Testo di Gigliola Foschi —
Alla fine degli anni ’70 l’artista Duane Michals si chiedeva se la fotografia , considerata “uno specchio della realtà”, potesse rappresentare i sogni. Così s’impegnò a far correre a briglie sciolte la sua fantasia e i suoi sogni, narrandoli e dando loro visibilità, immagine dopo immagine, nel suo celebre libro Real Dreams. Finita l’epoca della Narrative Art e immersi nel mondo della virtualità e dei nuovi media, gli interrogativi e le riflessioni portate avanti da Mauro Zanchi, nel suo nuovo libro, La fotografia come medium estendibile (Postmediabooks, Milano, 2022, pp. 162, € 16,90), appaiono ancora più radicali. Se la scienza attuale, basata sulla fisica quantistica, «asserisce che fino ad ora siamo riusciti a vedere solo il 4% della materia esistente, mentre il 96% di ciò che costituisce il mondo e l’universo è classificabile in parte come materia oscura, in parte come energia oscura» – scrive Zanchi – a quale realtà facciamo riferimento quando parliamo di fotografia? A quel 96% per cento di ignoto o solo a quel misero 4%? Ma fughiamo subito ogni dubbio di semplice “scientismo” da parte del nostro autore. Il suo riferimento alla fisica quantistica è infatti solo un tassello, una sorta di apertura di base per andare nella direzione di un’oltrefotografia – come lui la definisce con acume – che possa spingersi verso l’impensabile e l’invisibile. Vale a dire verso quelle profondità della coscienza a noi stessi ignote che rappresentano le strutture oscure del nostro essere e del nostro pensiero: quell’ “oltre” carico di potenzialità inespresse dove gli aspetti scientifici possano innestarsi su un sostrato mitico. Zanchi intende dunque valorizzare il rapporto di stampo magico tra fotografia e mondo; e ciò in sintonia con Vilém Flusser, che si chiedeva come sia «possibile forzare l’apparato a produrre qualcosa impossibile da prevedere, qualcosa di improbabile, di informativo» (V. Flusser, Per una filosofia della fotografia, Agorà, Torino, 1987, p. 81).
Tali riflessioni e aspettative di Zanchi ricordano anche, per certi versi, quelle di Elémire Zolla, che nel suo libro Uscite dal Mondo (Adelphi, Milano, 1992) vedeva nella realtà virtuale la possibilità di un rovesciamento salutare di quel fare e di quel pensare ancora legati alla rivoluzione industriale. Questa nuova tecnologia ci avrebbe permesso di «uscire dallo spazio che su di noi hanno incurvato secoli e secoli», di andare al di là dei nostri recinti e spingersi là dove «si spalanca l’immensa distesa del possibile (…) si perverrà a programmare vicende sciamaniche e accanto ad esse altri casi di perfezionamento psichico e anche spirituale» – scriveva. Zolla, in quel testo, si riferiva agli “occhiali magici” capaci di simulare la realtà proiettandola in tre dimensioni.
Nella fisica post-relativistica e nell’avanzamento delle tecnologie informatiche, che lo entusiasmavano, vedeva infatti nuove possibilità per collegare il passato al futuro, per redimere l’alienazione della vita presente reimmergendosi, in modo nuovo e grazie a tali scoperte, nei segreti di mistici e sciamani, alchimisti e visionari. Trascorsi ormai trent’anni da quel libro profetico, Zanchi, forse inconsapevolmente (nella bibliografia non è infatti indicato alcun libro di Zolla, ma mi fa piacere poter ricordare questo grande pensatore a vent’anni della sua scomparsa, avvenuta il 29 maggio 2002), sembra infatti riflettere in un modo a lui vicino. Scrive infatti: «se gli scienziati riescono a intervenire sulla luce, a modificarla, a rallentare il suo corso o a fare altro, sicuramente anche la fotografia del futuro si fonderà su altre leggi (…) Mi figuro uno stato di sospensione o un atto contemplativo più evoluti per vedere che aspetto hanno le cose quando vengono immaginate diversamente dalla loro usuale forma (…) La visione estatica, la meditazione, la contemplazione o altro possono spostare le possibilità della fotografia o di un altro medium?».
