Camilla Candida Donzella è una fotografa, designer e artista outsider, basata a Milano, il cui lavoro dimostra una forte connotazione istintiva e autobiografica. La realtà che ci appare nei suoi progetti svela tutta la sua brutale complessità, abbracciando storie di luoghi, oggetti e persone che ci sorprendono sempre, per la loro onestà di esistere, fra l’umano e il disumano, e in cui anche l’artificio è reso genuino da un’abile alchimia di elementi, in una composizione che risulta sempre naturale, anche quando si parla di fantasmi. Non a caso una delle professioni di Camilla è proprio l’Alchimista, o almeno così appare sul suo biglietto da visita…
Venerdi 23 novembre alle 22, nel contesto di Raum (Bologna), Camilla presenterà Acufene (produzione Xing), un percorso fra elementi installativi, sonori, video ed editoriali che contribuiranno ad immergere lo spettatore in un vortice di riferimenti a quella specifica età dell’adolescenza in cui capita che l’irrequietezza ti faccia sentire spesso febbricitante e all’immaginario inglese delle corse d’auto Banger Racing, in cui è lecito speronarsi pur di raggiungere la vittoria. La collaborazione sonora con Palm Wine, ricercatore di suoni post-global, e Dafne Boggeri, artista visiva e attivista, definirà la dimensione sonora con un motor-remix stampato su vinile in esemplari limitati.
Segue l’intervista di Dafne Boggeri con Camilla Candida Donzella —
Dafne Boggeri: Camy, per iniziare volevo chiederti: che rapporto hai con la febbre?
Camilla Candida Donzella: Odio tosse e mal di gola, ma la febbre no, la febbre l’adoro. Spesso la misuro pensando/sperando d’averla e mi sbaglio sempre… Mi piace che ti costringa a letto, a prenderti una pausa, e poi il mito che ancora inseguo fin da piccola, quando mi dicevano che con la febbre alta crescevo di qualche centimetro, ecco qualche centimetro in più l’ho sempre voluto.
DB: Da quando ci conosciamo ti ho sempre vista fotografare, a fasi elastiche, in cui ti sei dedicata anche ad altri linguaggi: che rapporto hai con la fotografia e qual è stata la spinta che ti ha portato a dedicartici?
CCD: La fotografia per me è naturale, necessaria, vitale. Ho iniziato a fotografare a 13 anni, in terza media per la promozione mi sono fatta regalare un ingranditore. Il mio primo rullino l’ho sviluppato in una bottiglia da 1 litro di succo di frutta avvolta in un asciugamano… è il rullino che abbia mai sviluppato meglio nella vita (le prime volte sono sempre le migliori, quelle dove non hai nessun tipo di barriera). Ho sempre avuto la necessità di documentare quello che mi circondava, a volte anche rimettendolo in scena.
DB: A Milano sei sempre stata presente con progetti artistici, penso alla mostra del 2001 al centro sociale occupato S.Q.U.O.T.T. di viale Bligny 22, occasione in cui ci siamo conosciute, alle collaborazioni successive con King-Kong shop di Federico Sarica e Dumbo e a tutte le confluenze create intorno a SHAME, lo shop che hai gestito dal 2011 al 2017 in via Porro Lambertenghi 17, ma allo stesso tempo New York è stata un base di importanti esperienze. Ce ne vuoi parlare? Cosa ti ha portato lì? Quali incontri fondamentali sono avvenuti?
CCD: Cavolo ci conosciamo da 18 anni mi sembra ieri la prima volta che ti ho vista: tu uscivi e io entravo dallo S.Q.U.O.T.T. A me non sembra mai di aver fatto tanto ma se ora ci penso bene in effetti sì, un sacco di esperienze e di collaborazioni… Collaborare è la cosa più stimolante che esista. Diciamo che in ogni posto che ho occupato e in cui sono stata al mondo ho cercato una connessione in qualche modo. In America ci sono finita perché non sapevo l’inglese e quello era l’immaginario con cui ero cresciuta.
