E’ stato assegnato ad Alessio Zemoz il Premio Fotografia Italiana under 40, il riconoscimento riservato ad artisti emergenti italiani che operano attraverso i molteplici linguaggi dell’immagine. La giuria del Premio Internazionale, ha scelto Zemoz tra una rosa di 10 finalisti, che comprendeva Gianni Ferrero Merlino, Eva Frapiccini, Marco Lachi, Tiziano Rossano Mainieri, Angelo Marinelli, Egle Picozzi, Alberto Sinigaglia, Luca Spano e Lorenzo Tugnoli. Come ha sottolineato bene il direttore della Fondazione, Filippo Maggia, Zemoz si è distinto grazie al progetto ‘Alessio Zemoz. Lo vàco – il vuoto’, un’indagine sui paesaggi abbandonati della Valle d’Aosta. E’ con questo termine, infatti, che nel dialetto franco-provenzale si identificano tutti quei territori lasciati in balia del tempo poiché non esiste nessun progetto urbanistico o intenzione specifica per la loro riqualificazione. Il progetto, a metà tra indagine storica, antropologica e artistica, parte dall’assunto che, essendo impossibile raccontare il vuoto, esso debba essere evocato attraverso altro. Questo altro diventano proprio le fotografie delle persone e dei paesaggi che caratterizzano l’identità di questo territorio che non è caratterizzato da nobili vette o paesaggi inaccessibili ma bensì da luoghi vissuti, che mettono in comunicazione le persone tra loro ma che spesso, con il passare del tempo, perdono il loro significato e la loro memoria storica.
La mostra, a cura di Christine Frisinghelli, sarà aperta fino all’8 maggio 2016 presso il Foro Boario di Modena. E’ da ricordare che il premio è nato grazie alla collaborazione tra Fondazione Fotografia, Sky Arte e UniCredit.
Annalisa Malavolta intervista Alessio Zemoz.
Annalisa Malavolta: Artista, curatore, operatore culturale e adesso vincitore del Premio Fotografia Italiana Under 40 2016…Alessio Zemoz mi sembra una persona piuttosto impegnata. Come è nata la tua passione per l’arte e la fotografia in particolare?
Alessio Zemoz: Il mio interesse per questo linguaggio è nato in maniera spontanea, semplice. Realizzai i primi esperimenti in maniera privata, con l’attrezzatura trovata in casa, ma ho sempre avuto forte tensione verso la comunicazione e la condivisione. Con il tempo ho maturato la percezione che la fotografia fosse una linguaggio nel quale potessi abitare comodamente e presto è diventata la forma di espressione principe di quello che è il mio mondo ed il mio personale modo di esistere. La fotografia è lo strumento che mi garantisce la possibilità di accedere a luoghi inesplorati della mia anima e portarli in superficie.
Con il tempo ho elaborato la mia posizione autoriale e professionale ed oggi sono alle prese con lo sviluppo della cultura dell’immagine (visiva e audiovisiva) nel merito dei territori alpini della Valle d’Aosta. In questo senso le attività richiedono abilità su vari fronti quali ricerca risorse, curatela, produzione, ecc, in particolare in un territorio complesso e affascinante come quello delle montagne dove ho deciso di vivere.
AM: Il tuo progetto fotografico Lo Vàco – Il Vuoto nasce da una profonda riflessione sul paesaggio che ti ha dato i natali. Sicuramente non hai voluto compiere un viaggio nostalgico a ritroso ma, come citi anche tu Barthes, la fotografia ci permette di immortalare nel tempo un attimo. Questo non basta per colmare il vuoto?
AZ: In effetti lo vàco è, come dici bene tu, una profonda riflessione sul paesaggio dove sono nato. Inoltre, lo vàco è una riflessione sul paesaggio dove da qualche anno ho deciso di tornare a vivere e dove ho deciso di voler costruire la mia esistenza. Questo progetto è dunque una profonda (e a tratti severa) riflessione su me stesso, sulla mia personalissima relazione con il territorio a cui appartengo e che a me (o quanto meno alla mia famiglia) appartiene. In questo senso, attraverso il progetto, spero di aver trasmesso la tensione verso il futuro possibile verso cui una nuova elaborazione del concetto di rapporto con il territorio ci potrebbe condurre. Possiamo dire che qui l’ambizione era quella di fermare un attimo nel tempo capace di portare con sé il passato e allo stesso tempo il futuro, interrogandoci profondamente sul senso del nostro presente, sull’identità di abitanti delle alpi. Fatico a definire me stesso e questo punto potrebbe essere un inizio possibile per un nuovo percorso dedicato a colmare il vuoto che il paesaggio esteriore riflette del mio paesaggio interiore. Parlo per me ma la ricerca ha dimostrato che la percezione sociale del paesaggio è tutt’altro che chiara e definita. Questo progetto, infatti, è realizzato grazie all’enorme contributo di Valentina Manella, mia coetanea e antropologa. Come me Valentina ha scelto di costruire la propria esistenza in Valle d’Aosta, luogo dove anch’essa è nata e rispetto al quale si interroga profondamente. Manella ha infatti posto le basi scientifiche del progetto realizzando una ricerca sperimentale dedicata alla definizione della percezione che i nostri conterranei hanno del proprio paesaggio attraverso interviste, questionari, un esperimento in due classi di due scuole superiori del territorio e un’importante ricerca storica, linguistica e agronomica. Una sintesi dell’esito della ricerca è parte integrante della mostra.
AM: Guardando alcuni dei tuoi scatti mi tornano in mente i pomeriggi estivi che passavo in campagna in compagnia dei nonni. Quanto c’è di Alessio bambino in queste fotografie? E perché mi danno l’impressione che, tutto sommato, la memoria sia un elemento basilare nella tua ricerca?
