Report di Valentina Bartalesi —
Varcando il limes della mostra personale CITTÀDIMILANO di Giorgio Andreotta Calò, inaugurata il 13 febbraio nello Shed di Pirelli HangarBicocca, pare di addentrarsi, alla stregua degli Argonauti, in un diaframma marino fatto d’acqua, di “sculture” geologiche e di “geometrie” ancestrali.
La curatrice della mostra Roberta Tenconi, accompagnandoci nella visita d’anteprima, descrive il progetto come un percorso di immersione e di emersione, tanto fisica quanto simbolica, in un universo pronto ad riemergere, assecondando il ciclo solare, in superficie. Un arcipelago (termine che tornerà più volte nelle parole dell’artista e della curatrice) costellato da sedimenti geologici disposti in geometrie rigorose, da stratificazioni e stratigrafie, da organismi marini, pinne (nella serie pinne Nobilis dal 2014 ad oggi), ossa (il palindromo DOGOD 2014- incorso, immagini acquatiche o terrestri, siano esse statiche o in movimento), e retaggi del mare.
“L’esposizione” esordisce Roberta Tenconi “è una discesa nella profondità, in cui si inizia scendendo di novanta metri insieme ai sommozzatori inquadrati nel film che apre l’esposizione. Quella che lo spettatore compie insieme ai subacquei è una discesa sia fisica, sia simbolica e metaforica. In questo senso, i due poli in cui si articola la mostra sono quelli di superficie e profondità, di visione diurna e visione notturna”
Tale natura luminosa e oscura trova espressione nel fluire delle condizioni di luce e di ombra all’interno dello spazio espositivo – e conseguentemente del “godimento” e della visibilità delle opere stesse – qualificandosi quale elemento di assoluta originalità e completezza (nei termini di una comprensione “biologica” e ambientale) per il progetto. Tale concetto è ribadito con forza dalla curatrice che rammenta come “CITTÀDIMILANO possieda un’anima duplice, diurna e notturna, che modifica radicalmente la percezione delle opere da parte dello spettatore.”
Così, parafrasando le sue parole, nel corso del giorno la luce naturale filtra dall’alto, svelando i trapassi cromatici delle sculture di Caló ed evidenziando le proprietà dei materiali, la loro scabrosità, le superfici porose o lisce. Diversamente, durante il periodo serale (per così dire notturno) solo pochi neon dal riverbero azzurrato – gli stessi esposti nel 2017 al Padiglione Italia alla Biennale di Venezia quando Caló presentava La fine del mondo – rischiarano un ambiente in cui le opere paiono galleggiare nel buio alla stregua di relitti di un mondo “sommerso” e “subacqueo”.
Nel corso della conferenza stampa Vicente Todolì – Direttore Artistico di Pirelli HangarBicocca – propone un’interessante considerazione sul rapporto esistente tra alcuni degli artisti chiamati in Hangar ad operare e l’architettura stessa dello Shed: “Rispetto all’intervento sull’architettura, è curioso notare come due artisti giovani che lavorano sul tema dell’architettura come Leonor Antunes e Giorgio Andreotta Calò, abbiano avuto la medesima idea di sostituire le lamiere – ovvero le aperture antincendio sovrastanti – traducendole in elementi dai quali la luce può penetrare. Così, la mostra cambia completamente dal giorno alla notte, quando l’illuminazione è ridotta al minimo e gli occhi si devono abituare alla realtà per percepire i contorni delle cose.”