Quando ero teenager gli unici film che parlavano di questo particolare momento della vita erano americani, quindi la prima volta che ho visitato quel luogo mi sono sentita subito a casa. Facevo periodi di 3 mesi e poi quando tornavo in Italia appena avevo abbastanza soldi per ripartire ci ritornavo. Ho fatto avanti e indietro dal 2002 fino al 2009/2010, ad un certo punto avevo anche deciso di andarci a vivere ma poi ho aperto SHAME e mi sono incastonata qui. Gli incontri che mi hanno segnata sono moltissimi, in Italia: Ivano Atzori e Federico Sarica, Andrea Lissoni, le ragazze di Eightball di Bassano, tu e tutte quelle persone che mi hanno stimolato a continuare ‘a fare’. In America invece Vincent Signorelli e Scott Campbell. Sono state due persone speciali, che hanno creduto nel mio lavoro, dandomi molta fiducia.
DB: Il progetto che presenterai a Raum, sabato 23 novembre, si intitola Acufene, parola che indica un disturbo auditivo continuo, una specie di rumore di fondo dal quale non ci si può mai separare. Se non sbaglio tu soffri di questa patologia, che può essere anche indotta da un’esposizione a volumi molto alti. La tua formazione arriva dal Punk e dai concerti HC, quanto credi che questo percorso abbia inciso sul livello della tua acufene?
CCD: Mi hanno sempre detto da piccola di non tenere il volume alto nelle cuffie, ma a me piaceva isolarmi non sentire assolutamente nulla di quello che mi stava attorno. Che sia quella la causa? Per me l’ acufene è la rappresentazione del disagio e di sicuro il punk e l’hard-core sono state le realtà che mi hanno salvata, che non mi hanno fatta sentire diversa.
DB: Un elemento importante del progetto è il concetto di ‘velocità’, in quanto immaginario da ‘gara’ o come atteggiamento per ribellarsi contro una società bigotta. Sei stata fra le prime persone in Italia ad aver importato da NY un certo sguardo sulle biciclette ‘fisse’ e sulla cultura delle gare illegali per strada. Cosa ti ha spinta verso quel mezzo e com’è stata la sensazione di partecipare alla tua prima gara? In che contesto è stata?
CCD: Fin da piccola ho avuto la passione per macchine, bici e moto. Sognavo di far la stunt-woman e la tassista. Insomma i mezzi mi hanno sempre affascinato, mi piaceva la velocità lo spostamento e l’indipendenza. Per quanto riguarda la bici fissa: come non innamorarsene? Essenziale, senza cavi e si muove con te, ti segue come una parte del tuo corpo. Era divertentissimo, sia fare le gare che organizzarle, più veloce che potevi. La prima gara a cui ho partecipato era a Milano e credo di aver tirato in mezzo anche te, se non ricordo male, nona e decima su 45 ‘cappellini’ : ) Non ricordo l’anno ma forse ne sono già passati 10.
DB: Il centro della ricerca del progetto che presenterai ruota intorno alla documentazione fotografico della scena Inglese del Banger Racing, raduni di auto in cui si compete per velocità e/o resistenza. Inizialmente si trattava di un progetto legato al punto di vista femminile, che successivamente hai deciso di aprire ad altre soggettività. Come hai incontrato questa realtà così particolare, di cui in Italia non c’è tradizione?. Cosa ti ha spinta ad avvicinarti con così tanta passione/determinazione e perché hai deciso di includere anche il punto di vista maschile?
CCD: Mi ha sempre affascinato come realtà, quindi in modo molto naturale ho deciso di iniziare a documentarla. È vero, ho iniziato volendo fotografare solo donne, ma poi vivendo meglio la situazione mi sono accorta che tra i generi, in quel circuito, non c’è distinzione, ovvero uomini e donne gareggiano insieme e le donne, come gli uomini, riparano le macchine. Quindi mi sono chiesta: perché devo farla io la distinzione se non la fanno loro? Certo il mio focus rimane al femminile, in quanto mi ci riconosco, ma poi va oltre.
