Augmented Images — Conversazione con Salvatore Vitale

"Per me l’immagine è sia un punto di partenza che di arrivo, qualcosa che muta nel tempo, che continua ad esistere, che definisce il mondo moderno. L’immagine, proprio per la sua nuova natura, è spesso invisibile fino al punto in cui cessa di esistere. Hito Steyerl parla di “immagini povere” per definire come esse siano cambiate nel tempo, come la nostra percezione e accettazione delle immagini sia cambiata soprattutto in era digitale." S.V.
5 Aprile 2023
Salvatore Vitale – Death by GPS filmstill, 2022 © SalvatoreVitale

Sara Benaglia e Mauro Zanchi: Al momento è esposto presso il MAST di Bologna il tuo più recente progetto, Death by GPS (2023), un video che “alterna fotografie documentarie di eventi reali e riprese di sabotaggi inscenati per stabilire un legame tra la gig economy, l’attività mineraria e l’idea di sabotaggio tecnologico”. Come sei arrivato a questo lavoro e perché proprio Johannesburg?

Salvatore Vitale: Death by GPS esplora come i pregiudizi dell’automazione plasmino le relazioni tra individui, lavoro e strutture sociali, generando nuove forme di sfruttamento. Il lavoro traccia un parallelo con le lotte storiche della classe operaia contro le macchine e sulla connessione tra gig economy, industria mineraria e sabotaggio tecnologico. La prima parte del progetto si concentra sulla regione del Gauteng in Sudafrica in quanto, storicamente, è un territorio che è stato oggetto di dinamiche imperialistiche e sfruttamento per le sue enormi riserve minerarie e che oggi ospita molti dei lavoratori freelance operanti in ambito IT e che lavorano per compagnie prettamente occidentali.
Più in generale, il mio lavoro esplora i cambiamenti sociali ed economici in atto e come essi sono influenzati dallo sviluppo tecnologico. Oggi questi cambiamenti avvengono in maniera repentina e, spesso, sono ampiamente influenzati dallo sviluppo tecnologico. Quest’ultimo aspetto è peculiare per me: in senso lato, la tecnologia è un’entità assai astratta, difficile da interpretare ai più, ma facile da normalizzare. Ma che tipo di strumenti possiamo sviluppare per cercare di capirne l’impatto sul nostro modo di pensare, ragionare e vivere? Nel caso specifico di Death by GPS mi sono chiesto come i processi di automazione stanno trasformando il lavoro e quali possibili conseguenze si possono immaginare in una prospettiva a lungo termine. Credo che per documentare le astrazioni su cui si fondano le società post-capitalistiche, bisogna capire il passato per essere in grado di poter osservare il presente e immaginare scenari futuri. Per questa ragione ho analizzato ed esplorato in maniera parallela e complementare due processi lavorativi assai diversi, ma che hanno in comune molte dinamiche storiche e sociali. Questo parallelismo mi ha permesso di sviluppare un discorso che parla di tecnologia, ma da un punto di vista strettamente umanistico. Questa volta lo spazio è dato alla “forza lavoro” e ad una sorta di movimento reazionario immaginabile, ma non tangibile. Se da un lato i minatori estraggono materiale che poi viene impiegato nell’industria dell’hardware, dall’altro i freelance – che nel contesto del mio progetto lavorano principalmente per compagnie occidentali –  utilizzano questo hardware per poter lavorare e contribuire allo sviluppo tecnologico. Gli attori che fanno parte di questo circuito, però, sono gli stessi che non traggono un vero profitto. Oggi il lavoro sta cambiando, è frammentato, è parzialmente automatizzato ed è decentralizzato. Partendo da questi concetti chiave, ho strutturato il progetto in modo da includere diverse forme di collaborazione, poiché include la creazione di contenuti da parte di diversi freelance assunti tramite piattaforme di lavoro online.
Questa stratificazione da un lato rappresenta uno sforzo verso una narrazione non-lineare che mi permette di documentare dinamiche e storie complesse, dall’altro ha influenzato la strategia visiva di Death by GPS, che nella sua forma utilizza la struttura del mixtape e che comprende un collage video, un film saggio, fotografie e un video musicale, interpolati con la viralità di Internet ed elementi di fiction supportati da un impianto di ricerca solido. Questo approccio mi ha permesso di creare una rappresentazione stimolante dell’impatto dell’automazione sulla gig economy e sullo sfruttamento del lavoro.

