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New Photography | Intervista a Jacopo Valentini

Intervista di Sara Benaglia e Mauro Zanchi — Sara Benaglia + Mauro Zanchi: Come crei collegamenti o punti di contatto, sia per quanto riguarda la soluzione formale sia quella concettuale, tra le tue serie, per esempio tra Vis Montium  (2018),  Superlunare e quelle che verranno? Jacopo Valentini: Un punto fondamentale della mia ricerca è proprio […]

Jacopo Valentini, installation view from the series superlunare – Festival Filosofia Modena, 2020, courtesy Galleria Antonio Verolino

Intervista di Sara Benaglia e Mauro Zanchi —

Sara Benaglia + Mauro Zanchi: Come crei collegamenti o punti di contatto, sia per quanto riguarda la soluzione formale sia quella concettuale, tra le tue serie, per esempio tra Vis Montium  (2018),  Superlunare e quelle che verranno?

Jacopo Valentini: Un punto fondamentale della mia ricerca è proprio questo che sollevate, la continuità fra un lavoro e l’altro, non solo a livello visivo o contenutistico, ma anche attraverso altri aspetti. Per me contenuto e forma si sviluppano nell’insieme e hanno una genesi comune tra loro. Ci sono delle eccezioni certamente, ma appunto preferisco definirle tali e sono comunque sempre giustificate a livello progettuale. I due progetti sopracitati, Vis Montium e Superlunare,sono diversi tra loro a livello concettuale e, per alcuni aspetti, sono invece vicini a livello formale. La prima ricerca visiva verte sul tema del dislocamento territoriale all’interno dell’immaginario comune, diramandosi attraverso una rete di luoghi sempre accomunati, in maniera più o meno diretta, dalla Pietra di Bismantova. Credo che sia interessante vedere come cambia la percezione dei contenuti a seconda del punto di vista da cui li si analizza e in base a cosa si affianca a essi. Il secondo progetto invece è anch’esso una sorta di viaggio, ma caratterizzato da una certa immobilità, non del tutto volontaria, poiché il lavoro è stato svolto durante un paio di settimane nel mese di aprile 2020 e, a differenza di Vis Montium, è stato concluso in un lasso temporale breve. In parte la sezione delle Nature Morte di entrambi è senza dubbio simile visivamente, poiché penso che il mio approccio nei conforti di queste sia ancora in forte sperimentazione e mutamento. 

SB+MZ: Come nasce il tuo interesse nei confronti della natura morta? Che ruolo ha questo tema (o soggetto) nella ricerca attuale dell’arte che utilizza il medium fotografico?

JV: Ho sicuramente una forte attrazione visiva verso la Natura Morta. Penso che il mio interesse nei confronti di essa abbia origine dallo studio dell’arte egiziana e romana, passando attraverso autori quali Caravaggio, Sánchez Cotán, Willem Claesz Heda, Salvador Dalí, Giorgio Morandi, fino ad arrivare al contemporaneo (Tillmans, Graziani, Benvenuto e altri). Un’altra ragione, completamente di diverso tipo, credo sia legata agli studi che ho intrapreso all’Accademia di Architettura di Mendrisio, dove erano richiesti una notevole mole di modelli di studio da presentare alla docenza. Trovavo interessante poter maneggiare degli elementi e ricostruire degli spazi tramite essi, oltre allo sfondo all’interno del quale sarebbero poi stati presentati. Oggigiorno credo che questo genere fotografico abbia riottenuto una certa importanza e anche un utilizzo maggiore rispetto al passato recente, ma diversamente dal periodo trascorso, in cui questa documentazione visiva era volta principalmente a raccontarci degli spaccati della società dell’epoca, con l’avanzare del tempo penso che abbia ottenuto maggiori declinazioni. 

SB+MZ: Come il tuo sguardo isola un oggetto dal suo habitat consueto? Cosa induce la delocalizzazione dell’oggetto dal suo contesto?