DB: Sei fra le tre persone che conosco che guidano meglio, riesci a fare una retro ad occhi chiusi, come se padroneggiassi un gps interno e parcheggi anche in verticale sui muri… Hai mai pensato di partecipare ad una gara di macchine? Ho magari l’hai già fatto e allora vorremo sapere com’è andata…
CCD: Una volta ho anche buttato giù un palo della luce di cemento gigante, hahahahaha. Mai partecipato ad una gara di questo tipo, il mio lavoro forse sarà completo il giorno in cui vi parteciperò. Del resto già due persone si sono offerte di costruirmi una macchina e se capita la terza: accetto!
DB: Questa sarà anche l’occasione per presentare una pubblicazione e un’edizione in vinile stampata in un numero di copie limitatissimo, in collaborazione con Simone Bertuzzi (Palm Wine, Invernomuto) e Dafne Boggeri (lianelineaalien.xyz, Tomboys Don’t Cry), artisti che sono stati chiamati a remixare liberamente una traccia audio di una delle gare di auto che hai documentato. Cosa rappresentano per il tuo percorso le ‘zine’ e perché è importante realizzarle?
CCD: Per come fotografo è importantissimo che ogni lavoro diventi un libretto, e si fissi sul perimetro di una ‘zine’, altrimenti non riesco a considerarlo veramente completo e finito. L’autoproduzione è importante, necessaria e vitale rispetto a tutto quello che produco.
DB: Nell’installazione saranno presentati anche quattro film che ritieni essere stati formativi per la tua adolescenza: Over the Edge (1979, Jonathan Kaplan), The Outsiders (1983, Francis Ford Coppola), Dogs in Space (1986, Richard Lowenstein), River’s Edge (1987, Tim Hunter). Vorrei conoscerne altri tre che, per ragioni di spazio/tempo, non hai potuto inserire ma che vorresti condividere con noi.
CCD: Da piccola avevo una tv in camera e con la complicità di Enrico Ghezzi, che conduceva la rassegna Fuori Orario, ho visto molti film. Quelli selezionati per la mostra li ho visti intorno ai 15/16 anni, mi hanno segnato molto essendo tutti film che parlano di gioventù ribelle al sistema…
Altri quattro titoli che mi hanno sicuramente lasciato qualcosa sono: Bad Boys (1983, Rick Rosenthal) – la scena delle lattine e del cuscino fenomenale -, Cercasi Susan Disperatamente (1985, Susan seidelman) – ‘lei’ faceva quello che voleva, quando voleva… per la mia età era un vero idolo, e poi ‘lui’ faceva il proiezionista e viveva in un cinema -, poi ovviamente i The Goonies (1985, Richard Donner) ed E.T. (1982, Steven Spielberg)… quanto ho pianto fra il 1982 e il 1985…
DB: Oltre ai film, poster, foto, pneumatici nello spazio ci saranno anche degli oggetti e ornamenti legati alla cultura delle gare automobilistiche, come feticci magici, che potrebbero contenere poteri superiori. Uno in particolare è stato prodotto apposta per l’evento. Com’è nata questa collezione di oggetti e che caratteristiche ha l’esemplare in tiratura limitata di copie che hai realizzato?
CCD: Ho preso un logo della Nissan (tra le marche preferite per le gare), che ho trovato rotto durante una competizione e ho voluto trasformarlo e re-interpretarlo, dargli potere e farlo diventare prezioso e quindi l’ho riprodotto in una serie di 5 esemplari. Il retro al tatto presenta la ruvidità specifica della ceramica non laccata, mentre la fronte è stata spennellata d’argento, con un effetto che rende il simbolo di una consistenza quasi ‘liquida’.
DB: Ultima domanda: una cosa che vorresti che succedesse all’inaugurazione?
CCD: Impadronirmi di poteri magici…