ATP DIARY

New Photography | Conversazione con Carloalberto Treccani

Sara Benaglia + Mauro Zanchi: In I Can’t Breathe (2020) hai usato le ultime parole di Floyd riproposte in una chat di City Bank, in cui è esplicita la presa di posizione del CFO di City Bank, Mark Mason, contro la morte di George Floyd. Che relazione c’è tra intelligenza artificiale e sistema finanziario? Carloalberto […]

Carloalberto Treccani, American Dream #1 dollar (2013)

Sara Benaglia + Mauro Zanchi: In I Can’t Breathe (2020) hai usato le ultime parole di Floyd riproposte in una chat di City Bank, in cui è esplicita la presa di posizione del CFO di City Bank, Mark Mason, contro la morte di George Floyd. Che relazione c’è tra intelligenza artificiale e sistema finanziario?

Carloalberto Treccani: Sì, ho usato le stesse parole pronunciate da Floyd durante il suo arresto e poi uccisione. L’idea del lavoro è nata dopo aver letto la lettera del CFO di City Bank  pubblicata sul sito della banca, nella quale usa per 10 volte la frase “I can’t breathe”. Mi è subito venuto in mente il modo di dire “le banche non ti fanno respirare”. Ho dunque riutilizzato le stesse parole in una conversazione con i chat-bot di varie banche. Il risultato delle conversazioni è una serie di incomprensioni in cui i bot dichiarano di non avere capito le mie parole, mi invitano a consultare link vari, o in alternativa, mi chiedono di aspettare, essendo gli operatori al momento occupati. Ho trovato nelle parole dei bot una sorta di distacco, un mancato dialogo che in qualche modo sembra riflettere le stesse problematiche per le quali le banche vengono spesso criticate o malviste. Il lavoro non è una critica al sistema bancario, quantomeno non in toto, tuttavia vuole riflettere sull’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale da parte del sistema bancario, sulle loro implicazioni sociali, e dunque anche nella vicenda Floyd. Poiché il sistema bancario sempre più fa affidamento a soluzioni di intelligenza artificiale, è importante riflettere sulle problematicità (e.g. problematicità di accedere al credito per motivi di genere o razziali) e opportunità (i.e. un sistema di erogazione di credito più equo) che queste soluzioni comportano.

SB+MZ: Come è stato usato AirDrops durante le proteste di Hong Kong? Apple è molto competitiva nel mercato degli smartphones nel territorio autonomo?

CT: I lanci aerei – airdrops – sono stati a lungo una tattica per diffondere messaggi di propaganda al di là della linea nemica. In maniera simile, durante le proteste ad Hong Kong, AirDrops, il servizio di Apple per trasferimento di file, è stato usato dai manifestanti come strumento per diffondere informazioni tra i turisti cinesi – mainland – in città. Se AirDrops è attivato, contenuti di diverso tipo possono essere diffusi anonimamente, senza autorizzazione, tra le persone nelle vicinanze. Durante le proteste, sulla metropolitana, o in altri luoghi affollati, non era inusuale ricevere questo tipo di messaggi. Apple è molto attiva, come del resto lo è in molti altri paesi. Tuttavia, durante le proteste, è stata piuttosto assente.

SB+MZ: Che peso hanno Apple, Adobe, Google e Amazon nell’arte?
CT:Una prima considerazione, forse scontata, è quella che gli strumenti messi a disposizione da queste aziende, in parte, stanno determinando i lavori e il processo concettuale che porta alla loro realizzazione. Non si tratta certo di una semplice relazione causa-effetto, ma piuttosto di un processo complesso in cui le esigenze di alcune aziende, attraverso i loro strumenti, incontrano e in parte determinano le opere e il lavoro degli artisti. Una seconda considerazione, di senso opposto alla prima, è che fondamentalmente queste aziende sono poco o per niente interessate al mondo dell’arte. Esistono sì alcuni progetti e iniziative interessanti, come ad esempio Artists + Machine Intelligence Grants (una collaborazione tra Google Arts & Culture and Google AI). Tuttavia, in sostanza, Apple, Adobe, Amazon, e in parte Google, sono poco coinvolte e interessante al mondo dell’arte di per sé. Questo non vuol dire che il mondo dell’industria in generale sia completamente disinteressato alle questioni artistiche, anzi, numerose sono le iniziative in questa direzione anche sul territorio italiano. Tuttavia, queste iniziative si risolvono spesso, non sempre, in eventi o collaborazioni una tantum, e poche volte, invece, in progetti di lungo respiro che sappiano far interagire nel tempo, in maniera fruttuosa per entrambe le parti, arte e industria.