Nell’epoca dell’infosfera e della sovrabbondanza di immagini non si tratta, per Zanchi, di andare contro le nuove tecnologie e scoperte scientifiche per ritrovare visioni contemplative e del profondo capaci di contrastare la superficialità e l’affermatività che dominano i media contemporanei. Se mai è il contrario. Senza dimenticare il passato, né rinnegare il valore della memoria, infatti, ci si può anche immergere nell’intermedialità, entrare e usare diversamente le nuove tecnologie digitali, da Google Street View agli universi sintetici della Second Life. La fotografia e l’arte potranno così estendere le loro potenzialità, far emergere le possibilità latenti del vedere per andare al di là di visioni puramente retiniche, capaci solo di mostrare ciò che si può riconoscere. L’ oltrefotografia di cui parla Zanchi va, per l’appunto oltre. Grazie al suo cortocircuito con altri codici e linguaggi , si apre all’esperienza dell’incanto, può divenire un’epifania o qualcosa di enigmatico capace di sollecitare l’immaginario dello spettatore. Ma per non rimanere ancorata a un discorso solo astratto, faccio alcuni esempi. Nelle tre ricerche THE GOOGLE TRILOGY , Emilio Vavarella esplora il funzionamento delle mappe digitali di Google alla ricerca di errori capaci di rendere visibile ciò che era rimasto nascosto. In 1 Report a Problem, ad esempio, il paesaggio “sbagliato” e inaspettato che egli fissa in immagini è quellodei luoghi “glitchati” di Google Street View: punti di rottura, di non leggibilità e di non prevedibilità, insinuati all’interno di una visione che si vorrebbe fluida e talmente precisa da restituire l’esperienza dell’essere lì, in quel determinato luogo. In 3 The Driver and the Cameras Vavarella è andato invece alla ricerca dei ritratti degli autisti della Google Car sfuggiti agli algoritmi censori di Google. Qui l’errore rivela una presenza umana nascosta dietro l’apparente autosufficienza del sistema informatico.
Tali ricerche, facendo delle nuove tecnologie i soggetti delle sue opere, espandono e scardinano dall’interno la logica classica del fotografico per la quale ogni fotografia nasce dal rapporto tra un soggetto e la realtà visibile, fissata in uno scatto. Al contempo trasformano la visione in un elemento rivelatore di quanto risulta invisibile perché celato all’interno di un sistema che si propone talmente perfetto e asettico da escludere errori e la stessa presenza umana. Silvia Bigi, invece, nella sua ricerca Urtümliches Bild (“immagine originaria”), processa la materia effimera e pulsante dei sogni attraverso l’intelligenza artificiale degli algoritmi. Addestrato a tradurre input testuali precisi e chiari in un forma visiva accurata, l’algoritmo, qui posto a confronto con contenuti complessi e immaginifici, “fallisce”: riesce infatti a proporre solo immagini imperfette, surreali, simili a macchie misteriose. L’incontro tra l’inconscio umano e quello tecnologico finisce così per creare immagini enigmatiche che rievocano l’astrattismo pittorico del XX secolo, ma conservano una carica simbolica universale e senza tempo. Ancora una volta le tecnologie più avanzate vengono messe alla prova in relazione a qualcosa di profondo, che ha a che fare con gli archetipi (non a caso Bild è il termine con cui Jung denomina gli archetipi), per indagare ciò che è rimasto inesplorato, fino a creare opere incomplete, basate su aperture allusive.
L’oltrefotografia di cui parla Zanchi supera e mette infatti in discussione non solo la logica dell’istante decisivo, ma anche quella che vede il fotografico legato a un “è stato”, a qualcosa di già trascorso. Tali riflessioni presuppongono infatti l’idea di un unico tempo lineare che dal passato va verso il futuro, mentre ciò che preme sostenere al nostro autore è un’arte della preveggenza, dell’ignoto, partendo dalla consapevolezza che esistono tempi diversi e che – in sintonia con Martin Heidegger – l’ “essere nel tempo” è un’esperienza complessa. « Ciò che intendo per oltreimmagine è solo un passo ulteriore verso qualcosa che non abbiamo ancora visto, sentito, percepito, ascoltato, immaginato. E’ forse solo un salto nel buio. Sarà solo la storia a chiarirlo» – scrive lui stesso. Certo le sue riflessioni hanno qualcosa di utopico, ma di utopie oggi c’è bisogno per immaginare un diverso futuro dove si potranno relazionare immagini anacronistiche con immagini preveggenti per mettere in azione nuove dinamiche e inediti sensi.
Scriveva Th. W. Adorno: «Veri sono solo i pensieri che non conoscono se stessi» e Zanchi forse potrebbe dire “vere sono solo le fotografie il cui significato è ignoto a se stesse”. D’altra parte è lui stesso a parafrasare, rovesciandone il senso, la famosa frase pubblicitaria della Kodak: «Voi premete il pulsante e la fotografia farà il resto» in quest’altra: «voi non premete il pulsante e la metafotografia farà il resto», dove ciò che conta realmente è questo “resto”, ovvero ciò che è ancora ignoto, che è rimasto inesplorato ma ha lasciato una traccia da seguire e forse anche da trovare.