SB + MZ: “Siamo già dei cyborg. Il telefono e il computer sono tue estensioni, ma l’interfaccia passa dai movimenti delle dita o dalla voce, che sono molto lenti” è la didascalia di un tuo dittico corollario rispetto a Death by GPS. Che relazione c’è tra la tecnologia che hai usato per realizzare l’immagine e le incongruenze e ingiustizie della rivoluzione tecnologica?

SV: In realtà in Death by GPS  non mi sono puramente concentrato sull’aspetto tecnologico in termini di media, piuttosto ho adottato un approccio collaborativo che mi permettesse di lavorare su una narrazione stratificata su più storylines. Indubbiamente, c’è un nesso fra le tecnologie utilizzate per creare questo lavoro e le storie che ho raccontato. Per esempio, ho utilizzato una piattaforma di online recruitment per assumere i freelancers che hanno creato contenuti. Questo mi ha permesso di diventare un datore di lavoro e di studiare a fondo le modalità di funzionamento di tali piattaforme. Inoltre, ho operato delle piccole azioni di sabotaggio, come offrire un salario orario calcolato sulla media oraria occidentale. Infatti, Death by GPS, come accennato, si fonda su un processo di documentazione che utilizza elementi di fiction e piccole azioni di sabotaggio per poter creare uno spazio nel quale immaginare delle modalità diverse per l’organizzazione e la regolamentazione del lavoro nella gig economy. Sebbene la possibilità di lavorare come freelance per clienti sparsi in tutto il mondo possa rappresentare un’alternativa valida alla difficoltà di trovare lavoro nelle economie locali, è importante valutare come questi processi decentralizzati stanno generando nuove forme di sfruttamento, sia a livello di salario che di condizioni di lavoro. Lavorando su alcune di queste piattaforme, è emerso come la comunicazione avvenga in modo impersonale, il lavoro sia influenzato da meccanismi di rating e feedback e non esista una regolamentazione sulla paga oraria minima. Inoltre, la piattaforma stessa rappresenta spesso un enorme divario tra domanda e offerta, poiché si pone come intermediario e regola la visibilità degli annunci e il raggiungimento dei candidati attraverso logiche algoritmiche. La mancanza di trasparenza di tali processi può influire notevolmente sulla possibilità di trovare un lavoro.
Il progetto impiega anche l’Intelligenza Artificiale come strumento di ricerca. È stato per me fondamentale riflettere attentamente sulla rappresentazione di queste tematiche e dinamiche. Per fare ciò, ho utilizzato i bias di alcuni modelli al fine di comprendere le rappresentazioni distorte generate dall’algoritmo. Questo mi ha poi suggerito il modo in cui ho rappresentato diversi elementi del progetto.

Salvatore Vitale – Decompressed Prism – Galleria Civica
Salvatore Vitale – Decompressed Prism, filmstill 2021 © Salvatore Vitale

SB + MZ: Ci parleresti della tua videoinstallazione Decompressed Prism (2021-22)? Che relazione c’è tra realismo sociale e self-awareness?

SV: Decompressed Prism è un lavoro che si posiziona fra uno dei temi che ho esplorato di più nella mia ricerca, ossia quello della sicurezza e i cambiamenti sociali in atto mossi da diversi processi di automazione. È un’installazione video, un saggio ed è divenuta anche un’esperienza interattiva a seguito di una commissione del Musée dex beaux arts di Le Locle, allora diretto da Nathalie Herschdorfer. Il lavoro rivela i paradossi dietro la logica sistemica della sorveglianza onnipresente attraverso strumenti di sicurezza automatizzati. Esso interroga su come queste tecnologie modellano il nostro rapporto con il mondo e con noi stessi come esseri umani. In questo caso, però mi baso sulla nozione del corpo in evoluzione tra digitalizzazione e realtà, e la trasformazione di quest’ultima in un prodotto controllato dalla tecnologia. Attingendo a testi filosofici e sociologici contemporanei, nonché a dati e ricerca scientifica, Decompressed Prism immagina e presenta una realtà diversa in cui è possibile immaginare degli scenari alternativi. L’opera mostra anche l’inquietante normalizzazione della sicurezza e della sorveglianza rizomatica e il suo impatto sul comportamento umano. Decompressed Prism, dunque, è un lavoro sperimentale che propone un dialogo fra due interlocutori e due stili narrativi diversi: da un lato un saggio che definisce il modo in cui le “scatole nere tecnologiche” stanno cambiando e mediando il nostro rapporto con il reale. Dall’altro un testo introspettivo che pone delle domande e invita a riflettere sul modo in cui prendiamo coscienza di noi stessi in relazione alla nostra esistenza digitale. Sicuramente ciò che emerge è discorso sul corpo e sulla sua interpretazione e rappresentazione sociale e politica attraverso questa duplice dimensione che, ormai, ci appartiene. Credo sia molto importante, quindi, soffermarci sul capire come si possa riprendere pieno controllo di esso. Questo lavoro non offre risposte a riguardo, ma invita a iniziare un processo di presa di coscienza. Dà degli strumenti attraverso i quali potere reagire. Anche in questo caso la fiction si mischia a una documentazione precisa e basata su dati reali. Sicuramente c’è una critica sociale e indirizzata ai sistemi di controllo, ma allo stesso tempo e in maniera forse sottile, questo lavoro può fornire alcuni strumenti per poter interpretare e capire come tali sistemi funzionano e attraverso quali dinamiche si sviluppano.