SB+MZ: Come hai convertito in immagini (o metatesto?) gli errori prodotti da macchine e algoritmi (M/A) nel processo di riconoscimento in I love paris in spring time (2019)? Che influenza pensi avranno nel tempo i metadata sul modo in cui concepiamo e fruiamo le immagini? Ti aspetti un “effetto boomerang” a tendere, che dopo il passaggio della fotografia in immagine trasformerà l’immagine in mero dato?

CT: Ho creato un piccolo archivio di immagini che ho poi fatto “lavorare” online, utilizzando dei servizi di image-recognition (AI) a pagamento (solitamente utilizzati da aziende per dividere e organizzare grandi quantitativi di immagini). Le predizioni, in forma di testo, sulla natura degli oggetti presenti in queste immagini, sono poi state utilizzate per realizzare le immagini che compongono il lavoro, rivelando così la natura manuale e una serie di problematiche legate al mondo dell’intelligenza artificiale (qui un mio articolo sul problema dell’annotazione manuale di immagini).
Non credo che dati e metadati cambieranno in maniera significativa il modo di fruire le immagini, quantomeno nella loro forma visiva. Credo, invece, che il valore delle immagini, in particolar modo quelle fotografiche, sia cambiato molto. Il valore di un’immagine non risiede più solamente nella sua parte visiva, ma anche nei dati che porta con sé. Per quanto riguarda il mondo di internet, ad esempio, non è di per sé importante il valore visivo di un’immagine, e cioè quello che un’immagine racconta attraverso la sua forma, quantomeno in parte, ma piuttosto i dati che questa immagine trasporta, per esempio la geolocalizzazione, cosa questi dati raccontano e come questi dati vengono usati, e la sorveglianza, il riconoscimento facciale, ecc. Credo sia qui che l’idea di immagine fotografica acquisisca oggi un senso più ampio. Il rapido sviluppo di macchine visivamente intelligenti, sensing machines e robot autonomi hanno fatto sì che l’immagine fotografica sia diventata sempre più un terreno condiviso tra uomini, macchine e animali.

Carloalberto Treccani, Bovezzo Mano Armata (2014)_book view
Carloalberto Treccani, Happy birthday Jesus #6 (2014)
Carloalberto Treccani – I Can’t Breathe (2020)

SB+MZ: A proposito di Sometimes your eyes do not see (2017): le macchine leggono le immagini o i loro dati? In che modo questa “visione” influisce su quella umana? Perché hai deciso di usare la HOG (Histogram of Oriented Gradients) per metterlo in luce?

CT:Qui la questione è un po’ diversa. Il desiderio di creare macchine visivamente ‘intelligenti’, a partire dagli anni ‘60, ha fatto sì che sviluppassero diverse soluzioni. La questione della visione, seppur possa sembrare relativamente semplice, rimane ancora sostanzialmente irrisolta: sia perché vediamo ciò che vediamo sia perché “riconosciamo” ciò che vediamo come tale rimangono fondamentalmente un mistero. L’idea degli HOG è in parte oggi accantonata, tuttavia il suo sviluppo è stata una delle ragioni del rapido progresso della machine vision e del ruolo chiave che la fotografia ha giocato nello sviluppo di questa tecnologia.

Alla base degli HOG, vi è l’idea che la luce arrivi quasi sempre da un’unica fonte luminosa posta in alto (in qualche modo un’idea molto fotografica). Data questa costante – la posizione di una fonte luminosa – è dunque possibile costruire una sorta di mappa di come la luce interagisce su un soggetto. Questa mappa luminosa, avendo caratteristiche simili, identifica di volta in volta una diversa categoria di entità presenti in un’immagine, e.g. un volto, una banana, un cane. Al di là della questione tecnica, quello che mi interessava, è il ruolo chiave che la fotografia ha giocato nella costruzione di macchine visivamente intelligenti. La questione, apparentemente banale, in realtà svela quanto i meccanismi che regolano la visione, sia biologica che artificiale, restino alquanto oscuri. Sometimes your eyes do not see, insieme ad I love paris in spring time, è un tentativo di far luce sulle difficoltà e complessità che regolano la visione artificiale e sul ruolo che la fotografia ha giocato nello sviluppo di questi sistemi.
Quanto la visione artificiale influisca su quella umana ci riporta alla questione della storicità della visione. Personalmente credo che la visione, e non la percezione visiva, sia astorica. O quantomeno questo è quello che i tentativi di creare macchine visivamente intelligenti sembrano mostrare. La questione tuttavia è ancora lontana dall’essere risolta.