AZ: La tua considerazione è arguta e sensibile. Credo che la mia poetica ruoti attorno allo sguardo sulle cose che il bambino che è in me è in grado di esprimere. Mi viene in mente l’incipit de “Il cielo sopra Berlino” di Wenders: “Quando il bambino era bambino, se ne andava a braccia appese, voleva che il ruscello fosse un fiume, il fiume un torrente, e questa pozza, il mare. Quando il bambino era bambino, non sapeva d’essere un bambino, per lui tutto aveva un’anima e tutte le anime eran tutt’uno. Quando il bambino era bambino, su niente aveva un’opinione, non aveva abitudini, sedeva spesso a gambe incrociate, e di colpo sgusciava via, aveva un vortice tra i capelli e non faceva facce da fotografo.” Vorrei potermi permettere di fotografare sempre così: senza un’opinione, senza abitudini e con un vortice tra i capelli. Nel merito delle mie storie cerco di esprimere grazia e quella forma di stupor tipico del fanciullo e generare così empatia. In questo senso la memoria è molto importante ma, paradossalmente, più la cerco nella e attraverso la fotografia e meno essa si consolida. La fotografia mi porta sempre verso significati nuovi, nuove esperienze, nuove narrazioni, come accade in questo progetto dove l’accostamento di immagini di famiglia e paesaggi genera paesaggi di famiglia dove al fruitore vengono sottratti i punti di riferimento ed è autorizzato ad esprimere la propria immaginazione o a crearsi una propria forma di racconto o memoria. Credo che la mia fotografia in questo progetto sia particolarmente esigente e rivela una certa attitudine del tutto personale all’interesse naturale che nutro per l’altro in senso lato. Lo vàco esige la partecipazione del fruitore, attivo e determinante. Lo vàco è un’opera interrogativa e non assertiva. È una forma di condivisione e di aiuto che in qualche modo chiedo nel merito, come si diceva, della nuova assegnazione di senso.
AM: Delle fotografie in esposizione ce n’è una alla quale sei particolarmente legato o che è particolarmente significativa per la tua ricerca?
AZ: Credo che la più rappresentativa sia quella di apertura della mostra poiché porta con sé tutte le qualità del progetto: la condivisione con la Manella (il paesaggio è il mio luogo di origine ma quella di famiglia appartiene alla sua), l’idea di scomparsa del senso del passato, il senso di interdizione sulla comprensione del presente e allo stesso tempo sulla precisa definizione dell’immagine.
Poi ci sono due ritratti che mi meravigliano, mi fanno sorridere ogni volta e a cui sono molto affezionato:
AM: Ho trovato molto profondo e toccante il pensiero che si cela dietro il progetto Pallium. La fotografia quindi può anche aiutare a capire, dare un punto di vista privilegiato e quindi essere uno strumento di indagine antropologica?
Ti ringrazio per l’attenzione che hai posto su questo progetto a cui tengo molto. In effetti in questo lavoro ho provato a raccontare la dimensione dell’esperienza umana di lavoro in un contesto tanto delicato quanto essenziale come quello del reparto di cure palliative dell’Hospice, presso l’ospedale Beauregard di Aosta. Come quasi sempre accade nelle mie ricerche, anche in questo caso si tratta di un racconto che ha origini biografiche: ecco un nuovo tentativo di capire, di mettere a posto alcuni aspetti di un’esperienza vissuta, di dare a me e a chi ha desiderio di guardare un nuovo punto di vista, forse utile forse no. Non ho capito nulla se non che la fotografia, ancora una volta, si configura come esperienza palliativa: rimedio apparente e temporaneo. Ritorna lo vàco, il vuoto. Tra i temi fondamentali di questo progetto, infatti, sintetizzo i seguenti: memoria, linguaggio e riservatezza. Memoria perché è quando viene fotografato che il ricordo diventa reale e, nel caso di questa piccola vicenda personale, l’assenza di fotografie mi impegna a rendere il ricordo più vivido in aperta dialettica con le questioni di linguaggio. Linguaggio perché è nella fotografia, o meglio nelle fotografie, che trovo uno spazio di espressione unico e personale, assolutamente necessario e allo stesso tempo incompleto per natura. Riservatezza perché, questa volta, davanti al dolore degli altri, per quanto mi riguarda, la fotografia ha segnato, non senza dolore, un punto limite. Se da una parte guardare la sofferenza rende partecipi e quindi implica la messa in gioco di un senso etico universale, dall’altra la natura della fotografia ci insegna che non c’è filtro e l’indifferenza emotiva è il rischio di ogni assuefazione visiva. Ogni immagine che mostri la violazione di un corpo corre il pericolo di essere pornografica e “le immagini ripugnanti possono affascinare”. Il nostro sguardo cambia se cambia il linguaggio. E allora ecco che preferisco cambiare tanto quanto cambia il mio sguardo. Preferisco concepire la fotografia come mantello, come pallium appunto, come esperienza a suo modo palliativa: rimedio apparente e temporaneo adottato per fronteggiare un problema, ma inadeguato a risolverlo definitivamente.
AM: Quali sono i tuoi progetti futuri? Continuerai a lavorare col progettoSKIA?
In greco antico skia può significare ombra, figura apparente, fallace visione (che bella definizione di fotografia!) e dunque progettoSKIA è un laboratorio sperimentale permanente che mi auguro di poter alimentare ancora a lungo con le mie produzioni ma anche e soprattutto con quelle di altri artisti che abbiano l’esigenza o il desiderio di lavorare nel contesto della montagna. Vorrei poter ospitare autori provenienti da contesti nuovi e lontani ma allo stesso tempo poter attivare sinergie più solide con gli autori giovani e bravi che pure ci sono qui, sul nostro territorio.