SB + MZ: Che cosa può essere per te un’immagine oggi?

SV: Personalmente, non mi è mai interessato troppo definire cosa sia un’immagine, ma mi sono sempre focalizzato sul modo in cui interpretiamo e distribuiamo tali immagini. Per me l’immagine è sia un punto di partenza che di arrivo, qualcosa che muta nel tempo, che continua ad esistere, che definisce il mondo moderno. L’immagine, proprio per la sua nuova natura, è spesso invisibile fino al punto in cui cessa di esistere. Hito Steyerl parla di “immagini povere” per definire come esse siano cambiate nel tempo, come la nostra percezione e accettazione delle immagini sia cambiata soprattutto in era digitale. L’immagine non è più necessariamente perfetta, non è più un qualcosa che necessariamente ci parla del reale. L’immagine vive su diversi supporti ed è distribuita su diverse piattaforme. In tal senso l’immagine è una sorta di simulacro, ma allo stesso tempo è ancora troppo spesso interpretata come punto di vista privilegiato sul reale. Se si parla di immagine in senso lato, poi, si hanno delle ripercussioni sorprendenti a livello sociale e politico. L’immagine fotografica, invece, ci porta ancora a chiederci cosa sia una fotografia e cosa non lo sia. Non sono mai stato ossessionato da questo tipo di domanda. Nel mio lavoro non mi sono mai imposto in maniera esplicita l’utilizzo di un determinato tipo di immagine. Parto sempre da ciò che voglio o devo raccontare per poi sviluppare una strategia visiva che mi permetta di veicolare significato. In tal senso nei miei lavori si passa da immagini puramente fotografiche a immagini in movimento o generate al computer. Archivi, screenshoots, motion. Il mio modo di pensare le immagini è ampio e racchiude una componente di complessità che rende interessante e stimolante il processo che mi porta a sviluppare il mio lavoro.

SB + MZ: Come ti rapporti con l’attuale mondo delle immagini aumentate, delle fotografie digitali mediate dalla cultura computazionale e di Rete? 

SV: Credo che le possibilità che l’accesso alle diverse tecnologie in grado di produrre immagini siano molto interessanti. Ci sono dei fenomeni che mi interessano particolarmente come i processi di co-creazione e disseminazione legati al fenomeno dei meme su internet.  Anche in questo caso, a mio modo di vedere, è necessario contestualizzare il modo e le dinamiche attraverso le quali tali immagini sono create e vivono. Ci sono delle tecnologie che permettono, ad esempio, di perdere completamente il distacco fra medium e messaggio. La storia diviene il medium e viceversa. Questo avviene, ad esempio, nell’ambito della realtà virtuale. L’esperienza che si fa dell’immagine è puramente immersiva e non necessariamente mediata. La tecnologia scompare, non è più percepita. Navigare e sperimentare la complessità del visivo nel contesto delle reti sta diventando sempre più una sfida cognitiva, filosofica e psicologica. Siamo completamente immersi in una narrazione non lineare mentre sperimentiamo simultaneamente sia il mondo fisico che quello virtuale. VR, AR e AP – fotografia aumentata –, gamification e realtà mista offrono diverse esperienze sensoriali e aiutano a sfumare i confini tra mezzo e contenuto. Per me tali rappresentazioni sono interessanti se supportano un concetto e non rimangono puramente degli esercizi estetici o di forma. Allo stesso modo, mi affascina la possibilità di generare immagini a partire da immense banche dati. E mi affascina, come credo affascini molti, la velocità attraverso la quale tali sistemi si sviluppano e diventano sempre più precisi, difficili da interpretare. Non sono necessariamente trasportato dalla valenza estetica di tali immagini – anche perché ci vedo molta ripetitività – ma come ho accennato precedentemente, mi interrogo sul modo in cui io possa utilizzare questi strumenti nel processo di ricerca che sta alla base del mio lavoro. Credo, però, che sia ancora presto per prendere una posizione netta a riguardo. Siamo agli albori di qualcosa che continua a crescere e svilupparsi, e che sicuramente avrà delle implicazioni che sono ancora difficili da prevedere. 