SB+MZ: Che ruolo gioca l’errore di riproduzione in USA burning flags (2017)?

CT:Ho iniziato USA burning flags ormai diversi anni fa, dopo aver notato che alcune bandiere USA, utilizzate in particolar modo in Medio Oriente in diverse proteste per essere bruciate, presentavano alcuni errori evidenti (e tramite associazioni e privati cittadini, sono riuscito, tra mille difficoltà, a collezionare sei di queste bandiere). Questi errori non erano semplici errori, ad esempio nel numero di stelle in una bandiera, ma errori che in qualche modo stravolgevano la bandiera stessa, mettendone in discussione non solo la sua organizzazione visiva, ma più in generale il suo significato. Una operazione probabilmente inconsapevole, che tuttavia, credo, rappresenti perfettamente un momento storico molto incerto come quello contemporaneo. L’errore, in questo caso, rappresenta una serie di incomprensioni politiche, sociali, economiche e culturali, e rimette in gioco l’immaginario collettivo che ruota attorno a questo simbolo, oggi, forse, più che mai in crisi.

SB+MZ: A proposito di Happy Birthday Jesus (2014), che relazione c’è tra razzismo, armi, bianchezza, USA, cristianesimo e social media?
CT:Mi è molto difficile rispondere a questa domanda, credo però che una semplice ricerca per immagini, come quella fatta per HBJ, riveli un racconto in cui i sei elementi della domanda sembrano tutti emergere e dialogare fra loro. O quantomeno questo è il racconto che sembra presentarsi cercando #guns, #christmas e #US in Google. Le due cose che invece mi hanno colpito durante la realizzazione del lavoro, e che accomunano i tre lavori presenti nella pubblicazione (HBJ fa parte di Bovezzo Mano Armata, una pubblicazione a sei mani realizzata con Giovanni Fredi e Giorgio Mininno), sono l’età delle persone coinvolte (quasi tutti giovani, spesso adolescenti o addirittura bambini) e il modo in cui le armi negli USA facciano oramai parte di diversi aspetti della quotidianità, dal gioco, al dono o al Natale, ai social media.

SB+MZ: Guardando Hello Google, Fuck You Google (2012) ci siamo chiesti se in Google Street View piova mai?
CT: No, non piove mai, ma non c’è nemmeno sempre bel tempo. Credo che la ragione sia tecnica più che altro: quando piove le gocce d’acqua sugli obiettivi renderebbero difficile la fruizione delle immagini e forse anche l’operazione di stiching tra le immagini.

SB+MZ: Sei un artista e un ricercatore. In The Brain, the artificial neural network and the snake: why we see what we see (29 July 2019, AI & SOCIETY) in che modo Artificial Neural Networks (ANNs) possono aiutare a comprendere la visione umana e come pensi che una teoria della visione possa essere riarticolata in termini di prove ed errori?

CT:Il problema della visione è uno di quei problemi che apparentemente sembrano non-problemi. Apriamo gli occhi e ci ritroviamo davanti un mondo organizzato in oggetti con distinte forme, grandezze e colori. Tuttavia, come gli stimoli visivi provenienti dal mondo esterno si trasformino nel mondo visivo (mondo percepito) rimane una questione irrisolta. L’idea che il mondo fisico – il mondo là fuori – corrisponda al mondo retinico è infatti un’idea alquanto inesatta, se non erronea. Poiché non è possibile risalire al mondo fisico, come diversi studi psicofisici dimostrano, come e perché vediamo ciò che vediamo rimane pressoché un mistero.

