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AUGMENTED IMAGES — Conversazione con Donato Piccolo

 ‘Augmented Images’ — Intervista di Sara Benaglia e Mauro Zanchi — Sara Benaglia e Mauro Zanchi: Ciao Donato, ci eravamo incontrati tempo fa, in aprile 2023, alla Palazzina dei Giardini dello FMAV in occasione della collettiva “Is this real? L’arte all’epoca della Game Engine Culture”, curata da Valentino Catricalà. Mentre parlavamo ogni tanto ti abbassavi per rimettere […]

Donato Piccolo, Dama con l’Arduino (2021-22). Courtesy Foundation DEVILLANELLE, Belgio
Donato Piccolo, Coniugi adottati (2022). Courtesy Galerie Italienne, Paris

 ‘Augmented Images’ — Intervista di Sara Benaglia e Mauro Zanchi —

Sara Benaglia e Mauro Zanchi: Ciao Donato, ci eravamo incontrati tempo fa, in aprile 2023, alla Palazzina dei Giardini dello FMAV in occasione della collettiva “Is this real? L’arte all’epoca della Game Engine Culture”, curata da Valentino Catricalà. Mentre parlavamo ogni tanto ti abbassavi per rimettere a posto la tua scultura, composta da un vecchio televisore e zampe meccaniche a granchio. Mentre l’algoritmo sviluppava al suo cammino, la scultura cercava di scappare dalla Palazzina…

Donato Piccolo: Ciao, ricordo molto bene il nostro incontro, era nel momento delicato in cui testavo la scultura ‘’Video Machine Mobile’’, un televisore anni ‘70 dotato di gambe robotiche e di intelligenza artificiale, capace di comunicare con il pubblico attraverso frame di filmati estrapolati dall’interno della sua memoria video. Questa scultura venne soprannominata ‘’Crab’’ per il suo colore rosso da granchio, ma anche per l’affezione rivolta dai guardiani del museo verso la scultura. L’algoritmo di quest’opera ha un codice molto complesso e la programmazione permette non solo dei movimenti fluidi, ma anche dei comportamenti inaspettati, avendo internamente al codice numerose variabili, che sommate spesso sembrano generare risposte comportamentali imprevedibili.

SB+MZ: La quantità di varianti che immetti nel codice fa sì che Video machine mobile aca crab agisca con autonomia. Come è nato questo lavoro? 

DP: L’idea nacque dall’invito della curatrice Valentina Valentini per una mostra sulla video arte organizzata a Palazzo delle Esposizioni a Roma. il mio nome fu proposto alla curatrice da un altro suo collega e amico: Valentino Catricalà. L’idea di creare un monitor intelligente piacque subito alla curatrice. Da quel momento avevo la responsabilità di creare un’opera che non deludesse le aspettative di entrambi e soprattutto che potesse essere un punto di passaggio concettuale tra la video arte e la robotica. Non sono un video artista ed essere stato invitato in una mostra importante di video arte, confrontandomi con i grandi di questa disciplina artistica, era per me un onore ma soprattutto una sfida linguistica molto forte. In fondo non esporsi al massimo nell’atto creativo risulta un’operazione solo fine a sé stessa. Certe volte bisogna assumersi dei rischi, che determinano future possibilità verso nuovi linguaggi creativi. Diciamo che credo molto nel concetto di rischio.

SB+MZ: Video machine mobile aca crab è stata scelta da un artista in Olanda come protagonista di un film. C’è emotività negli algoritmi? C’è comprensione?

