Quaranta | Intervista con Alessandro Piangiamore

"La mia attitudine nell'utilizzo della materia rimane una costante, è una sorta di necessità, un continuo tentativo volto a dare forma a delle componenti effimere della nostra realtà."
16 Ottobre 2016

In occasione alla sua mostra personale Quaranta – visibile fino al 31 ottobre 2016 alla galleria Magazzino di Roma – abbiamo posto alcune domande ad Alessandro Piangiamore. 

ATP: Quaranta, bella tappa direi! Un numero tondo che, se non erro, segna la tua età e anche il numero delle opere in mostra. Mi racconti il perché di questa scelta?

Alessandro Piangiamore: Certamente ho sempre avuto una forte fascinazione per il rituale ed e l’idea di associare questa mostra ad una celebrazione in maniera non proprio esplicita è stata spontanea e quasi consequenziale. Dico non proprio esplicita perché non abbiamo comunicato che l’apertura della mostra coincideva con il mio compleanno, si trattava di un’informazione nota solo  a pochi intimi. Ho piuttosto preferito far convergere la “prima” attenzione sul numero delle opere in mostra, ovvero 40 (forse un paio in meno), in effetti un bel numero per i miei standard passati. Per la prima volta nel mio percorso ho sentito l’esigenza di non distillare ma restituire il lavoro affrontato in maniera massiva.

ATP: C’è un motivo particolare che giustifica questo cambio di rotta?

AP: Sarà forse l’arrivo dell’età matura… In verità non credo che si tratti di un cambio di rotta, quanto più di un’esigenza reale: in questo ultimo anno ho lavorato moltissimo attorno ai lavori presentati, ho sentito il bisogno di indagarli in maniera profonda e ho deciso di esplicitare questa intensità. Ad un certo punto sono stato completamente circondato dai fiori che sono all’origine di questi lavori e ho provato a restituire allo spettatore la stessa sensazione.

ATP: Ho la sensazione che la mostra si divisa in due parti: una che sviluppa la tua ricerca degli anni scorsi, l’altra che è più proiettata verso altri tipi di investigazioni, sia formali che materiche. Mi sbaglio?

AP: La mia attitudine nell’utilizzo della materia rimane una costante, è una sorta di necessità, un continuo tentativo volto a dare forma a delle componenti effimere della nostra realtà. Ed è in questa sintesi che si basa certamente una larga parte della mia ricerca, credo pertanto che i due aspetti continuino a compenetrarsi, convivendo su uno stesso piano.

 ATP: In merito alle nuove “sculture-leve”: sono presentate come oggetti funzionali ma dallo scopo impraticabile. Mi racconti come nascono?

AP: Questi nuovi lavori hanno come titolo comune  “Belvedere”: si tratta di forme che nascono da un’esigenza reale, ovvero quella di rendere più agevole il sollevamento delle altre opere presenti in mostra, gli Ieri Ikebana, per renderne più facile l’ancoraggio alla parete. Come accenni tu sono delle leve, o meglio, nascono per esserlo, ma la verità è che dopo averle pensate ho scelto di  realizzarle e di non utilizzarle, non verificandone pertanto la funzionalità.  E’ stata questa rinuncia insieme alla mancata verifica che ha portato queste forme dal “regno” dell’oggetto a quello della scultura. Ragionando infatti su questi lavori ho costantemente pensato ad una riflessione di Alberto Giacometti che diceva appunto che un oggetto può essere superato da un’altro oggetto, per qualità varie, come ad esempio le migliorate funzionalità; una scultura non può essere invece superata da un’altra scultura, perché non c’è una possibile verifica.

ATP: Nelle opere con la cera, così come nella serie Ikebana, dove hai utilizzato il cemento, il caso era un aspetto determinante per l’esito formale delle opere. Nelle ultime sculture in ferro zincato, invece, domina un ferreo controllo. C’è una linea di continuità tra le due ricerche o ti stai aprendo ad un altro tipo di ricerca?

AP: Il caso, o per essere più precisi, “la parziale perdita di controllo” rimane una costante, è qualcosa che ha a che fare con un senso di istintività insita nell’uomo, così come allo stesso modo insita è la razionalità che si può manifestare in forme caratterizzate da una geometria definita. Se guardo il mio lavoro nella sua complessità vedo i due aspetti coesistere: mi viene da pensare alle forme geometriche originarie di “Tutto il vento che c’è” che vengono lasciate in balia dei venti, così come la classica forma rettangolare che assumono i residui di candele fusi ne “La cera di Roma”.

Quaranta -  Alessandro Piangiamore,   Installation view,   Magazzino,   Roma - Photo Roberto Apa

Quaranta – Alessandro Piangiamore, Installation view, Magazzino, Roma – Photo Roberto Apa

Quaranta -  Alessandro Piangiamore,   Installation view,   Magazzino,   Roma - Photo Roberto Apa

Quaranta – Alessandro Piangiamore, Installation view, Magazzino, Roma – Photo Roberto Apa

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