Testo di Elisa Del Prete —
È uscito per Spector Books un prezioso tascabile, che di tascabile ha non solo la forma ma anche la destinazione. Si tratta di un volumetto di trecento pagine con oltre cinquanta tra autori e autrici che esplorano questioni inerenti l’oggi, le sue emergenze, non tanto per denunciare una crisi, gridare al disastro e incrementare la già tanto discussa condizione di inguaribile disagio che vive la società attuale in relazione anche al disagio che l’ambiente stesso manifesta, ma per prendersene cura, tramite, prima di tutto, un semplice e accessibile strumento che è il dialogo.
AS IF – 16 Dialogues about Sheep, Black Holes, and Movement è un reader a cura di Angelika Burtscher e Daniele Lupo, realizzato in occasione dei vent’anni di Lungomare, una piattaforma per la progettazione e produzione culturale con base a Bolzano.
Di AS IF, di cui il titolo già dice dello sguardo in avanti che propone, tascabile è prima di tutto un approccio verso un gesto semplice e accessibile come il dialogo – che ognuno di noi ha in tasca -, che però va coltivato, nutrito, preservato, anche laddove la persone, le voci, le lingue e i discorsi possono essere anche molto diversi. Tascabile è un’attitudine a tenersi pronti con ciò che ci serve a portata di mano, pronti al cambiamento, all’adattamento, all’improvvisazione, a risposte che arrivano da altre domande, da altre voci rispetto a quelle che stiamo prontamente interrogando, da altri ambiti rispetto a quelli che stiamo pedissequamente esplorando, da altri esseri rispetto a quelli di cui comprendiamo la lingua. Tascabile è una sacca, una busta, una bustina, lo spazio per far scivolare una mano in cui conservare l’inutile e l’indispensabile, lo spazio “tra”, tra interlocutori che, appunto, dialogano.
So che “tascabile” non è esattamente un complimento con cui incensare un grande libro, ma è ciò che io stessa ho provato in queste settimane quando – per scriverne – me lo sono portato dietro, quasi sempre senza pensarci, senza che mai fosse un peso, certa che un margine di spazio-tempo per leggerne un pezzo l’avrei certamente trovato, un momento per leggerne una parte, in mezzo, senza segnalibro, e magari per rileggerne un’altra, per tornare indietro, per aprire un dialogo a un altro, solo apparentemente autonomi.
Autonomia: “capacità di autogovernarsi”, di non affidare o delegare le proprie regole.
“Autonomia” è una parola che impariamo dal Glossary for Societally Engaged Art che Barbara Holub, fondatrice (insieme a Paul Rajakovich) della piattaforma interdisciplinare transparadisocompone in dialogo con lo storico dell’arte Grant Kester, per ridiscutere il lemmario di una pratica artistica che ha caratteristiche precise, insieme ad esempio a “cambiamento”, in cui i due autori riconoscono nell’arte il posto di “ultima riserva della società capace di contraddire le regole neoliberali dominanti e le dinamiche di potere che ci governano”; e si potrebbe proseguire con macro-utopia, motivation, negation, passion, prefiguration…chiavi di lettura del procedere artistico che offrono a chi legge un orientamento nella retorica dell’arte per chi desidera fruirne.
Entriamo dunque nel vivo di questo volume. La prima cosa che fa AS IF è condurti nei tragitti di una mappa internazionale di pratiche artistiche, culturali, di vita che aprono mondi e modi per affrontare la dimensione di cambiamento che stiamo vivendo, una mappa vitale e preziosa, in cui non solo si ascoltano voci ma si appuntano testi, bibliografie, si apprendono ricerche, si viaggia da luoghi intimi a sconfinati. E la prima domanda che emerge durante la lettura è quante persone siano davvero a conoscenza di tali pratiche e possibilità, e quanto un volumetto come questo sia non solo piacevole e illuminante – da tenersi in tasca appunto – ma condensi nella sua stessa forma un intento politico che è quello di diffonderle e dare loro spazio.
Rubando le parole a una delle autrici (Federica Martini) che s’interroga – in dialogo con Cecilia Canziani – su quali spazi esistano oggi in cui ha luogo un reale “processo di apprendimento e formazione”, che siano prolifici e non sterili e soprattutto che lascino aperte possibilità di replica e contraddizione, propongo una mia riposta e dico: eccolo. AS IF è uno di questi spazi.
Scorrendo le pagine e immergendosi nei numerosi dialoghi in cui di volta in volta si è coinvolti, di cui si percepisce perfettamente la diversità dei toni e quasi dei timbri vocali, è come sedersi a un tavolo e mettersi in ascolto di chi sta parlando in quel momento, assumendo quasi il diritto di replica. La forma è tutto. L’essersi liberati dalla dimensione introspettiva del saggio o fattuale del contributo per approdare a quello del “rivolgersi a” permette di tenere aperte questioni e discorsi senza stabilire e definire, di affrontare le questioni attuali senza darne mai una soluzione, ma esplorandone gli aspetti. Quattro capitoli scandiscono il ritmo della pubblicazione (Activating Contextual Practices, The Public Space as a Field of Action, Sharing Knowledge e Sense of Belonging) mentre altrettante note di quattro “complici” fungono da collanti epiloghi.