DP: Il regista ha vissuto in Olanda ma è italiano, si chiama Giacomo Piperno. Quando vide la scultura in mostra a Palazzo delle Esposizioni pensò ad un lungometraggio, la cui trama girava sulla stessa scultura. La scultura ha funzionato da innesto psicologico per la protagonista, per esternare la sua parte psicologica nascosta. Era un meccanismo per creare un outing. Ovviamente la scultura ha una propria autonomia. L’algoritmo interno alla scultura risponde in tempo reale, ma non ha una sintassi di recitazione interna. Insomma, la scultura non recita altro che sé stessa e non riesce a simulare una realtà differente da quella programmata nel suo processore. In fondo l’algoritmo serve a dare elementi di causa ed effetto tali da simulare un’identità, nonostante “crub” non abbia una identità vera, ma solo un agglomerato di codici di risposta a situazioni simulate nel suo stesso codice. Finge di essere reale, non trattandosi di intelligenza artificiale, ma è una sorta di “deficienza artificiale”. E si pone solo “interrogativi” sulle sue azioni future e non sulle prevedibilità future. L’essere umano si differenzierà sempre da un computer perché vive anche nella “prevedibilità” di un futuro e dei suoi possibili imprevisti. 

SB+MZ: Hai lavorato al CNR come artista in una equipe con 14 ingegneri. Come è andata? Quale contributo ti è stato richiesto all’interno di un gruppo abituato a realizzare strumenti e dispositivi tecnologici con una visione scientifica?

DP: Tanti anni fa, quando cominciai a programmare al computer da autodidatta, fui coinvolto dal CNR per sviluppare alcuni programmi con linguaggi che poi si sono sviluppati con Phyton o Linux. In realtà, al tempo ero il meno capace del gruppo di ingegneri ma il più curioso. La mia curiosità è sempre stata molto alta verso il mondo scientifico e questa esperienza mi stimolò ad interagire con figure scientifiche e creare poi un punto di contatto tra arte e scienza. Per esempio, ultimamente ho collaborato con il fisico Giovanni Romeo, ex dirigente tecnologo dell’INGV, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Insieme stiamo sviluppando un’opera sul concetto di movimento del nostro pianeta e sulle conseguenze di una sua eventuale stasi, anche se ci vorranno centinaia di millenni ancora perché questo accada. In un certo senso prevedere il futuro è sempre stato, a mio avviso, il ruolo dell’artista. Comunque questa collaborazione con Romeo sicuramente genererà un’opera, ma siamo ancora agli inizi.

SB+MZ: Nel (tuo) sito https://strathosphereffect.com/SpaceCommunity si trovano anche intelligenze artificiali che creano composizioni simbiotiche tra uomo e universo. Ci potresti parlare di questa apertura?

DP: Beh, diciamo che inizia come un gioco ma poi, come si dice, il gioco si fa serio, condiviso con amici, che hanno fondato un gruppo spaziale chiamato Abachos. Guidati dall’ingegnere Amedeo Lepore abbiamo sondato lo spazio, o meglio la prima stratosfera a circa 35.000-50.000 metri da terra.  Attraverso circa 27 sensori e 5 videocam, alcune delle quali anche a 360 gradi di visione, riusciamo a cogliere dati, video, e tramite un sistema appositamente studiato trasportare non solo il velivolo ad altezze elevate ma anche a farlo ritornare sul suolo terrestre in un punto precedentemente indicato. Sembrerà incredibile, ma gli Abachos sono i primi a riportare un velivolo sulla terra che non sia uno shuttle o una sonda spaziale iper-costosa. Da qui è nata l’idea di capire l’universo attraverso il suono, ovvero le frequenze che l’universo emette e codificarle in strumenti musicali, cercando in un certo senso la “melodia dell’Universo”, una visione utopica che fa sconfinare l’uomo dai suoi limiti. Considerate che il suono udibile sulla terra è costituito da vibrazioni che viaggiano a 440 hertz, mentre l’universo vibra a circa 432 hertz. Questo permette alle vibrazioni di entrare nella struttura molecolare e nel corpo umano con effetti nella psiche. Praticamente queste vibrazioni sviluppano “condizioni” ipnotiche nel corpo umano, generando quindi “pensieri” differenti nella mente umana. La sfida del futuro non sarà inventare nuove apparecchiature o sistemi ultrasofisticati, ma incrementare in maniera differente i propri pensieri.