SB + MZ: Il cambiamento di statuto dell’immagine è derivato innanzitutto da una rivoluzione digitale che ha sradicato il concetto stesso di rappresentazione e messo in crisi la visione umana rispetto alla lettura dati da parte delle macchine. Persuasive System (2020-2021) è una installazione interattiva dove esplori le dinamiche di potere tra sistema di sorveglianza, estrazione, collezione, analisi, archiviazione e distribuzione di dati. Quale percorso hai seguito in questa ricerca? È cambiato il tuo approccio a questi temi nell’arco di due anni, da quando hai iniziato il progetto?

SV: Con Persuasive System ho analizzato come le tecnologie di sorveglianza odierna possono creare disuguaglianze di potere nascoste. Inoltre, il progetto funge anche da gioco narrativo per mostrare come si può creare un sistema che può influenzare il comportamento delle persone senza costringerle o ingannarle. L’installazione mette in discussione la sorveglianza contemporanea mostrando i diversi aspetti della sorveglianza come la raccolta e la condivisione dei dati, la trasparenza e la realtà della sorveglianza. Inoltre, mostra chi sono gli “osservatori” sullo schermo, responsabilizzandoli delle loro azioni. Questo, in maniera speculativa, è un tentativo di rendere le logiche legate alla sorveglianza più trasparenti, svelando le relazioni di potere che ci sono dietro.
Focalizzandomi su un ambito della sorveglianza strettamente legato allo sviluppo tecnologico, mi sono dovuto confrontare con un tema che ha un’evoluzione repentina. Le tecnologie di sorveglianza, infatti, sono caratterizzate da una duplice identità. Da un lato, hanno la capacità di osservare e acquisire informazioni sul mondo circostante, e sempre più spesso sono dotate di funzioni per analizzare e interpretare ciò che registrano. D’altro canto, sono progettate per essere discrete, riservate e sfuggenti. Più queste tecnologie sono in grado di vedere e comprendere di noi, meno rivelano sui loro meccanismi interni e su come generano determinati risultati. In altre parole, le conoscenze che abbiamo sulle capacità delle tecnologie di sorveglianza sono estremamente limitate, così come il nostro accesso a come ci vedono e alle conclusioni che traggono su di noi. Esse funzionano come scatole nere e operano attraverso zone grigie che le rendono elusive e di difficile controllo. In questo lavoro, la mia attenzione è andata sulla sorveglianza negli spazi pubblici, probabilmente l’esempio più visibile di questo tipo di elusività. Le tecnologie che causano discussioni, come quelle che raccolgono dati biometrici o che sono invasive, traggono vantaggio dal fatto che sono complicate e difficili da capire. Questo è un problema perché in una società in cui le tecnologie sono sempre più importanti, è necessario avere trasparenza e controllo. Pertanto, Persuasive System utilizza la tecnologia per infiltrarsi e manipolare i sistemi di video-sorveglianza, al fine di creare una sensibilizzazione sull’uso e la distribuzione dei dati. Attraverso la combinazione di narrazioni reali e immaginarie,  ho cercato di offrire una piattaforma per immaginare soluzioni alternative per promuovere una maggiore trasparenza riguardo ai sistemi che regolano la società e come interpretiamo il mondo.

Salvatore Vitale – Death by GPS filmstill, 2022 © Salvatore Vitale
Salvatore Vitale – Decompressed Prism, filmstill 2021 – Salvatore Vitale

SB + MZ: In The Reservoir (2018-2019) riponi la tua attenzione sulla sicurezza nel cyberspazio. Ma non abbiamo visto questo lavoro di persona per cui abbiamo bisogno del tuo racconto per immaginarcelo.