Una possibile risposta è quella che la visione (biologica) operi per tentativi ed errori. Lo stesso principio operativo, similmente, si ritrova negli ANNs. Un esempio è il caso di AlphaZero (DeepMind group – Google) e di come, tabula rasa, abbia battuto il migliore giocatore al mondo di Go (si stima che il numero di mosse possibili in Go sia più grande del numero di atomi nell’universo). All’inizio, AlphaZero, muove in maniera casuale, tuttavia, nel tempo, impara da tentativi ed errori (sconfitte e vittorie), rendendo più probabile la scelta di mosse vincenti in futuro. L’idea che propongo, e che altri prima di me hanno proposto, è quella che ciò che vediamo non è altro che il risultato di tentativi ed errori durante l’evoluzione. Essendo il mondo fisico precluso, ciò che vediamo è ciò si è rivelato utile vedere in passato (nell’articolo questo passaggio è spiegato più nel dettaglio). Non vediamo dunque il mondo così come è, né una copia fac-simile di questo, ma vediamo il mondo così come ci è utile vederlo. Il mondo là fuori è probabilmente molto diverso da come lo vediamo. La validità di questa idea rimane tutta da dimostrare, tuttavia, quello che i tentativi di costruzione di macchine visivamente intelligenti stanno rivelando è la necessità di ripensare, almeno in parte, come la visione funziona. 

Se l’idea che la visione operi per tentativi ed errori è nella giusta direzione, diventa allora importante ripensare ciò che vediamo, e i modi in cui vediamo il mondo. Questa idea, ad esempio, potrebbe almeno in parte spiegare perché vediamo ciò che vediamo, perché ci piace ciò che ci piace, perché una particolare configurazione visiva è più “gradevole” di un’altra, o perché, ancora, alcuni elementi visivi (come ad esempio la figura del serpente) ricorrono nelle opere artistiche di diverse popolazioni, in aree del mondo diverse e in tempi diversi.

Carloalberto Treccani, I love paris in the springtime (2019) – installation view at ATC Conference, Sogang University, Seoul
Carloalberto Treccani_Sometimes your eyes do not see #3 (2017)
Carloalberto Treccani – The Illuminated man (2010) – installation view at 9′ Mulhouse biennale, Mulhouse

SB+MZ: Alla luce del tuo lavoro e delle tue ricerche, come definiresti la fotografia oggi? Ha ancora senso mantenere una distinzione disciplinare?

CT:Credo che una distinzione disciplinare possa essere ancora mantenuta. Tuttavia, questo non esclude che oggi vi siano anche immagini fotografiche che sembrano avere più a che fare con altri mondi, con la pittura, con la scultura, con il mondo dei dati ecc. Forse non è un caso che oggi la parola fotografia sia spesso accompagnata da un termine qualificante, che di volta in volta ne declina il tipo, o le affinità, computational photography, post-photography, non human-photography, ecc. Forse, ancora, questo potrebbe essere inteso come un segno di maturità; finalmente non ci si interessa più di tracciare confini precisi nella quale qualcosa è, e qualcosa non è, fotografia, ma né si accetta la natura pluriforme. Invece di continuare a interrogarci su cosa è la fotografia, forse potremmo – o dovremmo – iniziare a porci altre domande.

SB+MZ: Nel progetto The illuminated Men (2010), cosa hai innescato attraverso la possibilità di ricreare una rete di connessione e che logica hai rotto?
CT:Intorno al 2010, si parlava di chatroulette, cam-chats ed Instagram era appena nato. All’epoca ero particolarmente “fissato” e incuriosito da questo nuovo mondo. Ero rimasto affascinato dalla luce bluastra che mentre illuminava i volti delle persone con cui parlavo ne cancellava anche i tratti (la qualità video era piuttosto scarsa e il risultato erano facce con grandi macchie di luce che tendevano a cancellare i tratti del viso). Ero incuriosito anche dal fatto che i miei interlocutori, io compreso, data la posizione sfasata della camera e dello schermo, non guardassero mai negli occhi la persona con cui stavano parlando, ma lo schermo, quasi come se ne fossero catturati. Ho così realizzato un’installazione in una stanza buia nella quale i ritratti dei miei interlocutori venivano caricati su vari dispositivi. Entrando nella stanza, dato il cambio di luce repentino, i volti di queste persone tendevano a lasciar posto alla luce dello schermo. Poi, una volta abituatisi all’oscurità dell’ambiente, i volti tendevano a riemergere. Il lavoro era una sorta di indagine su come i dispositivi tecnologici dotati di schermo avessero creato una sorta di dipendenza tecnologica.

SB+MZ: Cosa hai spostato ulteriormente con IN VIAGGIO #1 DAL 06/01/2011 AL 20/02/2011, in rapporto con ciò che Luigi Ghirri aveva iniziato a indagare con Atlante? Che rapporto concettuale hai individuato tra lo sguardo, la percezione del paesaggio e dei territori geografici, le mappe e le cartine, nel nostro tempo pervaso dall’ipertecnologia?