Donato Piccolo, Hey Stein (2020). Foto M.Illuminati. Courtesy Tommy Pierce Collection
Donato Piccolo, Strathosphereffect, Sonda spaziale (2023) ©Donato Piccolo

SB+MZ: Ci viene in mente il film Scanners di David Cronenberg, dove il dottor Ruth dice allo scanner Cameron: «La telepatia non è la lettura della mente, è un diretto legame tra due sistemi nervosi separati solo dallo spazio». Nelle tue opere si innesca un legame simile a quello presente nella trama del film o percorri altre derive?

DP: Penso ci sia un collegamento tra tutte le cose in una formula totale. Tutte le cose sono collegate tra loro e cessano di esistere se manca il collegamento, anche con una loro piccola componente. L’arte cerca sempre vie di comprensione verso l’incomprensibile, per generare momenti onirici nell’essere umano. Si parte sempre da un sogno, spesso utopico, di comprensione non solo del nostro mondo e dell’universo in cui è racchiuso, ma anche della stessa interpretazione poetica di questo che porta l’uomo a “visionare” altre possibilità di pensiero. In fondo siamo umani e le nostre verità non possono distaccarsi da una visione umana del mondo. Diciamo che l’unica verità che possiamo avere è quella umana e non universale. Ma questo ci piace, ci porta a sognare e l’uomo, come diceva il poeta scrittore Ferdinando Pessoa, non deve mai mancare al sogno di poter sognare. Le mie opere sono meccanismi di innesto dei sogni, piccole visioni estetiche di possibilità di espanderci stimolando la mente e i sensi. Lo spazio che utilizziamo nella fisica è reale e delinea una formula ben precisa. Se Velocità è uguale a Spazio fratto Tempo, quello che si utilizza nell’arte è uno spazio illimitato, spesso costruito nella nostra mente. 

SB+MZ: Per te che cosa è lo spazio?

DP: Se nella fisica lo spazio è l’entità indefinita e non limitata che contiene tutte le cose materiali, nell’Arte lo spazio è l’entità indefinita e non limitata che contiene in sé tutte le cose immateriali. L’artista lavora con l’immaterialità dell’essere e tramite l’essere identifica uno scopo di esistenza. Questo ci rende esseri coscienti, sensibili e speciali.

SB+MZ: Hai uno studio a Shanghai e uno a Roma. Viaggi spesso?

DP: Sì, anche se in Cina non vado da prima del Covid. Viaggio spesso, ma ultimamente mi sveglio senza sapere in che luogo o città sono e questo al momento mi spaventa molto.

SB+MZ: Hai lavorato come assistente di Sol Le Witt, nello specifico ad alcuni suoi wall drawings. Che cosa è per te la tecnologia in relazione all’arte?

DP: È un mezzo. La tecnologia è solo un mezzo che permette all’uomo di comprendere e paragonarsi al suo io interno. Anche un artista come Sol Lewitt era un artista tecnologico, ma la sua tecnologia era nascosta. Mi spiego meglio. Per la creazione delle sue opere era fondamentale l’assenza di personalità da parte dell’artista. Sol Lewitt faceva realizzare le opere dagli assistenti guidati da un capo mastro, suo assistente di fiducia, e fino alla fine, al risultato del suo progetto, non vedeva l’opera per non modificarne il risultato. In un certo senso “usava” le persone come strumento per un fine.  Si può dire che era come se programmasse un lavoro, come se stesse dando un comando ad un computer, e poi aspettava il risultato. Ma, a differenza di un computer, nella fase di realizzazione del suo lavoro, potevano esserci degli errori in quanto la realizzazione era umana e concettualmente non perfetta. Citando il campione di scacchi Kasparov: il computer non suda.

SB+MZ: AI o deficienza artificiale? A che punto siamo in questo momento storico in relazione a questa possibilità di azione o di ulteriore sviluppo?