SV: The Reservoir è nato mentre stavo lavorando a How to Secure a Country. Ad un certo punto mi sono focalizzato sul tema della cybersecurity, e pur avendo fotografato vari tipi di infrastrutture fisiche e luoghi, ho sentito la necessità di sviluppare qualcosa che potesse rappresentare in modo più esaustivo l’astrazione e l’invisibilità di questo particolare soggetto, permettendomi di dare una forma a processi solitamente invisibili ai non addetti ai lavori. Durante la mia ricerca e il mio lavoro con un ramo dell’intelligence svizzera, ho trovato affascinante un tipo specifico di attacco informatico, vale a dire il ransomware. Ero affascinato dall’idea di un malware che, in modo piuttosto “semplice”, operasse una vera e propria richiesta di riscatto e fornisse istruzioni su come recuperare i propri dati. Ero anche affascinato dal modo in cui gli hacker che programmano questi malware ricerchino e forniscono rappresentazioni visive, immagini. Sulla base di ciò, ho deciso di lavorare su un ransomware specifico chiamato Petya e mostrare come funziona e come si manifesta visivamente. In questo caso, per rappresentare un teschio viene utilizzato un linguaggio che fa riferimento a visualizzazioni in codice ASCII. Ho quindi creato un’installazione in cui ho infettato una virtual machine connessa alla rete in tempo reale e ho simulato un’interazione con un utente che utilizza il computer. La simulazione è composta da testo, immagini e video e forma una narrazione legata al tema. Il ransomware viene rilevato dal sistema ma improvvisamente si manifesta bloccando i dischi del computer. 

SB + MZ: Nel tuo lavoro utilizzi vari mezzi, ma spicca il tuo “occhio fotografico”. Alla luce della deriva digitale pensi che la fotografia rimanga un mezzo privilegiato o che dovremmo dimenticarla per capire il digitale?

SV: La fotografia rimane assolutamente un mezzo privilegiato. Precedentemente abbiamo parlato di immagini e ho menzionato l’importanza dell’immagine fotografica. Per me la fotografia – seppur riferendomi ad essa in senso lato – rappresenta ancora un punto di partenza. Nel mio lavoro non mi limito ad uno sguardo puramente fotografico, ma le fotografie continuano a fare parte del mio processo narrativo. Non credo ci sia un divario fra ciò che è fotografico e il digitale. Anzi, la fotografia costituisce una gran parte di quel mondo. Basti pensare ai processi generativi che permettono di creare immagini fotografiche a partire da prompt testuali. O la valenza della fotografia nelle piattaforme social. Ciò che è prettamente cambiato è il modo in cui le fotografie sono prodotte e distribuite. Scattare fotografie non è più solo un’attività umana, poiché gli esseri umani non sono più il punto focale del processo. Grazie al progresso tecnologico, vari dispositivi tecnici possono ora catturare immagini del “mondo reale”. Tuttavia, è fondamentale ricordare che gli esseri umani svolgono ancora un ruolo centrale nell’intricata interazione tra sguardo e rappresentazione.

SB + MZ: Cosa significa quando il corpo viene trasformato in un oggetto tecnologico controllato?

SV: Oggi, l’individuo ha perso una parte della propria autonomia e del controllo sulla propria privacy. Ciò può accadere, ad esempio, quando i dati biometrici del corpo sono raccolti e archiviati da sistemi di sorveglianza o quando le tecnologie di monitoraggio, come ad esempio le app che utilizziamo quotidianamente per monitorare la nostra salute, raccolgono informazioni sul corpo dell’utente. In questi casi, il corpo diventa oggetto di monitoraggio e controllo tecnologico. In Decompressed Prism, mi sono posto questa domanda partendo da un processo di presa di coscienza del sé. Mi sono chiesto quale sia obiettivamente la comprensione che abbiamo oggi di noi stessi e della proiezione dei nostri corpi in ambito digitale. Non c’è dubbio che le tecnologie della sorveglianza esercitino un controllo sul nostro corpo, ma esistono modi per riappropriarci di esso? Siamo stati inglobati in un sistema in cui siamo diventati merce, in cui produciamo valore anche semplicemente respirando. In cui le nostre scelte sono pienamente influenzate e i nostri comportamenti sono mediati dalla tecnologia. Ci basiamo su sistemi di rating per fare scelte o per valutare diversi sistemi che regolano le nostre società, da quello scolastico a quello della salute. Allo stesso tempo siamo diventati ubiqui e non è necessariamente così rilevante il luogo fisico in cui il nostro corpo si trova. Però tendiamo a dimenticare che qualsiasi tipo di tecnologia è stata creata dall’uomo ed è una manifestazione del nostro essere umani. Proprio per questo sottilissimo dettaglio, dunque, credo sia possibile immaginare nuovi sistemi in cui potremo riappropriarci dei nostri corpi.