JV: Penso che la dislocazione di un oggetto dal suo habitat naturale sia un atto molto stimolante, mi permette infatti di creare riflessioni diverse, di ottenere un altro tipo di informazione e di fornire una straordinaria percezione di esso. Visualizzare un oggetto in mezzo a una moltitudine è molto differente che osservarlo in maniera individuale. In Vis Montium,per esempio, nella microserie legata ai coralli della Collezione Lazzaro Spallanzani ospitata presso i Musei Civici di Reggio Emilia, estraendo un corallo da una delle teche museali e isolandolo si viene a generare una documentazione differente rispetto a quella più conosciuta. Altri due aspetti su cui mi interessa ragionare a fondo sono il cambio di scala del contenuto fotografato e il background in cui decido di inserire e allestire la Natura Morta. Quest’ultimo non è mai del tutto neutro e anch’esso serve ad aggiungere ulteriori informazioni all’opera. 

SB+MZ: Ci parleresti del disorientamento anche solo parziale che intendi ricreare nelle tue immagini?

JV: Per disorientamento intendo quel tipo di sensazione dedicata al fruitore durante la visione del mio lavoro. Mi interessa riflettere su questo tema a diversi livelli, a volte più velati, a volte meno, a volte dettato da una dimensione non apparentemente convenzionale della fotografia, altre volte dall’affiancamento di una o più opere. Lavoro su di esso in fase di progettazione, durante la creazione della narrazione visiva e anche nel corso degli allestimenti. Ultimamente ho iniziato ad avere una profondità diversa nei confronti della messa in scena del lavoro. Con questo non voglio dire una maggiore complessità, tutt’altro, ma per ogni mio progetto penso sempre a un allestimento ideale. In Vis Montium, per esempio, alla Pietra di Bismantova affianco anche altri altipiani, ulteriori contenuti lontani: anche questa per me è un azione legata al disorientamento. 

SB+MZ: Vis Montium (2018-in corso) indaga la Pietra di Bismantova, attraverso un viaggio nell’Appenino Tosco-Emiliano. La rupe è il soggetto di alcune delle fotografie, e la sua presenza evoca culti arcaici e dell’epoca etrusca.  Per questa sua aura legata anche a una tradizione che la considerava come un’arca sacrificale, Dante ambienta in questi luoghi  il quarto canto del Purgatorio. Cosa entra di tutto questo portato storico, letterario, mitologico, nelle tue fotografie?

JV: Vis Montium, come brevemente riportato in precedenza, è una ricerca visiva che riflette sul tema del dislocamento territoriale e per fare questo si serve anche di fotografie in possesso di un tipo di informazione che a me piace definire eredità culturale e che non sempre ha un legame così automatico con il paesaggio. Per esempio all’interno della serie c’è un opera che raffigura una pagina della prima edizione risalente al 1868 della Divina Commedia illustrata da Gustave Doré. Dante cita la Pietra di Bismantova come il punto di contatto fra Terra e Purgatorio e in questa incisione possiamo vedere precisamente la perforante parete rocciosa disegnata da Doré. Questa è sicuramente una ragione del suo inserimento all’interno del progetto. Al tempo stesso, però, oltre al valore contenutistico è importante per me anche l’approccio fotografico utilizzato verso quel manoscritto. È necessario sottolineare come questo discorso non sia un unicum, ma è applicabile anche ad altre fotografie di questa ricerca come la forma di Parmigiano Reggiano, il documento d’archivio visionato presso l’ICCD di Roma, i Coralli della Collezione Spallanzani e altro. 

Jacopo Valentini, from the series Superlunare (polipo), 2020
Jacopo Valentini, from the series vis montium (parmigiano reggiano), 2018

SB+MZ: Cosa accade quando estrai un particolare o un soggetto da un insieme e lo poni in un’altra condizione fotografica, come unico spectrum dell’opera? 