CT:Il lavoro si rifà chiaramente a quello di Ghirri, e se qualcosa sposta, è forse da intendersi più come un aggiornamento alla luce delle nuove possibilità tecnologiche, quali ad esempio realtà aumentata. Quello che trovo ironico oggi, a quasi 10 anni di distanza, è come questo lavoro sia in qualche modo in linea con il pensiero terrapiattista che, sia chiaro, non condivido.  Se da un lato la rappresentazione dello spazio, e la sua fruibilità, si è espansa (AR e VR), dall’ altra la sua fruizione attraverso uno smartphone, ad esempio, l’ha nuovamente appiattito. La sparizione del punto di vista, come dice Ana Peraica nel suo libro The Age of Total Images: Disappearance of a Subjective Viewpoint in Post-digital Photography (2019), ha fatto sì che si perdesse “l’angolo fotografico” e dunque la tridimensionalità dello spazio. La costruzione di un’immagine totale, composta da più immagini vicine una all’altra – si pensi a Google Maps o alla oramai famosa fotografia di un buco nero-, riprende chiaramente le logiche della mappa, in cui il punto di vista della camera viene sostituito dalla prospettiva tecnica della mappa. In qualche modo, ironicamente, il mio lavoro In Viaggio risulta oggi un omaggio ai sostenitori della terra piatta. 

SB+MZ: Rispetto alla tua indagine degli anni scorsi su tematiche legate al popolo statunitense – American dream (2013), Happy birthday Jesus (2014) e USA burning flags (2017) – cosa vedi ora guardando verso ciò che potrà accadere dopo la caduta di Trump? Ci parleresti anche dei tuoi tre lavori “americani” che abbiamo citato nella domanda?

CT:American dream nasce in seguito alla vicenda di Edward Snowden. Con un’operazione di intaglio, ho spostato le pupille di George Washington raffigurato sulla banconota da 1 dollaro, rendendolo così uno “spione”. Happy birthday Jesus, come detto in precedenza, è una sorta di indagine sociale sul mondo US attraverso l’elemento arma. USA burning flags, invece, riflette sull’immaginario intorno alla bandiera stelle e strisce e sulla sua distorsione. Rintracciare un motivo comune tra i tre lavori mi è molto difficile. In questi ultimi anni si è parlato molto di USA, spesso per ragioni non particolarmente positive. Credo che questo mi abbia influenzato molto, e credo sia la ragione che unisce i tre lavori. Anche se Trump non sarà più presidente, la sua eredità si farà sentire ancora per diversi anni. Per la mia ricerca di dottorato ho avuto modo di vivere negli USA per qualche mese. Nella mia piccola e limitata esperienza americana, ho trovato gli USA un paese ricco con molti poveri. Le disuguaglianze si stanno facendo sentire in modo particolare e credo che i prossimi anni, saranno fondamentali nel determinare il futuro di questo paese.

SB+MZ: Cosa non vuoi vedere ora con i tuoi occhi? Cosa ti infastidisce rispetto alle immagini?

CT:Guardo un po’ di tutto senza problemi. Trovo che l’idea che ci siano troppe immagini sia un po’ bizzarra, quasi come se ci fosse un limite oltre il quale un certo di numero di immagini diventa in eccesso. Quante immagini sono troppe immagini? Credo questa idea appartenga particolarmente al mondo della fotografia, più che ad altri media, e abbia qualcosa a che fare con il concetto di sottoesposizione e sovraesposizione. Questa idea, in maniera discreta, sembra creare una distinzione tra la produzione di immagini – fotografiche – contemporanea e quella passata, dove la prima assume un carattere in qualche modo negativo, mentre invece la seconda, in maniera un po’ nostalgica, positivo. Certo il sempre crescente numero di immagini ha reso sempre più impegnativa la navigazione e amplificato il carattere ripetitivo di alcune immagini, rendendole forse talvolta un po’ noiose; ma forse questo è dovuto più a una nostra incapacità che a un problema della fotografia di per sé. Probabilmente abbiamo bisogno di nuovi strumenti, anche concettuali, per poter meglio navigare e comprendere l’enorme produzione di immagini contemporanea.

Carloalberto Treccani_USA burning flags #1 (2016 – ongoing)_ installation view
Carloalberto Treccani_USA burning flags #1 (2016 – ongoing)_ installation view

Per leggere le altre interviste della rubrica NEW PHOTOGRAPHY