SB + MZ: Che spaziotempo occupa nel tuo immaginario la letteratura fantascientifica di William Gibson (il cyberpunk in Neuromancer) e le questioni futuribili presenti in Blade Runner (le immagini di ricordi innestati nella memoria degli androidi)? 

SV: L’arte è sempre stata un mezzo per capire il mondo digitale e come lo percepiamo. Molti film popolari, fra i quali uno dei miei preferiti, Johnny Mnemonic, esplorano la rappresentazione dell’intangibile in modi fisici o effimeri che sono spesso futuristici o post-apocalittici. La fantascienza modella la nostra percezione del digitale e termini come hacker, codice, intelligenza artificiale e networks sono entrati a far parte del nostro quotidiano. Tempo fa scrissi un’articolo per Unseen magazine in cui provavo a mappare diversi lavori fotografici che hanno contribuito a svelare o creare delle visualizzazioni concrete di temi e concetti per lo più astratti e immateriali. Non c’è dubbio che la fantascienza influenzi il mio lavoro. Mi affascina il modo in cui nell’immaginare scenari futuri, si parta da una conoscenza ben radicata del passato per tracciare delle abitudini, comportamenti e tendenze che suggeriscono interpretazioni in grado di prevedere scenari futuri. Gibson, per esempio, si dice abbia coniato il termine “cyberspazio”, oggi divenuto parte del linguaggio comune e utilizzato, anche, in contesti accademici. Artisti come Lu Yang e Zach Blas attraverso le loro installazioni creano degli spazi in cui siamo invitati ad interfacciarci con interpretazioni del mondo complesse, radicate nel reale, fittizie, ma plausibili. Ma non esiste solo la fantascienza, basti pensare al contributo di autori come Mark Fisher, Yuk Hui, Bruno Latour e Maurizio Lazzarato, per citarne alcuni, che hanno contribuito, in modi diversi, allo sviluppo di una coscienza collettiva rispetto a temi in cui la speculazione diviene essenziale per poter immaginare scenari futuri. 

SB + MZ: Sei palermitano ma da anni vivi in Svizzera. In un tuo lavoro, How to Secure a Country (2014-2019), hai focalizzato l’attenzione proprio su questa tua nuova “casa”. Le prime cose che abbiamo pensato semplicemente leggendo il titolo del tuo progetto sono state il segreto bancario e l’industria militare svizzera. Quali sono le questioni su cui questo progetto si focalizza?

SV: La Svizzera è una nazione molto complessa. Mi sono trasferito da Palermo quando ero ancora molto giovane e stavo per iniziare la mia vita da adulto. Non conoscevo la Svizzera a quel tempo e, in un certo senso, è stato un bene per me. Nel corso degli anni ho cercato di formare una mia personale comprensione delle principali caratteristiche della cosiddetta Swissness. Sono sempre stato interessato e affascinato dallo sviluppo di un paese così piccolo ma complesso, dove gran parte della popolazione è costituita da stranieri e dove un sistema plurale di lingue, culture e credenze ha reso possibile una nazione che, definizione, era formato da “un contratto”. Pietro Bellasi, nel suo bel saggio “L’isola dell’altrove” descrive bene l’identità svizzera: “In effetti, non c’è dubbio che la tanto dibattuta identità elvetica , ‘la svizzerità’, la ‘suissitude’ […] consiste proprio in una mancanza di identità fatta di frammentazioni, di differenze etniche e culturali, se non di incongruenze, nientemeno, tenute insieme da un sistema federale di complicate alchimie politiche e amministrative”. Nel 2014, come conseguenza all’iniziativa popolare contro l’immigrazione di massa e all’instabilità politica Europea fra le crisi migratorie e il sorgere di movimenti populisti e di destra in diverse nazioni, ho deciso di esplorare il tema della sicurezza sfruttando la mia posizione privilegiata da cittadino di una delle nazioni più sicure al mondo. Ovviamente, quando si parla di sicurezza e di sistemi, bisogna fare i conti con una complessità di fondo che è difficile da interpretare o immaginare quando ci si approccia per la prima volta al tema. How to Secure a Country è stato un percorso di ricerca, di scoperta e collaborazione che va molto oltre il segreto bancario o l’industria militare svizzera. Ho toccato molti temi: dalla robotica e lo sviluppo di tecnologie per la sicurezza, alla predizione di crimini attraverso sistemi algoritmi, alla migrazione, i confini, la sicurezza informatica e il complesso sistema assicurativo. Ho deciso di assumere una prospettiva privilegiata, lavorando dall’interno e collaborando attivamente con alcune delle istituzioni che producono sicurezza in Svizzera. Questo, indubbiamente, mi ha portato a fare delle rinunce in termini di libertà espressiva, ma allo stesso tempo mi ha permesso di divenire parte del sistema stesso. Il lavoro, infatti, si pone come una ricerca visiva che mostra e svela dei meccanismi altrimenti invisibili. Si basa su questa idea di svelare l’invisibilità di un sistema per poter permettere al pubblico di capirne il funzionamento e creare una sorta di presa di conoscenza su come esso influenzi il quotidiano. 

