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English text below
In occasione della sua personale asnatureintended alla galleria Frutta di Roma, ATPdiary ha intervistato Marco Giordano —
ATP: Il testo di presentazione della mostra, scritto da Antonia Alampi, inizia rilevando quanto sia illusoria l’immagine dell’invito. Virata di rosso, la fotografia mostra una mano che, delicatamente, tocca una pera-budda. Perché l’hai scelta? Cosa nasconde o rivela?
Marco Giordano: Volevo che tutto partisse con quell’immagine strana ed emblemtaica, astratta dall’estetica della mostra. L’immagine l’ho trovata su internet come tante altre immagine che ispirano il mio lavoro. Ha colpito la mia attenzione a livello iconologico, perchè crea una bizzarra combinazione tra il religioso, nella forma del buddha, il mangiare, in quanto frutto commestibile e la produzione di massa di un prodotto organico per un mercato iniziato in oriente ma che vorrebbe espandersi anche in occidente. Quest’immagine per me rappresenta non solo il continuo tentativo dell’uomo nel controllare la natura ma il suo limite di capire solamente se stesso, in quanto tutto può essere unicamente filtrato o interpretato soltanto dal suo punto di vista. Per questo motivo volevo mettere un filtro rosso sull’immagine così come all’ingresso della mostra usando una tenda rossa di PVC.
ATP: Mi racconti il significato che hai dato a “asnatureintended”?
GM: asnatureintended vuole essere un controsenso, un’ astrazione. Così come la pera-budda che è a tutti gli effetti ancora un frutto ma allo stesso tempo non lo è più, è diventata una rappresentazione di un’idea sulla natura, che vuole essere trattata e modificata considerando solo il nostro punto di vista in quanto esseri umani.
ATP: Per la realizzazione delle tue opere, dove inizia l’idea di partenza? Parti dai materiali, da un’idea o cos’altro?
GM: Dipende, lavoro con estetiche differenti e penso che abbiano tutte un inizio o una storia diversa, però quasi tutte le mie opere partono da un’esperienza autobiografica. Ad esempio i dipinti con le stampe lenticolari ho iniziato a pensarli comprando un paio di stampe in HMV in un negozio di dvd e musica. In quel periodo l’azienda era in difficoltà, quindi c’erano degli sconti enormi su tutti i prodotti, con il 60% o 80% di sconto. Non potevo dire di no. In un certo qual modo mi piace pensare che quel lavoro sia iniziato dalla crisi economica. Poi attraverso il processo di continua sperimentazione i dipinti sono evoluti, sono cambiati e continueranno a cambiare, però tutto è partito da lì, dalla recessione, ed anche dai ricordi d’infanzia trovando delle figurine lenticolari nelle scatole delle merendine.
ATP: Come hai rivelato tu stesso, spesso dei lavori posso nascere per caso, come quello di ritrovare dei materiali (o dei manufatti) in svendita… Nel caso invece delle sculture presenti in mostra, cosa ti ha attratto nell’utilizzo di questo materiale? La facilità con cui può essere lavorato? La sua economicità?
GM: Sì, nel caso dell’installazione intitolata “The Shimmy Club” mi interessava sia l’economicità del materiale, ma soprattutto la schiettezza e semplicità plastica del silicone e PVC. Ho provato ad usare il silicone precedentemente ma con scarsi risultati. Ritrovandone un piccolo scarto in studio ho iniziato a pensare ad installazione ambientale data la sua caratteristica incorporea, leggera e trasparente, ma allo stesso tempo molto tattile e giocosa.
Essendo lo spazio abbastanza alto volevo dare un senso d’unione tra il soffitto e il pavimento enfatizzandolo e deformandolo. E’ un istallazione site specific che vuole mettere al centro l’esperienza il visitatore in quanto solo il suo attraversamento dello spazio attiva il silicone facendolo ondeggiare e vibrare come in una danza.
L’installazione inizia fuori dallo spazio espositivo con il semplice colore rosso del pvc, che si riflette dentro e fuori lo spazio. Ponendo così un filtro che omogeneizza e vela su tutti i lavori all’interno , ma anche creando due punti di vista differenti della mostra: quell’interno caotico fatto di diversi elementi e quello esterno calmo e distaccato.
ATP: Come ruderi, questi ritratti sono assaliti da piccole piantine, erba ecc. C’è una relazione tra la materia plasmata e la caotici della lieve vegetazione?
GM: Le teste di ceramica sono un unico lavoro costituito da 27 pezzi, eseguito da 27 persone diverse per le quali ho posato come modello. E’ un opera sociale collaborativa. Lavoro spesso attraverso diverse comunità, in questo caso volevo lavorare con la mia comunità di Glasgow, persone che fanno parte delle mia vita quotidiana. Il progetto era molto semplice, ho fatto una lista di persone e li ho invitati nel mio studio chiedendogli di rappresentarmi come meglio potevano. Quasi tutte persone non hanno mai modellato l’argilla precedentemente, quindi il risultato è spesso molto naive, spontaneo, che non segue regole o trucchi accademici. Cercando semplicemente di creare qualcosa che si avvicina il più possibile a miei tratti somatici, ma spesso e volentieri assomiglia molto di più alla persona che ha cercato di rappresentarmi. Seguendo questo processo di creazione spontanea, artificiale, ho voluto associare un’altra creazione spontanea, naturale che è quella delle erbacce, le quali sono state raccolte nei dintorni di Roma, proprio per dare vita a un opera in stretta relazione tra Glasgow e Roma.