DP: In quest’ultimo periodo sto cambiando punto di vista su questo. Dopo lo sviluppo del software Chatgpt vocale abbiamo raggiunto quasi un’armonia col digitale. Le aspettative dell’uomo nei confronti della macchina sono diventate talmente alte che l’uomo non si è fermato al semplice calcolo, ma vuole raggiungere un’identità mancante. Da poco sto ipotizzando che riusciremo veramente a dare coscienza ad una macchina. Stiamo sviluppando reti neurali che imparano talmente velocemente dai loro stessi algoritmi che forse raggiungeranno le conoscenze umane. Ma ancora non prevedo il valore onirico ed empirico di una macchina. L’uomo fa esperienze proprie e questo prevede un continuo sviluppo della sua coscienza. Programmare una coscienza vuol dire eliminare l’imprevedibilità emotiva che questa può avere con il suo io, ed anche questo è un’esperienza che ancora non possiamo trarre dal computer.

SB+MZ: Molti, in ogni ambito, temono sempre più l’espansione a macchia d’olio della AI. Persino creativi, artisti, fotografi hanno paura di perdere il predominio della creatività e dei processi immaginativi, e di essere surclassati dalla superpotenza delle intelligenze artificiali in grado di connettersi a milioni di giga di dati e di creare immagini sempre più evolute. Quale è la tua visione profetica su questi timori?

DP: L’Intelligenza artificiale è un mezzo e se un artista non capisce questo si ritroverà sempre indietro rispetto al suo potenziale non espresso. Per me è divertente vedere come si sviluppa questa AI e il problema non sarà sostituire la creatività o eliminare ruoli nell’arte, ma come questi si svilupperanno in maniera ancora insospettabile. L’artista che lavorerà con le tecnologie dovrà capire come comunicare con la sua parte digitale tecnologica. Credo che il nostro futuro sia indirizzato verso le nostre intenzioni. Ci saranno comunque sempre persone che daranno le direzioni verso cui muoversi. Forse saranno quelle che hanno una visione più aperta verso un futuro futuribile.

Donato Piccolo, L’insostenibile leggerezza dell’essere (2022). Courtesy Galerie Italienne, Paris
Donato Piccolo, Video Machine Mobile II (2023). FMAV – Fondazione Modena Arti Visive. Courtesy dell’artista. Foto R. P.Guerzoni

SB+MZ: Alcune tue sculture presentano “uomini che si travestono da robot”. Iggy pop con la faccia di Mad Max è un miscuglio del meglio che hai visto. Che fantasie hai a proposito di queste associazioni di immagini e significati?
DP: Nella serie ‘’uomini che si travestono da robot’’ emerge la voglia dell’uomo di utilizzare la tecnologia, ma senza capirne veramente gli effetti. È l’ansia di vedersi imprigionati in un’identità a cui non si appartiene, essere assenti in un presente sconosciuto. Insomma, queste opere sono una specie di critica contro l’appropriarsi dell’immagine di un mondo a cui non si appartiene. È una visione malinconica e poetica del nostro futuro. Questa serie si ricollega alla Lettera sull’immortalità del corpo (1969) di Gino de Dominicis in cui l’artista, rivolgendosi a una presunta amata, si proponeva in un giorno ipotetico di portare a spasso una gallina ed essere proprio lui sé stesso a farlo.

SB+MZ: Stai lavorando a sculture di acqua che si bloccano nel tempo. Che progressi hai raggiunto finora?

DP: Come ben sapete, sto cercando di creare sculture fatte di acqua, plasmate da frequenze sonore dai 23 ai 27 hertz, che determinano illusioni ottiche allo sguardo umano.  Bloccare nello spazio un elemento naturale quale l’acqua può risultare assurdo, ma proprio per questo sconfina i limiti fisici dell’uomo.  Ancora non ho raggiunto un risultato soddisfacente per me, dato che l’acqua è imprevedibile e non una forma statica, ma proprio cresce il senso di sfida verso la materialità del mondo fisico. Immagino sculture prive di gravità che possano adattarsi a forme non solo terrestri ma anche extraterrestri. 