Salvatore Vitale – How to Securea Country Installation View Lianzhou 2018 © Sylvain Terret
Salvatore Vitale – How to Securea Country Installation View Foam Talent 2019 © Salvatore Vitale
Salvatore Vitale – How to Securea Country Installation View – Foam Talent 2019 © Salvatore Vitale

SB + MZ: Nel rapporto tra immagini e capitalismo, dove i metadati sono diventati merce preziosa per creare ulteriori profitti, che valore ha l’invisibilità, dove per invisibile intendiamo i luoghi nascosti che sono stati riconvertiti in storage,  in grandi contenitori di dati sensibili globali, come per esempio i circa 300mila bunker militari che in Svizzera ora ospitano data center e hub per la ricerca scientifica?

SV: L’infrastruttura è comunque alla base del mondo effimero ed elusivo legato al capitalismo della sorveglianza (per citare Zuboff). Sebbene ci sia ancora un’aura di misticismo astratto intorno ai big data, l’argomento è preso sempre più seriamente, ad esempio nei discorsi sulla relazione tra flussi di informazioni, valore economico e privacy, che influenzano le agende politiche, economiche e sociali in tutto il mondo. C’è bisogno di una nuova consapevolezza dei confini tra il fisico e il virtuale, per quanto sfocati possano essere diventati. Dobbiamo fare uno sforzo per riconoscerli e ridefinirli. Dobbiamo trovare nuovi modi di narrare il mondo, non cercando di disfare la nostra nuova realtà tecnologica, ma comprendendo il suo funzionamento e abbracciandolo criticamente. Nel mio lavoro e in modi diversi, ho esplorato sia la componente fisica del tema e, dunque, l’infrastruttura che permette a questi sistemi di operare ed espandersi. Sia la componente intangibile. Ho utilizzato strategie diverse per farlo, ma il mio bisogno risiedeva comunque nell’identificare e sottolineare l’elusività e l’invisibilità (reale o percepita) di tali sistemi. Ho visitato, per esempio, alcuni di questi bunker militari riconvertiti a data center in Svizzera, luoghi dove le informazioni vengono archiviate e gestite in modo sicuro. Queste strutture sono promosse attraverso campagne di marketing che sottolineano la stabilità, l’affidabilità e la precisione dei servizi di sicurezza offerti. Le immagini utilizzate in queste campagne combinano elementi tradizionali di vigilanza con la bellezza del paesaggio svizzero. È davvero interessante come il lato hi-tech sia spesso messo da parte per lasciare spazio a elementi naturali che promuovono una sorta di pace e stabilità. Non è un caso, infatti, che molti di questi data center promuovino le loro attività focalizzandosi su temi quali la stabilità e la concretezza veicolata dagli elementi tipici del paesaggio alpino Svizzero come roccia, riserve d’acqua e architettura. In questo modo, il data center diventa un simbolo di continuità high-tech che supera i confini territoriali e che è protetto sia da pericoli ambientali che dalle leggi e dai regolamenti svizzeri. 

SB + MZ: Ci parleresti di YET Magazine? Come è nato questo progetto e come si rapporta al tuo lavoro artistico e di ricerca?

