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Quando all’eccitazione di una gran bevuta ne subentrano i postumi riordinare le sensazioni è difficile: circa 98.000 visitatori, più di 280 gallerie, più di 4000 artisti, 8 sezioni, vendite record e listini prezzi… giunta alla 47esima edizione, Art Basel, oltre alla frenesia dei numeri lascia quella specie di rimorso proprio perché in pochi giorni coinvolge contemporaneamente tutti gli elementi del sistema in un’enorme struttura a tanti livelli che asseconda poco il punto di vista del singolo che – anche dal metabolismo veloce – fatica a reggerne il ritmo. Ma una fiera va forse guardata dall’alto e Art Basel, con le energie che coinvolge e il suo livello di cura sempre alto che accompagna ogni cosa, è il contesto migliore per avere un’ immagine dettagliata dello stato dell’arte.
Più a fuoco è Unlimited, curata per il quinto anno consecutivo da Gianni Jetzer. Accolti con Two V’s Entrance Way (2016) di Dan Graham si ha subito l’impressione di accedere a un percorso dalle direzioni seppur multiple ben stabilite. Accostamenti a volte improbabili ma decisamente attraenti come un Frank Stella che si intravede tra le colonne di White House di Ai Weiwei (2015). Violenti cambi di prospettiva nell’uso dello spazio, dei tanti spazi, aperti e chiusi che ospitano lavori di tutte le pratiche e in tutte le scale: da un monumentale Wall of 8 greys, Alan Charlton (2016), a Blue Runs, Pamela Rosenkranz (2016), un comune rubinetto con acqua riciclata blu sempre corrente, l’archivio di Dieter Roth Flacher Abfall (Flat Waste)(1975/1992), la vendita record di Tomato Head di Paul McCarthy… Joseph Kosuth, Jonathan Monk, Sol Lewitt, Nina Canell, Tracey Emin… una selezione che comprende 88 lavori coprendo sei decadi.
In un progetto di tale scala sono abbastanza chiare alcune scelte come l’attenzione all’Asia nella proposta di nomi ancora poco conosciuti all’occidente aprendo un capitolo anche politico: Samson Young presenta Canon (2015): una performance in cui l’artista in uniforme poliziesca honkongonese aziona un LRAD (Long Range Acoustic Device), un’arma sonora usata in caso di proteste che emette versi di uccelli raggiungendo il pubblico. Forti le referenze alla migrazione vietnamita a Hong Kong. Ma guardare verso l’alto Samson Young sulla sua struttura-trespolo non è l’unica situazione inaspettata: Zoom Pavillon (2015) la prima collaborazione tra Rafael Lozano-Hemmer e Krzysztof Wodiczko è un’installazione audiovisuale che, tramite l’uso di 12 camere di sorveglianza e un sistema di riconoscimento facciale traccia le relazioni tra i visitatori controllandone gli spostamenti. Il movimento fluido degli zoom attraverso l’estetica della sicurezza/controllo provoca un’inaspettata sensazione di instabilità e pericolo. L’esatto opposto è The Collector’s House di Hans op de Beeck’s (2016), la ricostruzione in gesso antracite di un interno ideale. Tanto è il benessere che hanno provocato che durante l’opening molti visitatori si sono rifiutati di uscirne: una soluzione, un sollievo a tali dosi. Ho preferito A Good Fence (2008) di Jim Hodges, un recinto leggero in cui mi chiudo per un tempo indefinito: se l’esterno e’ scarno l’interno e accogliente e domestico: il suo coffee table con un vaso di gigli rosa e i due divani opposti, innescano quei meccanismi da sala d’attesa tanto rilassanti, inaspettatamente intimi, necessari nei momenti di stress.
La prossima edizione dal 15 al 18 giugno 2017.