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Dopo sette workshop svoltisi nell’arco di tre mesi all’interno del laboratorio Academy Awards, alla Fabbrica del Vapore (fino al 4 febbraio 2016), saranno esposti i lavori di sedici studenti e neolaureati che vi hanno aderito.
Questi sono Dario Bitto, Paolo Brambilla, Giada Carnevale, Nicole Colombo, Lucia Cristiani, Filippo De Marchi, Valentina Furian, Diego Gualandris, Lorenza Longhi, Edoardo Manzoni, Leonardo Mastromauro, Luca Petti, Margherita Raso, Giovanni Riggio, Riccardo Sala, Natalia Trejbalova; e provengono dalle seguenti accademie di formazione: Accademia di Belle Arti di Brera, Milano; NABA Nuova Accademia di Belle Arti, Milano; Accademia Carrara di Belle Arti, Bergamo; Accademia di Belle Arti, Venezia; Università IUAV, Venezia, Accademia Albertina di Belle Arti, Torino.
I curatori che hanno seguito il progetto sono anch’essi giovani ed emergenti, della stessa generazione degli artisti suddetti, nonché scelti a loro volta dalle medesime istituzioni formative. Sono Mattia Capelletti, Valentina Lacinio, Filippo Lorenzin, Caterina Molteni e Bianca Stoppani.
Il tutto è stato ideato e coordinato da Simone Frangi (direttore artistico di Viafarini e co-curatore di DOCVA) e Giulio Verago (organizzatore programmi educativi).
Di seguito l’intervista ai curatori.
ATP: Vi chiedo di raccontarmi, brevemente la peculiarità dell’esperienza che avete fatto in relazione all’ Academy Awards?
Caterina Molteni : La peculiarità dell’esperienza di Academy Awards è la possibilità di creare una piattaforma condivisa fra studenti ed ex-studenti delle Accademie scelte, attraverso la creazione di uno spazio di confronto. Le idee di classe, professore e lezione frontale vengono sostituite da gruppo, approccio laboratoriale e orizzontalità. questo è reso possibile dalla volontà di Viafarini che, come diverse istituzioni no profit europee, promuove progetti educativi sperimentali. Basta guardare il modo in cui noi curatori siamo stati chiamati a partecipare: pensare un percorso ‘formativo’ e non solo una mostra, rendere perciò la pratica curatoriale come un metodo di ricerca e produzione, allontanandosi dalla più tradizionale funzione dei curatori come exhibition makers.
ATP: Quali criterio avete seguito nella selezione degli artisti? O riformulata: quale aspetto della ricerca degli artisti selezionati avete valutato maggiormente?
Valentina Lacinio : La selezione degli artisti è stata una fase particolarmente delicata e impegnativa. Come è facile immaginare la dislocazione di noi curatori (Io e Filippo a Venezia, Mattia a Milano, Bianca a Londra e Caterina a Cambridge) ha fatto sì che si creassero per ovvie necessità delle lunghe sessioni Skype. Una delle prime è stata proprio quella dedicata alla selezione. Il primo step di Academy Awards è stato la pubblicazione di un open call aperto a studenti e neodiplomati delle principali Accademie italiane. Una volta ricevute le applications abbiamo voluto mantenerci il più oggettivi possibile, per questo abbiamo creato uno specifico criterio di valutazione così da dare una prima scrematura ai portfolio (che continuavano ad aumentare anche oltre la deadline delle 0.00). Successivamente abbiamo intavolato delle discussioni più ampie nel caso in cui si presentassero giudizi discordanti sugli artisti. È stata dura ma ce l’abbiamo fatta e al termine della sessione eravamo davvero molto soddisfatti della rosa.