La struttura del libro d’altra parte riflette l’organo da cui il volume ha origine, il cuore pulsante di una realtà altoatesina che da vent’anni produce cultura per continuare a farsi domande, non per darsi risposte. Angelika Burtscher e Daniele Lupo, curatori del libro, sono oggi i direttori artistici di questa realtà che nel 2003 prende metaforicamente il nome di Lungomare a Bolzano. Con AS IF hanno scelto di festeggiare il proprio ventesimo compleanno chiamando al dialogo coloro che già avevano attorno perchè invitassero altrettanti interloctur* (16 invitati ne hanno invitati altrettanti dando vita appunto a 32 dialoghi) e di cullarsi nell’abbraccio di quattro complici (Lisa Mazza, Roberto Gigliotti, Frida Carazzato, Marion Oberhofer) che in questi anni li hanno sempre accompagnati, talvolta più presenti talvolta meno, come sempre capita nel precario equilibrio delle nostre relazioni.
Un’istituzione culturale – scrive Lisa Mazza – agisce in uno specifico contesto geografico, politico, sociale, demografico, ambientale, topografico, botanico, zoologico, e more-than human che non è rigidamente fissato, che riflette non un’unità ma una molteplicità, ed è a sua volta pensato in connessione con altre molteplicità. Lungomare incarna molteplicità.
La chiave multidisciplinare, multidirezionale, multilinguistica (dovuta anche al territorio di confine che abitano) è certamente una scelta distintiva del modo di fare cultura tramite l’arte di Lungomare e il volume lo testimonia.
C’è una altro interessante glossario al suo interno che parte proprio dall’interrogarsi su come mettere in discussione i confini prima di tutto linguistici e di categoria che ci imbrigliano in una condizione di separazione – come la definisce Pablo Calderon Salazar, ricercatore esperto di pratiche creative situate e di forme di narrazione sociale nello spazio pubblico. Non parla di “non integrazione” o intolleranza, ma di separazione come quello stato – anche e prima di tutto – emotivo che viene prima dello stare distanti, la scelta del separare/rsi, di smontare ciò che è insieme per natura, di “scegliere, unificare, centralizzare, gerarchizzare, secondo principi dettati dalla disgiunzione, riduzione, astrazione che guidano ormai la nostra percezione del mondo portandoci a credere che la realtà così ordinata corrisponda al vero.” Pollice su o pollice giù, dentro o fuori dal gruppo, destra o sinistra, sì o no, cane o gatto? Queste dicotomie, queste scelte, facili e veloci ci rasserenano nell’orientarci in quella che invece è una realtà che fatichiamo ad accettare nella sua forma originariamente caotica. Ribaltando per un momento i concetti su cui basiamo le nostre certezze – o meglio i pre-concetti – i due autori (con Salazar il co-direttore del programma Baltan Laboraties per pratiche relazionali Lorenzo Gerbi) ci pongono ad esempio di fronte alla dicotomia ecologia/economia dove la prima è riconosciuta oggi vittima della seconda. Ma cosa succederebbe se fosse “l’ecologia a determinare un’economia che guarda alla natura come modello, a un sistema chiuso che cresce, fiorisce e muore…?”.
Cinquanta pagine prima risponde l’artista esperto di arboricoltura Thierry Boutonnier. In dialogo con la ricercatrice, curatrice e giardiniera Anna Colin, ci parla di Acting with Trees, ovvero di un attivismo in cui si agisce per svincolarsi da un commodity time volto a tagliare costi, massimizzare profitti, ottimizzare azioni, in favore di una concezione del tempo che si basi su quella che chiama una dendro-cronologia e seguenti il ritmo di orologi soft che lasciano spazio all’infinità di ogni relazione. E non troppo lontano, un centinaio di pagine dopo, proprio su questo sembra fare eco Sandro Mezzadra che ci suggerisce di considerare quell’infinità di relazione nell’esperienza dell’attesa di chi si trova di fronte a un confine che non può varcare. OVERTIME as Method è il dialogo in cui il filosofo risponde agli artisti Sophie Krier e Stéphane Verlet Bottéro e al remake che hanno messo in atto a quasi 2000 metri su un altopiano altoatesino (in residenza a Lungomare tra 2018 e 2019) della storica performance del 1964 Overtime di Allan Kaprow, sul tentativo collettivo di spostare fisicamente un confine come azione metaforica che apre il discorso su una geografia di confini militarizzati e sulle leggi di mercato che invece necessitano di disegnare frontiere.