Abituarsi al buio o alla luce richiede tempo e desiderio di immergersi nelle cose: l’intero progetto, e generalmente il lavoro di Giorgio Andreotta Calò, per essere compreso a fondo, necessita di una “lentezza” siderale forse estranea alla volubilità del contemporaneo. Questa condizione è ampiamente condivisa dall’autore, che esordisce in conferenza stanza sostenendo come si sia voluto dare vita a “Una mostra non ‘scontata’. Non si è voluto portare in Hangar un lavoro che parlasse nell’immediato, quanto un lavoro al quale si dovesse dedicare un certo tempo perché potesse disvelarsi, in una riflessione dunque sottile e complessa. Chi concederà a questa mostra il tempo giusto per manifestarsi, potrà coglierne le possibili sfaccettature, in un’idea di un’immersione verso il particolare e di un’emersione verso una visione globale, differente per ciascuno. In virtù della dicotomia insita nelle opere, esse varieranno sia dal punto di vista strutturale-semantico, sia nel modo in cui le stesse dialogono con la luce naturale, generando visioni inedite e contrapposte. Il mio suggerimento – conclude Andreotta Calò – è di vivere lo spazio dedicandogli tempo e più tempo ancora se possibile, perchè la mostra sia realmente vissuta e frequentata con lentezza.”
Sul tema della lentezza e della fluidità dei concetti di inizio e di fine, di passato e di presente, interviene anche Roberta Tenconi, tracciando una prima panoramica della produzione dell’artista: “La mostra ha avuto una genesi lunga – forse breve per i tempi di Giorgio – di quasi due anni, pur risultando l’esito di una ricerca che affonda le proprie radici nella precedente produzione dell’artista. Continuavo a dire a Giorgio che il suo lavoro è un ‘elogio alla lentezza’, in quanto alcune delle opere qui presenti prendono avvio già nel 1999, per poi essere portate ad un ulteriore stadio di elaborazione negli anni successivi.”
In questa lentezza primordiale le azioni si sedimentano nel tempo, dando origine a interventi eterogenei intimamente connessi tra di loro. La continuità dei lavori è endogena e interna agli stessi; la conformazione che le opere potranno assumere inaspettate. Prosegue la curatrice: “Credo che il lavoro di Giorgio sia sorprendente in quanto riesce a unire interventi spettacolari e architettonici – si pensi alla bellissima installazione “La fine del mondo” presentato nel 2017 alla Biennale di Venezia – a lavori maggiormente silenziosi, spontanei e quasi effimeri. Non a caso alla sua prima apparizione alla Biennale di Venezia del 2001 presentò un lavoro, forse non notato da molti, altrettanto impegnativo e titanico per quanto visivamente meno “conclamato”: un lungo pellegrinaggio durato circa tre mesi da Amsterdam, la città in cui all’epoca viveva, e il Giardino di Carlo Scarpa a Venezia, sua città natale. Io credo che la mostra Cittàdimilano riesca a riassumere e a portare in superficie entrambi questi aspetti del lavoro di Giorgio. In entrambi i casi tali tendenze convivono e risultano l’esito di un processo lunghissimo che vede l’artista protagonista; questi – racconta la curatrice – trascorre ore in fonderia qualora debba fondere dei pezzi, oppure settimane in movimento quando il suo lavoro assume la forma del cammino.”
E’ possibile immaginare la personale di Giorgio Andreotta Calò – come ricordano sia l’artista sia la curatrice – nella forma acquatica e insieme terrestre dell’Arcipelago (e qui viene alla mente l’omonimo saggio pubblicato da Massimo Cacciari – nato non casualmente a Venezia – proprio nel 1997). Tale definizione non soltanto riflette la condizione di disseminazione (calcolata con geometrica precisione) delle opere nello spazio avvolgente dello Shed – agli occhi dell’artista “una sorta di mare aperto sul quale navigare” – bensì rimanderebbe alla genesi stessa delle opere, strettamente connessa a luoghi, isole e fondali marini variamente dislocati.
E’ ancora Roberta Tenconi ad accompagnarci alla scoperta di questo periplo reale e mentale attraverso i materiali dell’arte di Andreotta Calò: “Giorgio ama descrivere la mostra come un arcipelago: infatti molto delle opere esposte provengono da isole, dalla Sardegna, dalla Laguna di Venezia o dall’Isola di Filicudi, dove si era inabissato il piroscafo portacavi della Pirelli ripreso nel film che introduce all’esposizione. Milano non è un’isola, ma la visione stenopeica qui presentata rimanda un mondo egualmente sommerso e metafisico.”
