamo indegni. Da questa considerazione nascerà la THE HORRIBLE NIGHT OF MARIO, una serata di stand-up teatrale che dipanerà tutte le orribili declinazioni che MARIO potrà avere. C’è molto da capire, MARIO è un cantiere, il cui unico limite è che dipende da tempi pre-scritti e relativi ai depositi di brevetti. Quindi è un buco nero che mangia soldi e senza soldi l’artista muore di stenti. Muore l’artista, MARIO lo comprano all’asta i gangster, MARIO diventa strumento di delinquenza legittimato. Ecco una storia per la THE HORRIBLE NIGHT OF MARIO.
SB + MZ: Hai 5 righe per parlarci di The Gallery Revolve (2020) senza usare il termine fotografia né immagine, ok?
AS: The Gallery Revolve (1 e 2) erano la risposta alla proposta di fare una mostra online all’inizio della Pandemia®; mi sono focalizzato sulle difficoltà incontrate da un visitatore alle prese con una venue digitale. Ho creato un videogioco all’interno del quale gli spazi di Galleria Michela Rizzo (TGR1) e del MART (TGR2) sono ruotati di 90 gradi verso il basso e all’interno dei quali il giocatore deve riuscire a visitare le mostre senza morire.
SB + MZ: Tra la visione precostituita e quella appresa, tra ricostruzioni della realtà attraverso abitudini del pensiero o azioni di routine e la attuale massiccia presenza delle tecnologie e delle elaborazioni macchiniche, come ti rapporti con il complesso mondo delle immagini fluide?
AS: Per quanto riguarda il momento dell’incontro (tra me e l’immagine) cerco sempre di risalire agli algoritmi che ci hanno uniti, agli equilibri di potere retrostanti alla pezza giustificativa (un bolo di pixel colorati lasciato sul tavolo). Le immagini, seppur fluide, mantengono comunque una loro storia. Potenzialmente sempre tracciabile. Ho visto GAN lavorare su immagini a 256 pixel per lato e scopiazzare pezzi interi di immagini prese da un folder del dataset cercando di ingannare il discriminatore e riuscendoci alla grande, facendo credere che quella fosse un’immagine “nuova”. Un po’ come se all’interrogazione di filosofia lo studente leggesse direttamente dal libro senza che il professore, al suo fianco, se ne accorgesse e anzi, quest’ultimo gli desse un bell’8! Da qualche parte le immagini che ci circondano, anche le più recenti generate da intelligenze artificiali – come descritto nell’esempio dell’interrogazione – mostrano, in maniera più o meno palese, le tracce dei processi che le hanno generate, per cui piano piano, si può risalire la corrente. Tanti passaggi sono in realtà ridondanti o privi di animus per cui anche un identikit di u’’immagine può bastare. A volta la pezza giustificativa è un libro aperto, a volte un rompicapo.
SB + MZ: Alla luce della tua ricerca e di tutte le questioni che abbiamo preso in esame in questa intervista, come possiamo ricalibrare secondo te il visivo alla luce del cambio di statuto delle immagini?
AS: Penso ad un’ipotetica e continua attività di regolazione del back-focus di una lente cinematografica zoom. Un’attività minuziosa e tediosa fatto di aggiustamenti continui e, normalmente, risolutivi. Lo scopo è mantenere un soggetto a fuoco al variare della lunghezza focale. Magari utilizzando degli anelli metallici di diverso spessore chiamati “shims” posti tra la lente e la camera.