Alcuni dei concetti su cui si è fondata la ricerca artistica di Alighiero Boetti (1940-1994) sono stati l’unità, il doppio, il molteplice, tanto che lui stesso a partire dal 1972 iniziò a firmarsi Alighiero e Boetti proprio per sottolineare la sua doppia identità di uomo e artista.
Per una modalità del tutto casuale, anche l’omaggio che Roma gli ha dedicato in occasione del trentennale della sua scomparsa si è concretizzato in un doppio: due mostre molto diverse tra loro, ma che, pur non facendo parte di un progetto unico, risultano comunque complementari e permettono di cogliere due aspetti di questo artista, l’opera e l’uomo.
La prima mostra ospitata all’Accademia di San Luca dal titolo Raddoppiare dimezzando (aperta fino al 15 febbraio 2025), è stata realizzata in collaborazione con la Fondazione Alighiero Boetti e con Caterina Boetti, sua seconda moglie, con l’intento di evidenziare come il modo così particolare di Boetti di concepire il fare artistico non fosse frutto di semplice originalità o gioco enigmistico, bensì il prodotto di una personalità complessa e tormentata.
Tutta la sua vita fu “… in un equilibrio precario tra intenzione e non senso, disperazione e dissipazione, sosta, caso, sistema…” come sottolinea Marco Tirelli, curatore della mostra e amico dell’artista, fu affascinato dal doppio, dal multiplo, dai frattali, esprimendo questo interesse e la sua instancabile curiosità attraverso opere che utilizzano un linguaggio sicuramente non facile da comprendere a prima vista.
La mostra non vuole essere un compendio della sua vasta e multiforme attività artistica, ma si concentra su un nucleo selezionato di lavori. Nelle sale non vi sono altre indicazioni oltre al pannello introduttivo posto all’ingresso, non ci sono notizie biografiche, ma si è voluto lasciare la parola alle opere. Per Boetti l’opera nasce dall’artista, ma saranno poi altre mani, altri occhi a completare il suo ciclo ed è in questo “vagare per il mondo” che l’opera si fa, proprio come i suoi lavori postali.
E proprio Opera postale (De bouche à oreille)(1993), costituisce il fulcro del percorso espositivo. Una installazionemonumentale, dal forte impatto visivo che occupa tutto il perimetro del Salone d’Onore. Le 506 buste affrancate e i 506 fogli creano un vortice, una spirale dalla quale si viene avvolti e catturati. L’opera costituisce una sorta di summa dell’intera ricerca di Boetti, racchiude la sua voglia di fare ordine, il suo muoversi tra modelli, schemi, elenchi, strutture create dai nostri processi mentali attraverso i quali pensiamo di ordinare il mondo, ma queste buste che viaggiano con indirizzi inesistenti e poi tornano, portano con esse la storia del loro viaggio.
L’artista non voleva dare spiegazioni, né dimostrare nulla. E così, osservando Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969 (1992), esposta nella seconda sala, ci domandiamo il perché della piccola farfalla gialla che si è posata sopra quella figura umana composta da sfere di cemento. Cosa sarà? L’anima? L’immaginazione?L’altrove? L’artista non lo dice, a lui interessa il percorso non il termine del viaggio.
Boetti percepiva sé stesso come una sorta di alambicco attraverso il quale il mondo con i suoi stimoli e accadimenti passa e si trasforma, mutando questi suggerimenti in idee, come sembra suggerire l’originale l’Autoritratto in bronzo del 1993, esposto nel cortile d’ingresso.
Tutto per lui poteva essere stimolo, ripeteva spesso “Non si butta mai nulla” – e questa è la chiave di lettura per la seconda mostra allestita presso la Galleria Tornabuoni Arte (fino al 22 febbraio 2025).
Un progetto completamente diverso che presenta un Boetti intimo, attraverso l’esposizione di fogli, disegni, appunti, raccolti dalla figlia Agata Boetti che ha curato la mostra e il testo che l’accompagna.
Un suggestivo spaccato della vita dell’artista, un Cabinet de curiosités, come recita il titolo, che offre la possibilità di entrare nella modalità di lavoro di Boetti e nel suo modo di concepire l’opera d’arte. Documenti, alcuni inediti, schizzi, giochi, cartoline, parti di un mondo sempre sospeso tra ordine e disordine, in gran parte conservati in un baule che l’artista destinò alla figlia e per questo ancora più personali.
Una serie di foto in bianco e nero di Giorgio Colombo fa rivivere la sua vita quotidiana, i tanti viaggi con la prima moglie Annemarie, le mostre, le Biennali, i figli, la seconda moglie Caterina, gli artisti suoi amici.
Per Boetti tutto poteva essere utile, tutto poteva essere fonte di ispirazione. Lo testimonia Muro (1972-1993), un gigantesco foglio di appunti per progetti futuri, 75 elementi in apparente disordine, senza una gerarchia, biglietti, banconote, foto, elenchi di parole, pagine di giornale, fogli di calendario, anche la tasca di una giacca e, proprio circondato da questo mondo, Boetti rifletteva, disegnava, stilava elenchi di parole, in una ricerca continua e instancabile.
Completano il viaggio alcuni suoi lavori compiuti, come la Classificazione dei mille fiumi più lunghi del mondo (1977) realizzato con la moglie Annemarie, opera monumentale corredata dell’intera documentazione resa necessaria per realizzarla, o Zoo (1979), centinaia animalini di plastica realizzato con i figli Agata e Matteo. Nato per gioco e diventato un’opera, è corredato da un dattiloscritto in cui Boetti ne racconta la genesi e la foto della stanza dei figli nell’appartamento romano dell’artista, ne mostra l’allestimento originario, accentuandol’atmosfera intima e personale.
Le due mostre si integrano e si intrecciano e l’una aiuta a capire meglio l’altra, permettono di avvicinarsi al mondo e alla mente geniale di un’artista che, con il suo modo di operare, dava la stessa importanza ad un piccolo ritaglio di giornale come ad un’opera monumentale, che coinvolgeva nel suo lavoro tanti protagonisti e tante mani, in una visione del mondo già globale e inclusiva.