Filippo Lorenzin : Come ha accennato Valentina, ognuno di noi ha studiato i tanti portfolio ricevuti seguendo, almeno in una primissima fase, le proprie inclinazioni e parametri. Non è un segreto che noi cinque, sebbene concordi su molti degli aspetti e delle decisioni prese nel corso di questo mese, giungiamo altresì da percorsi critici molto vari e, in certi casi, divergenti; scoprire questa varietà di vedute e approcci è stato, per me come curatore e persona, uno dei momenti più esaltanti e stimolanti dell’intera esperienza legata ad Academy Awards. Una volta scremate le prime decine di artisti, ci siamo confrontati su quelli che manifestavano maggiore potenziale in termini di freschezza e densità della ricerca. In questa fase i sedici artisti che abbiamo selezionato sono risaltati in maniera evidente rispetto agli altri: la scelta è stata semplice, in questo senso.
ATP: In merito ai laboratori e ai workshop, avete affrontate – in modo critico – molti aspetti legati all’arte. Quali temi sono emersi, o quali argomenti ritieni più importanti per il tuo percorso di curatore/rice, dalle riflessioni e dialoghi che avete avuto?
Mattia Capelletti: Essendo quello di Academy Awards un format propostoci da un’istituzione, Viafarini, nelle prime fasi di dialogo si è ragionato su ciò che di questo progetto avremmo voluto mantenere, ignorare o modificare. Ad esempio abbiamo sempre avuto a cuore la missione autodidattica, a nostro parere il vero “punctum” di Academy Awards, mentre si è manifestata la volontà da più parti di testare l’elasticità del dogma della mostra come necessario output finale. L’interesse per la vocazione educativa del progetto si è tradotta nella sperimentazione di metodologie didattiche pensate da noi curatori – questo anche per porci sullo stesso piano rispetto agli artisti e non ripetere gli schemi frontali e gerarchici delle istituzioni educative tradizionali. Le sessioni critiche infatti si sono svolte nel tentativo di un approccio laterale alla ricerca degli artisti, con lo scopo di un ri-conoscimento – fra di noi, fra di loro e con la loro stessa pratica – che su di queste gettasse nuova luce. Se quindi è stata chiara fin dall’inizio l’attitudine rispetto ai ruoli, quello dell’orizzontalità è stato il perno tematico di tutti i mesi della durata di Academy Awards: alcune volte una parola da noi stessi abusata, altre un metodo reale, è stato comunque il soggetto di problematizzazioni e ripensamenti costanti.
Filippo Lorenzin: Uno dei temi maggiormente affrontati nel corso degli incontri con gli artisti è stato sicuramente il processo creativo con cui ognuno di loro progetta e formalizza un’opera. Tra gli artisti coinvolti, alcuni sono particolarmente meticolosi e attenti ad ogni più piccola sfumatura, concentrati a non far deviare la propria opera dai binari da loro progettati; altri, invece, sono aperti alla potenzialità del non-finito, del materiale riutilizzato che può portare su percorsi non programmati a priori. Tra questi due estremi stavano ovviamente moltissime sfumature e il metodo sperimentato per discutere dei loro lavori è stato fondamentale per rivelare sorprendenti punti di incontro e divergenze tra metodi di lavoro che, molto spesso, sono la manifestazione di modalità di ragionamento influenzate da dinamiche che vanno al di là del pensiero critico legato all’arte.
ATP: In merito alla mostra. Più che un vero e proprio progetto espositivo, la considererei una verifica sulla vostra esperienza. Quale aspetto di questa ‘verifica’ hai maggiormente ‘curato’? Cosa eri interessato a rivelato del tuo percorso-esperienza?
