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LA COLLEZIONE MAST. Un alfabeto dell’industria, del lavoro e della tecnologia | Fondazione MAST, Bologna

Testo di Federico Abate — Presso la Fondazione MAST a Bologna è possibile visitare fino al 28 agosto la grande mostra LA COLLEZIONE MAST. Un alfabeto dell’industria, del lavoro e della tecnologia. Qualche mese dopo la V edizione della Biennale di Foto/Industria, tenutasi tra ottobre e novembre dello scorso anno, l’istituzione bolognese ha inaugurato un […]

PAOLO WOODS, GABRIELE GALIMBERTI The Heavens. Annual Report, 2013 © Paolo Woods, Gabriele Galimberti, courtesy of the artists
HENRI CARTIER-BRESSON* Gli ultimi giorni del Kuomintang (crollo del mercato), Shanghai, China, 1948-1949 © Fondation Henri Cartier-Bresson/Magnum Photos

Testo di Federico Abate

Presso la Fondazione MAST a Bologna è possibile visitare fino al 28 agosto la grande mostra LA COLLEZIONE MAST. Un alfabeto dell’industria, del lavoro e della tecnologia. Qualche mese dopo la V edizione della Biennale di Foto/Industria, tenutasi tra ottobre e novembre dello scorso anno, l’istituzione bolognese ha inaugurato un progetto espositivo ambizioso che squaderna più di 500 fotografie, video e album di quasi 200 diversi fotografi e artisti, a fronte di una selezione tra le oltre 6000 immagini presenti nella collezione.

L’esposizione si presenta come una riflessione ad ampio raggio sull’intreccio fra industria, lavoro e tecnologia. Il percorso si struttura in 53 sezioni, corrispondenti ad altrettanti concetti connessi ai temi trattati e disposti in ordine alfabetico, dalla A di “Abandoned” fino alla W di “Waste”, “Water” e “Wealth”, passando per gli argomenti più vari: il duro lavoro in fabbrica, i paesaggi antropizzati e l’estrazione di materie prime, la rivoluzione apportata dalle nuove tecnologie, i movimenti di protesta contro il mercato. Intorno ai vocaboli che danno il nome alle sezioni sono evocati altri concetti che rimangono allo stadio di suggestioni, funzionali ad arricchire la visita di ulteriori spunti di riflessione. 

La scelta di un criterio alfabetico nell’ordinamento delle sezioni genera accostamenti inaspettati tra foto di autori, generi e stili molto differenti tra loro, producendo l’effetto di un continuo montaggio parallelo, funzionale a far emergere le criticità e a stimolare il pensiero. Ciò si verifica già all’inizio del percorso espositivo: l’immagine che accoglie il visitatore è la grande stampa di una fotografia Senza titolo (2007) di Florian Maier-Aichen, un paesaggio montano velato di effetti opalescenti, ottenuti combinando elaborazione digitale e tecniche fotografiche tradizionali. Subito dopo, però, ci si trova di fronte ad una serie di scatti risalenti al XIX secolo, di piccole dimensioni e in bianco e nero, in anticlimax rispetto alla foto precedente. Dal momento che rappresentano paesaggi industrializzati, temi sociali connessi al mondo del lavoro e le plurime facce del progresso, tra esposizioni industriali e deragliamenti di treni, preparano il terreno per le sale successive.

THOMAS DEMAND Space Simulator, 2003 © Thomas Demand by SIAE 2022, courtesy of Esther Schipper, Berlin

Subito dopo un altro contrasto spiazzante, in questo caso di natura tematica: accanto a foto di incidenti stradali e a Pozzo petrolifero (1991) di Sebastião Salgado, immagine drammatica tratta dalla sua serie dedicata al disastro ecologico dell’incendio dei pozzi di petrolio in Kuwait durante la Guerra del Golfo, compaiono quattro scatti pubblicitari di colli di camicia (anni 1930) di Paul Wolff, esplicitando così l’appaiamento alfabetico dei temi “Accident” e “Advertising”. Come sintesi assurda di tale contrasto, uno schermo fa scorrere a ripetizione un album di fotografie anonime di cartelloni stradali dipinti, riguardanti il tema della salute e della sicurezza sul lavoro. 