JV: Spesso lavoro con il tema della preminenza, non solo per quanto riguarda le Nature Morte, infatti penso di possedere una centralità visiva insita anche nei confronti di contenuti più strettamente paesaggistici. È invitante per la mia ricerca creare una gerarchia, non solo in uno stato di progettazione del lavoro, ma anche tramite l’approccio visivo. Per certi versi questo atto che compio è una sorta di ready-made, a cui però si aggiungono ulteriori argomenti come: il cambio di scala dell’oggetto reale, il supporto su cui viene riprodotto, l’aspetto bidimensionale, tridimensionale o di qualsiasi altro tipo dell’opera e altri punti che sono legati alla riproduzione di un qualcosa, poiché al momento non ho ancora incontrato la necessità di installare un contenuto in quanto tale nella realtà all’interno di un’esposizione. 

SB+MZ: Ci interessano le tue riflessioni sui diversi approcci visivi che si possono avere nei confronti dei soggetti naturali e se con i tuoi oggetti vuoi anche suggerire significati simbolici o analogie.

JV: In ogni esecuzione fotografica inserisco normalmente più di un’analogia di carattere concettuale o visivo. Queste possono arrivare in maniera più o meno diretta al fruitore, dipende da quale sia la sua attitudine nei confronti del lavoro. Ho interesse nell’interagire con questi rapporti che si creano fra i contenuti delle opere sia reali che fotografati. Infatti forniscono una molteplicità di letture. Inoltre tramite gli allestimenti si possono mettere in risalto analogie che forse, in un’esposizione precedente dello stesso progetto, rimanevano più nascoste o viceversa. 

SB+MZ: Come ti relazioni nella coazione tra fotografia stampata su carta e apertura alla installazione? Che rapporto inneschi tra fotografia e scultura? I tuoi lavori installativi nascono già in origine così o è un rapporto che prende forma successivamente e dipende da ogni singola situazione o rapporto con lo spazio dove vai a esporre le tue opere?

JV: Questa domanda, ricorrente nei miei pensieri, provoca in me una lunga serie di riflessioni e vi ringrazio per averla inserita. Vorrei provare a esaminarne alcune partendo da un punto cardine: non in tutti i miei progetti l’opera fotografica, in senso stretto del termine, è da considerarsi una coercizione. All’opposto, ritengo che alcuni miei lavori abbiano la necessità di essere espressi solamente attraverso l’utilizzo di fotografie a parete e questo aspetto per me ha un valore positivo, poiché mi permette di esprimere i concetti con chiarezza, con meno elementi e quindi più velocemente. Non è dunque una pura questione di volontà, ma preferisco ritenerla una necessità. Superlunare,per esempio, ha un carattere installativo più invadente rispetto ad altre mie ricerche. In questo caso la ragione è legata ad aspetti di natura progettuale e si relaziona con lo spazio atto a ospitarla. In Vis Montium,invece, la scultura è una forma di ricerca che utilizzo per indagare maggiormente il concetto della dislocazione di un oggetto e le sue conseguenze. Questi due lavori hanno dunque una volontà installativa sin dall’origine della creazione del dossier progettuale. Diversamente per il mio primo lavoro Volcano’s Ubiquity, come anche per UNICACINA, non ho pensato in principio a un apparato installativo, ciò nonostante le cose potrebbero cambiare se si venisse a creare una richiesta diversa da parte dello spazio in cui viene esibito il lavoro. In definitiva inizio il progetto con dei pensieri, che però non hanno una posizione conclusa, ma possono evolversi durante il loro corso. 

SB+MZ: Per quanto riguarda UNICACINA che rimandi metti in  relazione attraverso cibi, oggetti, colori, nel rapporto  fra due realtà, quella cinese e quella italiana? Anche in questa serie che ruolo dai al dislocamento di uno o più oggetti estratti dal loro contesto e isolati in altri ambienti?