SB+MZ: Sempre più ci stiamo avvicinando a una coazione tra umani e cyborg o androidi. Qui ti poniamo una domanda dal punto di vista artistico, considerando questi esseri pensanti come sculture che interagiscono con i fruitori. Cosa pensi in generale sulla questione? Hai lavorato su queste possibilità di interazione?

DP: La vostra domanda è realmente attinente ai miei progetti attuali in cui sto sviluppando sculture che, non solo interagiscono col fruitore, ma assimilano i suoi comportamenti. La mia idea di arte vuole svilupparsi in contrapposizione con il concetto del “fruitore che osserva l’opera” dando all’opera un’identità differente, tale da essere “lei stessa ad osservare il fruitore”, memorizzandone gli atteggiamenti per svilupparne dei nuovi. Più fruitori osserveranno l’opera e più l’opera imparerà da loro, traendone alla fine un insieme di dati che saranno nella loro totalità il risultato di un “globale umano”.  Vorrei mettere una scultura in mostra non per sensibilizzare gli spettatori ma per analizzarne il loro essere umano.

SB+MZ: Quale è il progetto più psichedelico (nel senso di profezia futuribile in grado di cogliere in anticipo sui tempi questioni e dispositivi che accadranno più in là nel tempo) a cui hai lavorato o su cui stai ragionando?

DP: Come avevo detto precedentemente, sto allargando i miei orizzonti su questioni extraterrestri, nel senso che sto cercando di creare una specie di ‘’Butterfly Effect’’ tra la Terra e l’Universo, lanciando sonde nello spazio capaci, in streaming, di interagire con sculture sulla terra. Ho sempre avuto un debole per la teoria di E. Lorenz del 1962, in cui lo scienziato si domandava: “Può il batter d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?”.

In pratica, come descritto prima, tutto è connesso e, in un qualche modo, conseguente ad un altro. Siamo sempre la continuazione di qualcos’altro e viviamo per un altro. Questa è un po’ la storia dell’uomo nella ricerca continua di qualcosa che neanche lui conosce e sicuramente mai conoscerà: il sogno della ricerca continua che ci porta a non annoiarci in questo pianeta.

SB+MZ: Sei stato recentemente arrestato. Ti va di raccontarci cosa è successo?

DP: Vero. Ultimamente mi hanno arrestato mentre lavoravo su delle opere, riproduzioni di quadri storici, soprattutto caravaggeschi, al cui interno inserivo, oltre a circuiti elettrici e bobine di Tesla, delle armi a fuoco e lanciafiamme per sottolineare ancor di più quanto l’arte sia pericolosa e stupida. Questo non è piaciuto molto alle forze dell’ordine, che in un blitz nella mia residenza hanno trovato un vero e proprio arsenale tra pistole, lanciafiamme, esplosivi, che utilizzavo nelle performance, e maschere in lattice utilizzate per coprire i volti dei meccatronici costruiti. Ovviamente agli occhi di un esterno potevo sembrare uno di quei terroristi pronti ad un attentato imminente e questo ha provocato un arresto immediato e, come succede agli individui altamente pericolosi per la società, un processo per direttissima, ovvero dovevo essere immediatamente giudicato agli occhi della legge. Per fortuna in aula i giudici, dopo aver fatto una ricognizione veloce su internet e visionando le opere, hanno capito che si trattava di un malinteso e nonostante che il reato ci fosse, dopo aver consegnato a loro il catalogo della mostra, la pena è stata cancellata. In fondo non è stata la prima volta che con l’arte mi sono esposto ai limiti del sociale, ma questo mi fa capire che sto andando nella giusta direzione.

Donato Piccolo, Untitled #1, scene film diretto da G. Piperno, foto Jordyn Turner.
Donato Piccolo, Untitled #1, scene film diretto da G. Piperno, foto Jordyn Turner.