Valentina Lacinio: Abbiamo cercato di dare poche indicazioni molto chiare su quello che avremmo voluto fosse la trasposizione di questa esperienza nello spazio mostra. L’idea era di restituire un processo di conoscenza che si è attivato gradualmente di giorno in giorno. Agli artisti abbiamo suggerito di lasciare che lo spazio che circoscrive l’opera fosse il più possibile allentato; non è stato difficile perché abbiamo avuto la grande fortuna di trovare tra artisti e curatori una buona intesa fin dall’inizio, un feeling molto spontaneo. Credo che il metodo che abbiamo proposto sia stato poi fondamentale per creare un certo tipo di coesione tra gli elementi coinvolti e soprattutto mantenerlo. Nel momento della trasposizione in mostra gli interventi sono stati dei più vari, molteplici le interferenze tra artisti e opere. Non mi sento di aver “curato” ma di aver cercato di suggerire delle connessioni, ed è proprio questa idea del curatore come “connettore” che mi interessava sperimentare.
Filippo Lorenzin: La mostra è stata allestita riportando quel fitto dialogo che ci ha tenuti impegnati nel corso di questi mesi – un confronto, questo, che è andato molto spesso al di là dei momenti ufficiali e che si è protratto in modo informale seguendo le affinità elettive tra gli artisti e ognuno di noi curatori. In questo senso la disposizione dei lavori è manifestazione diretta di similarità e divergenze tra ricerche e modalità di lavoro che si sono palesate in queste settimane in maniera più o meno evidente. Uno degli aspetti che mi ha maggiormente affascinato è stato il modo in cui molti dei progetti esposti hanno palesato in fase di allestimento una propria carica di energia che li spingeva a tendere verso altri determinati lavori, rigettandone al contempo altri – a volte pure in maniera violenta. Come calamite erano attratti gli uni con gli altri, respingendo ciò che era loro contrario.
Bianca Stoppani: L’incertezza, probabilmente, come il titolo di un lavoro di Gianfranco Baruchello, Verifica incerta (1964). L’allestimento che si vede ora è solo uno di quelli che avevamo ipotizzato, e non necessariamente il migliore. Dall’inizio eravamo infatti consapevoli che la traduzione del concetto di orizzontalità nella mostra e nel suo allestimento sarebbe potuto essere fallimentare. Avevamo perciò pensato ad un allestimento che variasse settimanalmente secondo uno schema preciso, ma alla fine non è stato un percorso che abbiamo potuto intraprendere. Da qui l’incertezza della verifica davanti all’inesauribilità delle soluzioni possibili e alla difficoltà di ridurre un’esperienza così plurima ad una lettura univoca e unitaria.
Mattia Capelletti: Come dice Bianca, al momento di finalizzare il progetto in un output, ci si sono presentate innumerevoli soluzioni possibili di cui la mostra così come appare ora è solo una versione. A qualsiasi risultato fossimo arrivati, abbiamo ritenuto importante che questo fosse approcciato mantenendo una certa disponibilità alla sua comprensione come un momento di un percorso, non necessariamente il suo risultato, quindi l’apertura all’errore – persino al fallimento – e alla contaminazione, tutto questo in un’atmosfera di giudizio sospeso (che non significa assenza di pensiero critico).
Caterina Molteni: La mostra è stato un punto, un momento di necessaria messa in esposizione del lavoro dei partecipanti di Academy 2015. Non abbiamo voluto viverla come un’occasione di razionalizzare quello che avevamo fatto, era impossibile racchiudere ore di discorsi in uno spazio espositivo. La mostra si è perciò mostrata ‘inadeguata’ alla narrazione di Academy, doveva essere uno dei possibili ritratti del gruppo dove si possono vedere punti di relazione creati dagli artisti (un esempio, il progetto ancora in corso di Dario Bitto e Paolo Brambilla, Ellipsis http://ellipsis-seaspace.tumblr.com/) come modi di stare nello spazio più silenziosi e singolari. Mi ha interessato molto affrontare con i miei compagni la serie di problemi che sorgevano nel momento in cui si pensava ad un progetto espositivo, mi ha entusiasmato avere conferma pratica di quante aspettative riserviamo (noi: curatori, artisti e visitatori) per una ‘mostra’ anche laddove si parla di formazione ed esperienze.