JV: In UNICACINA ho deciso di inserire una serie di Nature Morte ripetitiva e interamente eseguita all’interno di Palazzo Datini, situato nel centro storico di Prato. La scelta dello spazio, una sala affrescata con il ciclo delle Virtù, e il piano di appoggio degli oggetti, un tessuto bianco autostirante prodotto da una ditta locale cinese, hanno un’importanza fondamentale per la fruizione del progetto. Questi due elementi, unitamente al contenuto posto al centro della fotografia, scatenano una serie di riflessioni che possono mutare in ognuno di noi. I cibi, come gli altri oggetti che ho ritratto, sono largamente utilizzati dalla popolazione cinese locale e sono sia di provenienza asiatica sia italiana: la differenza è percepibile attraverso la diversità dei formati delle opere. Isolando per esempio un trancio di tofu, acquistato in un supermercato cinese, ed estraendolo dal bancone, ne cambio completamente la sua fruizione affiancandolo a un affresco rinascimentale. Questo è quanto mi interessa: la creazione di domande. Come mai questa scelta? Che relazione hanno il tessuto, il cibo e l’affresco tra loro? Diversamente da altri miei lavori, in questa occasione sono oggetti di uso comune a essere lo spectrum della fotografia. Ma anche in questo caso la dislocazione è un atto evidente, come evidente è la necessità di estrapolare il singolo da una moltitudine, in modo tale da focalizzarsi unicamente su esso in quanto contenuto principale. 

Jacopo Valentini, From the series Unicacina – photo open up – Galleria Civica Cavour, 2020, courtesy Traffic gallery
Jacopo Valentini, installation view from the series Unicacina – Palazzo Rasponi II, 2020, courtesy Traffic Gallery

SB+MZ: L’esotico orientale a Prato e la coazione di due culture. Cosa lasci in sospensione, tra valori pittorici e aperture sottese, con rimandi a incontri avvenuti in passato, nella costruzione che traspare dalle tue fotografie?
JV: Per alcuni aspetti questo è un progetto che, più di altri, ha una importante valore sociale. La mia indagine, che ha preso vita durante una residenza presso Dryphoto Arte Contemporanea in collaborazione con il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci nel 2018, vuole osservare il rapporto fra queste due realtà, italiana e cinese, messe a confronto. Più che un senso conflittuale ho riscontrato una contaminazione tra le due comunità, anche solo parziale. Il percorso dei flussi è bilaterale sin da un tempo che potrebbe risultare sorprendente. Mi viene in mente una fotografia che ritrae un affresco della Cappella Manassei all’interno del Duomo cittadino. Le visibili mura cittadine sono più che una semplice chiusura. Dal mio punto di vista infatti sono una sorta di porte scorrevoli che si aprono all’occorrenza, sia in entrata che in uscita. 

SB+MZ: Alla luce di tutto quello che è stato preso in considerazione dal gruppo che ha partecipato con Ghirri al progetto Viaggio in Italia e dagli altri artisti che hanno lavorato attorno alle questioni aperte del paesaggio con numerose soluzioni formali e declinazioni, tu e gli artisti della tua generazione come vi approcciate con questo vasto tema che ha dato visibilità internazionale alla fotografia italiana? Quanto spazio dai all’analisi del landscape nella tua ricerca? 

