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I (never) explain #111 | Flavio Favelli

Flavio FavelliSerie Venezia (Estate 1972) composizione di specchi al mercurio con cornice 136×96 cm2019 Necessaria introduzione per un inquadramento generale dell’opera (e forse per scoraggiare il lettore superficiale)  Attorno al 2002 presentai i primi “specchi-archivio” che consistevano in una composizione-mosaico di tessere dello specchio originale della specchiera – tagliato in quadri di circa 4×4 cm – che […]

Flavio Favelli, Estate 1972, 136×96 cm

Flavio Favelli
Serie Venezia (Estate 1972)
composizione di specchi al mercurio con cornice 
136×96 cm
2019

Necessaria introduzione per un inquadramento generale dell’opera 
(e forse per scoraggiare il lettore superficiale) 

Attorno al 2002 presentai i primi “specchi-archivio” che consistevano in una composizione-mosaico di tessere dello specchio originale della specchiera – tagliato in quadri di circa 4×4 cm – che esponevo con la sua cornice originale, antica, di solito in pastiglia e a volte decorata in oro zecchino. E poi anche un secondo tipo con un vetro nero (un materiale nuovo di nome Lacobel) con la stessa tecnica. Il risultato era che lo sguardo, il volto e la figura dello spettatore veniva scomposto, così come il riflesso dell’ambiente, con un effetto fra il mosaico e il “pixel”; sul vetro nero il riflesso diventava più evanescente. Smisi di produrre questo tipo di opere verso il 2015 e già da qualche anno avevo iniziato a “graffiare” il retro di vecchi specchi, che mostravano una patina dorata che presentavo, e presento, in varie composizioni o su pannello o con cornice originale. 
Questo cambio di operazione, dalla scomposizione del recto dello specchio, all’esposizione del suo verso, è un ulteriore soffermarsi sul “problema specchio”, oggetto chiave oltre che della mia esperienza, della mia poetica e in fondo della storia dell’Occidente. 
Da qualche anno ho presentato delle composizioni di retri di specchi al mercurio, sono specchi più antichi, di fine Ottocento e primi Novecento, che sono accostati secondo varie patine e segni. Provengono da specchiere antiche (che, se in buono stato e con cornici lavorate, sono di buon antiquariato) e sono generalmente di origine francese, anche se ricordano Venezia: ed è con questo titolo che ho chiamato quest’opera con cornice originale in oro, che consiste in una composizione di due retri di specchi al mercurio, macchiati da carta, stoffa e paglia che veniva messa fra il pannello di legno e lo specchio stesso.

Flavio Favelli, Estate 1972, 136×96 cm (Dettaglio)

Lo scritto che segue non è un testo, ma un’opera d’arte.

La patina scialbata grigio argentea, sembra sciupata, con sfumature evanescenti, pare come un muro di cimitero, di cemento, ma senza impedimento. Una simil malta che brilla, un variegato di polvere e graffi. Un po’ pigmento, un po’ caligine, un po’ sporco, il fantasma di questi segni, ombre, velature, di una materia appannata, esausta, macchiata e scolorita, avviva delle faccende psicologiche, anima delle figure sofisticate. La presenza della cornice che generalmente suggerisce un dipinto o uno specchio, è invece stagnata da una lastra grigia, meno rilucente della lamiera, una parete sozza e reietta, ma a tratti splendente.
Gli specchi di casa si ricordano per forza: sono i più guardati dentro, sono le cose più viste e meno viste insieme, perché lo specchio è un pensiero visivo, è una foto che svanisce, è un’immagine a tempo come il sogno, è un concetto, è la parvenza che non se ne va, è l’angelo custode che non protegge. 
Una delle discussioni più accese fra mia madre e mio padre, prima del fattaccio, fu quella su La vida es sueño di Calderón de la Barca. La vita è sogno o non è sogno? Mia madre, più robusta e realista, nonostante amante delle belle lettere e della poesia (era anni in cui la poesia esisteva ancora) era in fondo una donna pratica, una praticità imposta dalla situazione, era una donna disillusa. Mio padre, poeta autodidatta, faceva un po’ troppo l’artista incompreso; La vida es sueño, diceva nel lungo corridoio di via Montanelli a Firenze. 
Dicevo degli specchi che in estate si usavano di più, come il frigorifero. Quando venimmo a Bologna, in (via) San Vitale dai nonni e poi in (via) Guerrazzi, andammo a stare in case invernali, perché le vivevo nel quotidiano che era la scuola e l’inverno e non l’estate. L’estate mal si confaceva a quegli appartamenti carichi di cose, imbottiti di arredi e suppellettili che erano presenze con ombre, ma l’estate era caldabollente –Bologna d’estate è un piombo – e il corpo davanti allo specchio, meno coperto, mostrava i suoi desideri, i suoi impedimenti, le sue parti bianche. So bene di tutte le cornici degli specchi di casa, fissati forse per sfuggire al soggetto centrale. L’estate stava arrivando, la casa manteneva il fresco nel palazzo buio e con le mura spesse, quasi a fare resistenza. Gli occhi degli specchi erano sempre aperti, decisi a mostrare le cose nascoste. Nelle case borghesi e cattoliche dove ho vissuto, dove le cornici erano quasi più importanti di quello che incorniciavano, e dove le immagini sacre benedivano ogni stanza, c’erano tante specchiere.
Forse perché in chiesa era proibito. 

Flavio Favelli, Estate 1972, 136×96 cm (Dettaglio)
Flavio Favelli, Estate 1972, 136×96 cm (Dettaglio)

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I (never) explain – ideato da Elena Bordignon – è uno spazio che ATPdiary dedica ai racconti più o meno lunghi degli artisti e nasce con l’intento di chiedere loro di scegliere una sola opera – recente o molto indietro del tempo – da raccontare. Una rubrica pensata per dare risalto a tutti gli aspetti di un singolo lavoro, dalla sua origine al processo creativo, alla sua realizzazione.