Giungiamo dunque ad una sintetica presentazione delle opere presenti in mostra illustrate da Tenconi, che ne segnala magistralmente le caratteristiche principali: sotto il profilo espositivo “La mostra si concentra soprattutto sull’aspetto scultoreo della produzione di Andreotta Calò, pur tentando di aprire una finestra anche su altre tipologie di lavoro. Non è un caso che la personale si apra con un film e si chiuda con una fotografia di notevoli dimensioni, scaturita dal monumentale intervento praticato all’ultimo piano del grattacielo Pirelli, letteralmente trasformato in una camera oscura per imprimere la grande impressione della città dalla quale la mostra prende il nome. Giorgio prosegue inoltre con una nuova produzione per la serie dei Carotaggi – l’opera dal titolo Produttivo viene avviata nel 2014 -, esposti per la prima nella più completa configurazione di oltre 1500 metri quadrati. Le carote, disposte orizzontalmente nello spazio dello Shed, provengono dall’archivio sardo della Carbosulcis, l’ultima miniera attiva di carbone in Italia oggi prossima alla chiusura, dotata di un archivio che raccoglie oltre trent’anni di sondaggi sul paesaggio circostante e sull’industria. I carotaggi – ricorda la curatrice – sono disposti con una cura maniacale all’interno dello spazio, assecondando uno studio e una geometria rigorosa che non possono non rimandare, anche per la loro componente organica, materica e cromatica, alle installazione di Walter de Maria. La disposizione dei Carotaggi corrisponde peraltro alla collocazione originale degli stessi: se infatti rovesciassimo l’asse orizzontale in senso verticale otterremo la loro originaria stratigrafia, essendo i singoli pezzi installati mantenendone la quota stratigrafica.”
Come spiegherà l’artista nel successivo focus sulle sue opere – un intervento di carattere squisitamente “tecnico”, utilissimo per la comprensione del lavoro in tutte le sue differenti fasi e componenti, in cui sono stati proiettati materiali fotografici dell’autore – è proprio tale correlazione a fornire lo spunto per il titolo della serie, “Produttività, in quanto durante le fasi di estraniazione alla Carbosulcis si è andati ad individuare lo strato cosiddetto di coltivazione, ovvero l’intervallo stratigrafica specificamente impiegato per l’estrazione del carbone”. Diversamente, spiega l’artista, si è agito nel caso di Venezia: “In questo caso ho personalmente commissionato i carotaggi per andare a recuperare un materiale molto particolare, un’argilla sovraconsolidata che costituiva il suolo di Venezia e che, compattatasi nel corso dei millenni, è stata poi sommersa dall’acqua, rimanendo al di sotto di uno strato di limo. Questa argilla prende il nome di caranto, dal latino caris, e si qualifica in quel materiale duro e impermeabile che costituisce lo zoccolo della città.”
Il caratteristico sistema di pali e palafitte che forma l’ossatura di Venezia poggia su di esso. In questo senso il caranto assolve ad una funzione propriamente di sostrato (substratus/substernēre), giungendo a rappresentare per l’artista “La colonna semantica sulla quale il luogo si appoggia.” L’anzidetta inversione dell’asse verticale in orizzontale, rivelando la stratigrafia semantica dell’elemento materico, rimanda ancora una volta alla nozione di tempo.
“Oltre ai carotaggi – riprendiamo le parole della curatrice – in mostra sono esposte le Clessidre (1999- in corso) e le Meduse (dal 2013), forse tra le opere più note di Giorgio Andreotta Calò, nate entrambe in relazione alla città di Venezia.” E’ lo stesso artista a ricondurre le Clessidre alla forma del tempo: “Esse nascono (ne sono in qualche maniera l’impronta, trattandosi di calchi) dai pali lignei piantati nella Laguna e sottoposti l’azione erosiva dell’acqua, assurgendo a forme verticali di demarcazione di un tempo cristallizzato e sospeso. Quest’idea di orizzonte e di orizzontalità sia grafica sia di paesaggio è presente in tutta la mostra: anche osservando la grande fotografia della città di Milano rovesciata e in bicromia, emerge quella linea di orizzonte quasi metafisico.”