ATP: Mi contestualizzi anche le opere a parete? Hanno una relazione con le sculture?
GM: Le opere a parete sono dei dipinti fatti usando un bicomponente chiamato jesmonite, viene utilizzato molto nell’edilizia ed è definito come un nuovo tipo di cemento e stucco. Ho iniziato ad usarlo negli ultimi anni. E’ un materiale malleabile, di base acrilica nel quale ho mischiato del terriccio e della sabbia della Scozia. Una volta asciutto viene levigato e infine lucidato per riflettere più luce possibile. All’interno dei dipinti ci sono delle stampe lenticolari le quali si “muovono” a seconda del tuo movimento, come il silicone.
Tutti i lavori hanno un linguaggio indipendente, ma si aprono entrando in relazione tra loro, creando un punto di vista più complesso del lavoro individuale, come un paesaggio naturale e artificiale costituito da elementi armonici e discordanti. Per questo motivo ho voluto intitolare la mostra asnatureintended perchè è un riferimento all’ambiente odierno, pesantemente modificato dall’uomo, in un continuo cambiamento, fatto di plastica, d’erbacce e immagini tecnologiche, ma che diventa infine un corpo unico anche se scomposto.
Marco Giordano — asnatureintended
Fino al 5 November 2016
Testo di Antonia Alampi
L’immagine dell’invito potrebbe essere un deterrente. Il culto della natura addomesticata (cinese o giapponese che sia, qui nella forma di una pera-Buddha, velata di rosso) non vuole assumere sembianze culturalmente riconoscibili. Vuole introdurre altro.
Perché le immagini, e non solo quelle di Marco, vogliono sempre qualcosa. Potrebbero dirci, per esempio, che l’impatto dell’umanità sulla natura è così influente e ormai così definitivo che una nuova epoca geologica sta per essere dichiarata.
Potrebbero stare annunciando: Signori e signore l’Olocene, l’era cui siamo abituati da circa 11.700 anni, è finita. Finita! Finita per lasciare il passo all’Antropocene, in un pulviscolo di scorie radioattive disperse nell’atmosfera grazie ai test delle bombe nucleari e a stoccaggi impossibili, nel soffocamento dei mari prodotto da oceani di plastica, tra le polveri di miliardi di ossa di pollo allevati in tragiche batterie industriali.
Fermati un attimo, e pensa queste immagini. E ora, senza dimenticarle, prova a lasciartele alle spalle, e fatti guidare dalla volontà di nuove immagini tutte tinte (leggermente) di rosso.
Sogna questa scena. Sono (circa) trenta scultori non di professione (leggi: amatori) seduti intorno ad un uomo. Lui è bianco, maschio, caucasico, tratti definiti, capelli un po’ lunghi, barba à la page, deve avere trent’anni.
Loro, intenti a osservarlo e consapevoli di averlo prodotto concettualmente, si divertono a interpretarlo visivamente. Lui però è un’artista. Anzi, di più. E’ l’Artista.
Ora esci dal sogno e guarda le teste. Sono lui, sono loro e forse siamo noi. Sono tutte bianche, tutte maschie e tutte belle. Una critica a un sistema patriarcale occidentale, tendenzialmente eurocentrico, forse. O il riferimento è all’ormai antica questione della non centralità (e non eccezionalità) dell’artista? Aspetta, guarda meglio. C’è anche dell’erbaccia. Già, quell’erbaccia che si insinua anche tra i marmi e i graniti, nelle cose più preservate e preziose. Pensavamo fosse indomabile, caotica per definizione, ma invece è lì perché lui, l’Artista, ha voluto che ci fosse. Pensavamo fosse insignificante, è invece è qui a coronare la sua e la nostra testa (o opera?). I parametri canonici di attribuzione di valore si rivelano nella loro finzione. Apri gli occhi, adesso, e rifletti. Le associazioni possibili, qui, dovrebbero essere opera tua.
Ma – ti dice l’Artista – le cose troppo coerenti finiscono spesso per essere scontate, irrealistiche, innaturali. Del resto, anche il mondo dell’immaginazione individuale ha le sue regole stilistiche. Ora due pannelli, fatti di sabbia, di bronzo, di sabbia di bronzo (o una cosa del genere) ricoprono (mi pare di intravedere) delle immagini in movimento. Il movimento non è il loro ma è il mio, il tuo. Ci muoviamo noi, e si muovono loro. Un semplicissimo e banalissimo spostamento di prospettiva – quella che, sempre e ineluttabilmente, ha il potere di plasmare le cose e il mondo. E sotto questa corteccia di stratificazioni chimiche e fisiche si nasconde lei, l’immagine, impassibile e presente. Ma anche lei, l’immagine, anche lei è plasmata da me e da te, nonostante la sua soggettività, indipendente dalla nostra, sia stata ormai accertata. Non ha importanza decodificarla completamente. L’immagine è sussurrata, accennata, peraltro retta da una patata e altra frutta e verdura commestibile. Qui una sorta di poesia d’ispirazione surrealista sembra aver preso il sopravvento.