Uno dei motivi ricorrenti nella mostra è l’indagine, da parte di diversi autori, delle estetiche dell’industria nel suo ineludibile intreccio tra uomo e macchina, l’uno o l’altra privilegiati alternativamente dall’occhio del fotografo. Tra gli altri, Lewis W. Hine, Herbert List, W. Eugene Smith, Dorothea Lange, Mimmo Jodice, Paola Agosti e Robert Frank si addentrano nelle officine e nelle sale caldaia per scovare l’irriducibile scintilla di umanità che ravviva i motori dell’industria. Ai lavoratori viene riconosciuta la dignità di individui, che raccontano la propria storia attraverso gli occhi, le mani e la fatica. Altri autori come Margaret Bourke-White, Albert Renger-Patzsch, Jeremy Floto e Cassandra Warner mettono a nudo la struttura portante dell’industria, cioè la macchina e le sue componenti, votandosi all’esplorazione della purezza formale e della complessità visiva di meccanismi, utensili e strumentazione tecnica. Thomas Struth, Thomas Demand, Vincent Fournier e Peter Fraser fissano l’obiettivosu ambienti e strumentazioni high tech, simulatori spaziali e braccia robotiche: la rifinitura a lucido delle superfici dei macchinari e l’estrema definizione delle fotografie esaltano senza ombre le potenzialità della tecnologia come volano del progresso. 

In altri casi la ricerca formale si espande su scala architettonica. Bernd e Hilla Becher, Gabriele Basilico, Tata Ronkholz e Lewis Baltz colgono la bellezza diafana sottesa a capannoni fatiscenti, piazzali deserti e torri di estrazione, esemplari di plurime “specie” industriali che vengono catalogati e raccolti in tassonomie, mentre il bianco e nero incoraggia una lettura che semplifica i volumi in pattern di forme bidimensionali. I quattro grandi pannelli che compongono Buchi neri (2019) di Sven Johne articolano sia l’interesse per luoghi anonimi e abbandonati, sia il processo della comparazione per giustapposizione in un vero e proprio montaggio di immagini di industrie e centri sportivi dismessi, terre di nessuno della Germania Orientale che parlano di tessuti urbani che si erodono lentamente. Qualche sala più avanti risponde Città 7/12 (Berlino) (1999) di Frank Thiel, una veduta dell’enorme cantiere di Potsdamer Platz in costruzione che invade un’intera parete. Rispetto alla nostalgia e ai toni dimessi del lavoro umbratile di Johne, nella foto di Berlino dominano la sollecitudine alla ricostruzione e l’ansia di dare un nuovo volto alla Germania in occasione del volgere del millennio, occultando le macerie della Storia. 

HANS PETER KLAUSER Bagnanti felici sulla Sihl, 1936 © Hans Peter Klauser / Fotostiftung Schweiz
SEBASTIÃO SALGADO Pozzo petrolifero, Burhan, Kuwait © Sebastiao Salgado/Amazonas Images/Contrasto

Il progressivo zoom out dell’obiettivo, ormai giunto alla scala urbana, si scontra con l’impossibilità di allargare oltre il proprio angolo di visuale. Andy Sewell nella serie Known & Strange Things Pass (2018) conduce un’indagine sui cavi di comunicazione transatlantici che collegano il Regno Unito e il Nord America, inevitabilmente inaccessibili e, perciò, irrappresentabili. Tutto ciò che si può fare è indagare, fallacemente, i luoghi anonimi dove i cavi affiorano una volta giunti sulla terraferma. La parzialità dello sguardo si fa essa stessa strumento per esprimere l’ineffabilità della rete che tiene insieme il mondo.

Le opere video disseminate nelle sale scandiscono il ritmo della visita. Colour Factory (2017) di Sara Cwynar, vincitrice del MAST Photo Grant 2016/17, a partire dalle riprese effettuate nella fabbrica di un’azienda di cosmetici imposta una profonda riflessione sui canoni di bellezza e sulla cosmesi come riflesso dello sguardo maschile sulla donna, mentre l’occhio viene sedotto dalla saturazione ammaliante dei colori dei prodotti. Di Yuri Ancarani sono proposti due episodi del trittico di cortometraggi La malattia del ferro (2010-12), dedicato a occupazioni altamente specializzate: Il Capo, ambientato sul Monte Bettogli a Carrara, mostra il lavoro di un cavatore di marmo che coordina uomini e macchine pesanti atteggiandosi a direttore di un orchestra silenziosa (nonostante il rumore assordante evocato dalle immagini, il film è paradossalmente muto); in Da Vinci si assiste invece ad un intervento effettuato mediante chirurgia robotica, e così dalla magniloquenza dei movimenti delle ruspe che provocano il distacco di grandi masse di marmo si passa ad operazioni di alta precisione, nell’atmosfera raccolta e asettica della sala operatoria. Significativamente, uno degli ultimi termini del vocabolario della mostra, “Waste”, è rappresentato dal video Dandora Landfill (2019) di Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier, dedicato alla più grande discarica del Kenya, talmente estesa da essere divenuta il centro di una microeconomia informale di commercio di rifiuti. La panoramica della Fondazione MAST sui temi dell’industria, del lavoro e della tecnologia si chiude dunque con una nota amara, relativa al tragico e colpevole impatto dell’azione dell’uomo sul pianeta.