Infine conclude Roberta Tenconi, chiudendo il cerchio ideale dell’esposizione, “L’opera più antica esposta in mostra, la barca Volver , presentata nel 2008 alla Galleria Zero di Milano (Lambrate), con cui l’artista si muoveva a Venezia e che quell’anno ha compiuto un volo surreale nel cielo di Milano, visibile nel carosello di diapositive esposte. Nel 2019 l’artista torna a Milano e orienta la propria visione – condensata nella monumentale impressione stenopeica – verso la stessa area orientale della città, non soggetta a significative modificazioni urbanistiche.”
Oggi la barca esposta nello Shed accanto al filmato di diapositive che perpetra il “folle volo” dell’artista giace distesa e chiusa, serrata in sé stessa. Ricorda una conchiglia, di cui la ricongiunzione tra le due “valve” appare ancora leggibile, quasi incisa sulla “pelle” della carena. In sala stampa si domanda perchè oggi questa forma si presenti chiusa; e la risposta dell’artista sottintende e definisce la chiusura di un ciclo, il consumarsi di un’esperienza: “il fatto di chiuderla è come se questo volo oggi non fosse più possibile e come se, quello stesso volo, venisse contenuto all’interno”, divenendo testimonianza di quell’esperienza lì custodita per oltre un decennio.
In apertura e in conclusione del percorso espositivo, nelle parole di Andreotta Calò, “si collocano due visioni possibili e oniriche della città di Milano: una di una Milano sommersa evocata dal piroscafo Pirelli Cavi inabissatosi in prossimità dell’isola di Filicudi, presso Capo Graziano e quella di una Milano capovolta e acquatica, che diviene un luogo metafisico, un fronte su cui si staglia la città”, in questo senso non distante dall’immagine della lagunare Venezia. “Quest’anno”, segnala l’artista, “ricorre il centenario dell’affondamento del piroscafo, nominato con il nome di uno dei membri dell’equipaggio inabissato: Jona. Il riferimento a questa figura biblica di Jona che discendendo e si inabissa per tre giorni cercando di sfuggire al proprio destino, evidentemente non è casuale”. La porzione di cavo danneggiato, lunga oltre trenta metri, si avvita su sé stessa, pendendo dal carroponte e disegnando un’onda curvilinea e armonica complementare allo sviluppo terrestre e rettilineo dei carotaggi.
Entrando in mostra siamo invitati ad “inabissarci” insieme all’equipe di subacquei: la presenza umana nei miei lavori è quasi assente o disumanizzata. Le persone sono coperte da scafandri, oppure hanno le sembianze di luci, lucciole di pasoliniana memoria, che si muovono nel buio, e così noi con loro. L’ultima opera visibile in mostra è il filmato In girum imus nocte (2014) girato con pellicola 16 mm, che riprende il cammino di un gruppo di dodici minatori e dell’artista nella regione sud-occidentale del Sulcis Iglesiente verso l’isola di Sant’Antioco. E’ la notte di Santa Barbara e i fuochi brillano sullo sfondo scuro.
Ascoltando Giorgio, le domande che si sollevano in sala sono molteplici; vengono individuate e proposte affinità cronologiche tra interventi passati e presenti, si rileva una vicinanza “iconografica” con la produzione di Walter De Maria, definita dall’artista nei termini di ascendenza subliminale. Si evidenzia come invece il rapporto con la poetica di Gordon Matta-Clark, autore approfonditamente indagato dallo stesso Andreotta Calò, si configuri in maniera più radicale in un’analisi su come rendere fruibile un’architettura non più percorribile.
Ripensando all’ingresso nello Shed, il ricordo di un artista effettivamente non citato, ma forse presente si fa però sensibile: quello di Jannis Kounellis, altro Argonauta-viaggiatore che del Mediterraneo, dei suoi materiali, dei suoi relitti, ha fatto la materia prima di un epos caratterizzato da lentezza e memoria.