Sei confuso, lo so, lo sono anch’io. Anche questo è abbastanza prevedibile. Ma qui trovare una narrativa, lineare o complessa che sia, richiede tempo, perché i sassolini bianchi nel bosco se li è mangiati l’inquinamento globale, perché la gran parte del rapporto con il commestibile ce l’hai al supermercato o al ristorante, perché i suoni che emette un lupo te li racconta Wikipedia.
Al centro del mondo troviamo ancora e noiosamente lui, l’uomo (l’Artista?). Così tanto al centro da averlo ormai messo al margine, stancato e reso apparentemente impotente il mondo. Anche se, speriamo, ancora capace di immaginare. Perché la sua incredibile e impareggiabile immaginazione sarà l’ultima a bruciare. O forse a bruciare sarà solo lui, l’uomo. E il mondo si divertirà a rinascere. O a far rinascere i dinosauri. E chissà se poi era questo quello che voleva dirmi e dirci lui, l’Artista.
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Marco Giordano — asnatureintended
Until 5 November 2016
Text by Antonia Alampi
The image on the invitation could act as a deterrent. The cult of domesticated nature (whether Chinese or Japanese, here in the form of a Buddha-pear coated in red) doesn’t want to assume any recognizable cultural guise. It wants to introduce something else.
Because images, and not only Marco’s, always want something. They could be saying, for instance, that the effect of humanity over nature is so influential and by now so definitive that a new geological era is to be announced. They could be announcing: Ladies and Gentlemen the Holocene, the era we are accustomed to since 11.700 years, is over. Over! Over to make way for the Anthropocene through the fine particles of radioactive waste breaking up into the atmosphere thanks to nuclear bombing tests and to impossible stockings, via the chocking seas due to oceans of plastic, among the dust of billions of chicken (bones) dramatically bred in industrial batches.
Pause for a minute, and picture these images. And now, without forgetting them, try to let them go, and let yourself be guided by the will of new images all dressed in red.
Dream of this scene. There are (roughly) thirty non professional sculptors (read: amateur) around a man. He is white, male, Caucasian, with strong features, longish hair, a beard à la page, probably in his thirties. This crowd is visually interpreting him, while having produced him conceptually. But, He, is an artist. Actually, much more than that. He, is (tadam!) the Artist.
Now get out of your dream and look at these heads. Those are him, them, those are us. All white, all male, all pretty. Maybe a critique to a Western patriarchal system, essentially Eurocentric? Or is it a reference to the ancient issue of the not centrality (and not exceptionality) of the artist? Wait, look a bit closer. There is also some weed (for disambiguation: not the one you smoke). Instead, that weed that sneaks in between marbles and granites, that reaches to the most preserved and precious things. We thought it was indomitable, chaotic by definition, when instead it is there because he, the Artist, wanted it to be there. We thought it was insignificant, and instead it is here, crowning his and our head (or oeuvre?). The canonical parameters of value attribution reveal themselves in all their fictionality. Open your eyes, now, and reflect. The possible associations, here, should be your oeuvre.
But – the Artist tells you – excessive coherency often ends up being too obvious, unrealistc, unnatural. After all, also the realm of individual imagination has its stylistic rules. Now two panels, made out of sand, of bronze, of bronzed sand (or something along these lines) cover (what seem to be) moving images. The movement isn’t theirs, instead it’s mine, and it’s yours. We move, and they follow, in an incredibly simple and banal shift of prospective – the one that has, always and inescapably, the power to shape, to mold, things and the world. And under this cortex of chemical and physical layerings there she is, the image, impassive and present. But also she, the image, also she is shaped by me and you, despite the fact that her subjectivity, strongly independent from ours, has since long been ascertained. She doesn’t need to be entirely decoded. The image is whispered, insinuated, moreover stands on a potato and other edible fruits and vegetables. Here, a poem of surrealist memory seems to be taking place.
You are confused, I know, I am too. Also this is quite predictable. But finding a narrative, whether linear or complex, takes time, because the white little stones in the forest have been swallowed by global pollution, because most of your relationship with what is edible is mediated by supermarkets and restaurants, because you know what sounds a wolf produces thanks to Wikipedia.
At the center of the world we still annoyingly find him, the man (the Artist?). So centered to have put the world at the margins, standing still, fragile, impoverished, and apparently powerless. Even if, we hope, still capable of imagination. Because its incredible and incomparable imagination will be the last to burn. Or maybe the only one to burn will be him, the man. And the world will have fun in reviving. Or it will revive the dinosaurs. And I wonder if this is what him, the Artist, wanted to tell us.
Antonia Alampi