SV: YET magazine è un progetto nato ai primi tempi della mia carriera, in maniera spontanea. Con Nicolas Polli abbiamo deciso di creare un magazine che unisse un approccio critico alla fotografia con un’attenzione particolare all’immagine in sé. È stato un esperimento curatoriale ed editoriale che ha coinvolto gli artisti in ogni fase del processo, dall’editing alla stampa. Nel 2011, anno della sua nascita, c’era un grande fermento nel self-publishing e diverse pubblicazioni stavano emergendo, ognuna con approcci e discorsi diversi sulla cultura dell’immagine. Non ho mai considerato YET magazine come un progetto separato dalla mia pratica artistica, ma piuttosto come una piattaforma sperimentale per temi e soggetti che poi ho approfondito nel mio lavoro. La collaborazione è stata sempre la parte più interessante per me, come lo è del resto in tutti i progetti che sviluppo. Per oltre dieci anni ho avuto l’opportunità di collaborare con artisti, curatori, critici, scrittori ed esperti, condividendo punti di vista inclusivi, innovativi e, talvolta, provocatori. Tra i progetti a cui sono più legato ci sono gli speciali dedicati a scene interessanti al di fuori del mercato occidentale. Grazie a YET magazine ho sviluppato temi che ancora oggi sono molto presenti nel mio lavoro attuale, come ad esempio il numero sette del 2014, in cui abbiamo messo in discussione la nozione classica di documentario e proposto una prima analisi su come individuare nuove strategie per documentare una realtà sempre più complessa. Questo tema è ancora oggi alla base della mia ricerca artistica.

SB + MZ: Tra la visione precostituita (ereditata) e quella appresa (nel tempo), tra ricostruzioni della realtà attraverso abitudini del pensiero o azioni di routine e la attuale massiccia presenza delle tecnologie e delle elaborazioni macchiniche, come ti rapporti con il complesso mondo delle immagini fluide?

SV: Le rappresentazioni visive sono un mezzo diretto, rapido e accessibile per un vasto pubblico online e non. Molti vedono questo come una nuova era di democratizzazione, ma queste immagini possono anche influenzare il nostro processo di costruzione di significato. Ciò porta, per esempio, all’emergere di narrazioni “alternative” basate sulla disinformazione e propaganda. Seppur per me la pluralità di narrazioni è essenziale, è anche necessario fornire strumenti per contestualizzare il visivo e promuovere una riflessione critica. Personalmente, credo l’attenzione dovrebbe essere rivolta all’uso stesso che si fa delle immagini piuttosto che alla loro creazione in quanto, oggi, siamo consapevoli del fatto che un’immagine può essere prodotta da macchine, manipolata o generata artificialmente. Inoltre, queste immagini e narrazioni si diffondono ad una velocità estremamente elevata, grazie alla facilità di condivisione e alla viralità. Questa velocità è strettamente correlata all’accessibilità, ed è influenzata da concetti come il tempo reale, il live streaming e la performatività. Questi concetti permeano il modo in cui approcciamo e raccontiamo il mondo, ma allo stesso tempo sono subordinati alla mediazione tecnologica. Per questo motivo, diventa fondamentale riconoscere le implicazioni della velocità con cui le immagini si diffondono nella società, in quanto i tempi di reazione, produzione e ricezione del visivo cambiano di conseguenza. 

SB + MZ: Dopo tutto quello che abbiamo evocato in questa intervista, come hai ricalibrato il visivo (nel corso del tempo) alla luce del cambio di statuto delle immagini?

SV: Ho accennato in diversi passaggi come la mia percezione della fotografia sia cambiata nel corso del tempo. Indubbiamente, l’immagine fotografica rimane abbastanza centrale nel mio lavoro, ma questo si è espanso per abbracciare altri linguaggi che mi permettono di espandere il mio in cui mi interfaccio ai miei soggetti. Credo sia un momento molto interessante in quanto stiamo vivendo una nuova rivoluzione legata al fotografico. La fotografia è sempre stato un medium in transizione, lo è ancora oggi, ma forse in maniera più netta. E infatti siamo qui a parlarne. La tecnologia sta influenzando enormemente il modo in cui creiamo, riceviamo e interpretiamo le immagini. E credo sia responsabilità di chi con queste immagini ci lavora, mediare e sperimentare in maniera critica possibili applicazioni e utilizzi nei vari ambiti che compongono la nostra società. È pure vero che è difficile parlare di fotografia – o immagini – in quanto la loro natura e il loro utilizzo cambia a seconda del contesto e del campo di applicazione in cui sono inserite. Non amo generalizzare, ma per cercare di arrivare a una conclusione, il mio personalissimo modo di approcciarmi all’immagine si basa su un mix fra ricerca, medium e narrazione. In tal senso, non mi sento particolarmente legato ad un determinato metodo o utilizzo, a un particolare modo di creare immagini, ma provo sempre a capire quale siano i determinati metodi e utilizzi che posso applicare per veicolare al meglio le mie storie. 

Salvatore Vitale – How to Securea Country book 2019 © Salvatore Vitale
Salvatore Vitale – Persuasive System – Oudoor installation – Lugano Switzerland 2020 © Salvatore Vitale
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