E questo è solo un esempio di come i dialoghi prendono vita nel libro, rispondendosi l’un l’altro e aprendo a ragionamenti inaspettati. Il titolo stesso desta qualche interrogativo: AS IF – 16 Dialogue about Sheep, Black Holes and Movement…E se di movimento parliamo come condizione dell’oggi, che ci tiene in vita e ci condanna, anche di pecore – pascoli urbani e selvatici…parla il collettivo orizzontale – e buchi neri – di gravità come principio primario e unificatore dei fenomeni del mondo, di sfere e costellazioni su cui ci illumina Peter Galison dall’Harvard University (USA) invitato dal collettivo Futurefarmers – occorre dunque parlare, spingendosi solo apparentemente oltre il limite concesso alla speculazione dell’arte. Proprio una costellazione si dispiega al centro del libro, con un poster estraibile dell’artista Marzia Migliora dal titolo I paradossi dell’abbondanza #53, mentre s’incontrano tra le pagine scritte anche pause visive illuminanti come Terre-Mer (Venezia) di Marie Velardi o Vinculum di Luigi Coppola, mentre uno spazio-tempo dilatato di oltre venti pagine viene adottato per l’apertura e la chiusura dove immagini di progetti artistici, comunità, azioni, fanno da cornice di protezione per le parole che si depositano all’interno.
Un libro che nasce dunque dal contesto artistico ma non ne resta imprigionato, liberandone anzi il linguaggio e le potenzialità per proporre davvero la cultura come risorsa insostituibile di ragionamento, bellezza, follia ed esperienza, trasformazione e cambiamento. Un libro davvero interdisciplinare, che lascia parlare l’altr* senza arroganza, che ti stupisce, ti porta altrove, ti invita a leggere, a spostarti, a camminare, come invitano i curatori nell’incipit della loro introduzione:
Camminiamo, mettiamo un piede davanti all’altro, alla ricerca di contatto con il suolo, guardando indietro alle cose che ci lasciamo alle spalle a avanti a quelle che ci aspettano. L’orizzonte diventa sfocato, possiamo intercettare i contorni ma non afferrare completamente un’immagine. Nessuna forma specifica. Dietro di noi si dipana un paesaggio collinare, non piatto ma pieno di curve improvvise e linee che l’attraversano. Non ricordiamo sempre dove stiamo andando. A volte sembra che ci fermiamo, che giriamo intorno, e improvvisamente non sappiamo più cosa c’è dietro o cosa di fronte a noi. Tutto sfuma.
Una nota finale, nella difficoltà, anzi, nella più totale impossibilità di restituire la sommessa strabordanza di queste pagine: il volume è interamente in inglese (le traduzioni sono mie), eppure l’inglese non è lingua madre di quasi nessuna delle autrici né degli autori. E allora anche la lingua diventa un tema attorno a cui riunirsi: lo fa l’autrice di origini indiane Rosalyn D’Mello componendo a otto mani con Akansha Rastogi, Sharmistha Sasha, Parissima Taheri-Maynard, un discorso attorno alla condizione femminile di madre e straniera, in relazione al lavoro intellettuale; come lo fanno la performer Wissal Houbabi e il poeta Bayo Akomolafe nel loro scambio su Fluids, Oralities, Spores, che non solo esplora il concetto di opacità di Edouard Glissant che qui riconduce, ancora una volta, al vasto ambito delle relazioni, ma ne restituisce direttamente l’esperienza in una narrazione che parola dopo parola diventa spessa, inopportuna e scivolosa; e, ancora, i due artisti Binta Diaw e Justin Randolph Thompson nel loro scambio epistolare in cui viene fatto risuonare il termine ormai svuotato di “appartenenza”.
Nella densità di questa raccolta, del discorso che fa circolare, nel piacere che genera la lettura di contenuti apparentemente schizofrenici ma profondamente e intimamente connessi nel leggero e fervido brusio delle parole che lo percorrono, sembra scomparire tutta la fragilità del sistema culturale, e anzi sembra esplodere come una bomba dissotterrata tutta la potenza incosciente, visionaria e appassionata che si nasconde nell’arte e nella produzione culturale, una potenza attaccabile ma impossibile da annientare perchè viva e vegeta nel movimento della propria continua ricerca.
Con la parola “movimento” intendo proprio l’estensione massima di questa condizione di felicità, di sintonia, nella quale l’identità si attenua fin quasi a dissolversi, e allora il senso fluisce, perchè non abbiamo più paura della nostra morte, e milioni di persone si mettono a cantare la stessa canzone. (Franco Berardi Bifo, “Scrittura e movimento”)
::: VENERDì 15 MARZO :::
Passeggiata urbana ore 17 (appuntamento a Largo Preneste)
Presentazione del libro ore 19, Leporello (Via del Pigneto 162/e)
insieme a Cecilia Canziani, Erika Mayr, Nasrin Mohiti Asli e Juan López Cano (orizzontale) in collaborazione con IUNO
(per iscriversi alla passeggiata scrivere a info@lungomare.org)