JV: Credo che gli autori della mia generazione e di quella precedente abbiano avuto la fortuna di poter osservare da vicino l’operato di questi artisti che hanno segnato, e in parte segnano oggigiorno, un’epoca artistica. Agli inizi della mia ricerca riflettevo su questioni ancora ben radicate in me, inerenti a questi autori e sin dal principio mi ripetevo come fosse necessario aggiungere qualcosa a quanto già fatto, tenendo sempre conto dell’importanza che la storia ci ha lasciato. Penso che sia fondamentale una conoscenza di quello che è stato per poter elaborare un pensiero nuovo, sperimentale, che possa portare a un diverso genere di riflessioni, ma rimanendo legato ad alcune forti tematiche. Mi considero un autore che indaga il paesaggio, ma questo per me non ha dei limiti ben definiti. Tutt’altro, a volte sono decisamente sottili e questo aspetto mi incuriosisce estremamente. Aggirarsi lungo un confine non completamente palpabile è una pratica che mi entusiasma. Nella mia visione il paesaggio è contenuto in una serie di differenti, e alle volte apparentemente lontane, situazioni. Come definire uno spazio? Come definire un’area? Proprio attraverso l’intreccio di questi strati ambisco a raggiungere una lettura trasversale per comprendere un sistema. Attraverso l’intersezione di una moltitudine di livelli si può ottenere una comprensione completa di ciò che noi ancora chiamiamo territorio, in tutte le sue forme. Non sempre, tuttavia, questi diversi campi di discussione possono coesistere insieme. Ogni caso è specifico e ogni situazione deve essere studiata con un approccio calibrato per capire cosa è rilevante e cosa no, in modo tale da avere una scorrevole narrazione visiva. 

SB+MZ: Che significato e valore proietti nella definizione di uno spazio e di una area nella costruzione di una tua immagine fotografica?

JV: A oggi una riproduzione puramente topografica e fedele della realtà non ritengo sia più così interessante, per la mia ricerca ovviamente. Spazi interni, esterni e semi esterni acquisiscono un nuovo valore se ad essi vengono affiancati altri contenuti. È interessante anche la possibilità di esprimerli attraverso molteplici chiavi di fruizione. Il mio operato al suo interno non presenta mai direttamente la figura umana, ma l’aspetto antropico è sempre ben radicato, tangibile. A volte ci sono immagini che possono esistere da sole per essere comprese, altre volte invece nasce la necessità di un appoggio, sia visivo che di contenuto. 

SB+MZ: Hai realizzato una nuova serie per Cantica, il progetto legato a Dante? Ci parleresti di questo tuo ultimo lavoro?

JV: A fine 2020 ho iniziato a gettare le fondamenta per un nuovo progetto dal titolo Concerning Dante – Autonomous Cell, selezionato per il progetto Cantica21, indetto dal MiC e dal MAECI. Per questa fase sto lavorando a un polittico, destinato alla Galleria Civica di Modena / FMAV, che sarà terminato nei prossimi mesi. I contenuti protagonisti di questa prima fase saranno tre paesaggi onirici messi in relazione ad altre tre ricerche visive realizzate in precedenza sulla figura di Dante. Non voglio aggiungere altro al momento a parte che questa ricerca sulla figura dantesca, portata avanti in collaborazione con il curatore Carlo Sala, otterrà un più ampio respiro a fine 2021 quando si esaurirà. 

SB+MZ: Come hai costruito la tua mostra ora in corso alla Traffic Gallery? Quali relazioni hai messo in azione tra le singole opere accostate per evocare ulteriori collegamenti di senso?

JV: La mostra è stata sviluppata insieme a Roberto Ratti di Traffic Gallery. In questa occasione ho deciso di realizzare una Natura Morta di dimensioni elevate e di porla al fianco di altre fotografie, che ritraggono interni di piccole dimensioni. Ultimamente sto sperimentando questo genere di ribaltamento in più progetti. Ho pensato che questo mio lavoro fosse giusto per questo spazio e sin dall’inizio ho trovato il consenso della galleria. Questo allestimento essenziale di sole fotografie, singole o dittici, crea un gioco di rimbalzi fra una parete e l’altra, semplice e diretto. Il percorso narrativo viene a crearsi attraverso il dialogo fra le due stanze principali che si fronteggiano, per poi ridursi ai singoli ambienti.

Jacopo Valentini, installation view from the series vis montium – Giovane Fotografia Italiana #07, 2019, courtesy Podbielski Contemporary
Jacopo Valentini, installation view from the series vis montium – una vetrina, 2020, Courtesy Podbielski Contemporary

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